Non c’è modo di quantificare con precisione la colossale quantità di droghe che i Black Sabbath hanno inalato nel 1972 durante la realizzazione del loro quarto album, che speravano di intitolare Snowblind, in omaggio alla loro polvere preferita. L’unico elemento a loro disposizione per fare un calcolo è il conto che il loro manager ha presentato quando hanno finito. «Che tu ci creda o no, fare il disco è costato credo 65 mila dollari», racconta il bassista Geezer Butler, «mentre il conto della cocaina era di 75 mila».
«A quel tempo la coca che girava era buona e la facevamo importare con un aereo privato», ricorda scanzonato il chitarrista Tony Iommi. «Ecco perché in quel periodo tutti i musicisti si presentavano a casa nostra, fingendo di venire a trovarci. Eravamo praticamente dei contrabbandieri».
«Abbiamo trascorso molte notti brave», dice il frontman Ozzy Osbourne, che ora si pente di aver esagerato. «Restavamo svegli tutta la notte».
«Ci sono alcune cose di quel periodo di cui non posso parlare», aggiunge il batterista Bill Ward. «Adesso ho dei nipoti. Devo tenermi fuori da tutto questo».
All’epoca i quattro musicisti avevano poco più di vent’anni e avevano appena raggiunto il successo. Nei due anni passati da quando avevano causato l’esplosione dell’heavy metal con i riff gargantueschi e i testi da film horror del loro omonimo album di debutto, avevano piazzato il secondo disco, Paranoid, al primo posto delle classifiche inglesi, e mantenuto lo slancio con il terzo, Master of Reality. Quei dischi hanno permesso loro di lasciare Birmingham, in Inghilterra, e girare il mondo, sperimentando tutto ciò che questo comportava. Quindi, nella primavera del 1972, volavano alto – in senso figurato ma anche letterale – e si sono messi a fare il quarto disco. Durante la realizzazione, hanno finalmente potuto concedersi il lusso di prendersela comoda e scrivere le canzoni nel comfort di una villa in California.
Con deadline flessibili e droghe illimitate, i Black Sabbath hanno finito per incidere un capolavoro, anche se la loro etichetta, la Warner Bros, si è rifiutata di intitolarlo Snowblind. Il disco, ribattezzato Vol. 4, sembrava più sofisticato rispetto ai tre precedenti. Canzoni come Supernaut e Cornucopia erano più incisive, le ballate Changes e Laguna Sunrise suonavano meglio, l’interludio donchisciottesco FX era un trip e i brani più pesanti come Wheels of Confusion, con quelle note di chitarra che sono come un pugno, e l’ode alla cocaina Snowblind erano un modo elaborato per mostrare le nuove profondità raggiunte dai Black Sabbath. La copertina, che mostrava Ozzy Osbourne con le braccia alzate che faceva il segno della V, diceva tutto: era il loro trionfo.
«Non dimenticare che venivamo dalle strade di Birmingham e adesso avevamo una casa a Bel-Air e un disco di successo, la gente conosceva la nostra musica ed eravamo i re del mondo», dice Osbourne. «Così abbiamo sperimentato tutto ciò che potevamo».
L’album è stato un successo immediato, raggiungendo la posizione numero 8 nelle classifiche del Regno Unito e la numero 13 di quelle degli Stati Uniti, dove in seguito sarebbe diventato disco di platino. Quando Rolling Stone ha stilato la classifica dei 100 migliori album heavy metal, Vol. 4 si è piazzato 14esimo, solo poche posizioni dietro Black Sabbath e Paranoid.
Adesso esce un nuovo cofanetto per dare all’album l’attenzione che merita. Oltre a contenere una versione rimasterizzata di Vol. 4, l’edizione super deluxe include versioni alternative di alcuni brani, scambi in sala d’incisione, un album dal vivo con registrazioni inedite del marzo 1973, un libro pieno di foto rare e un poster mai visto prima risalente a quando il disco si chiamava ancora Snowblind. Nei brani scartati c’è Osbourne che canta testi diversi (Wheels of Confusion ad esempio parla di ecologia), canzoni con titoli leggermente diversi (Snowblind all’inizio si chiamava Snowflakes e Osbourne aveva intitolato Wheels, Bollocks) e una versione più lenta di Changes. Tutto sommato, l’edizione da collezione è una rara cronaca della genesi di uno dei punti di svolta dell’heavy metal.
«Ho trovato alcuni outtake piuttosto interessanti e divertenti», dice Ward. «Alcune delle cose di Ozzy e di quelle che come gruppo stavamo sperimentando sono interessanti. Sono intime. Mostrano che eravamo degli esseri umani in studio e commettevamo degli errori. Ci rendono umani».
I Black Sabbath avevano iniziato il 1972 con un breve tour nel Regno Unito. In quell’occasione era stata scattata la celebre foto di copertina, durante un concerto nella loro città natale, Birmingham. «La V, il simbolo della pace, era solo una cosa che facevamo», racconta Osbourne. «La facevano tutti, quindi l’ho fatta anche io e basta. Ma non era il mio genere di gesto. Ero tutt’altro che un ragazzo pacifico». Era stato proprio a quel concerto che il gruppo aveva suonato per la prima volta Tomorrow’s Dream. Si apre con una pesante linea di chitarra e Osbourne che canta di quanto non si sente amato. “When sadness fills my days / It’s time to turn away”, dice il ritornello, “and let tomorrow’s dream become reality to me”.
«A ispirarla in realtà sono stati Marc Bolan e T. Rex», dice Butler, che ha scritto i testi, e aggiunge di non aver mai conosciuto Bolan personalmente. «Ogni volta che ci penso mi ricorda quanto tutto sia fragile. Era molto famoso in Inghilterra, ma sconosciuto fuori. Ed era l’esempio perfetto di quanto sia delicato fare una pop star. Un giorno sei famosissimo, il giorno dopo vieni dimenticato» (all’epoca, il frontman glam dei T. Rex aveva appena pubblicato Electric Warrior, che era arrivato alla posizione numero uno delle classifiche inglesi, mentre in America si era fermato alla posizione 32).
Una volta terminato il tour, i Black Sabbath hanno iniziato a registrare il loro quarto album ai Marquee Studios di Londra. Secondo il libro di David Tangye e Graham Wright How Black Was Our Sabbath, nel giro di tre giorni la band ha fatto Snowblind e l’interludio psichedelico avant-garde FX. La prima traccia ha dato il tono a tutto l’album, con il suo mix di accordi di chitarra monolitici e arpeggi gotici. I testi, naturalmente, rendevano omaggio alla nuova ossessione preferita dai membri della band. «Era un periodo in cui ci facevamo davvero un sacco di cocaina», spiega Iommi, «e ci piaceva di brutto».
«Abbiamo scritto Snowblind perché la cocaina è stata la scoperta più incredibile della nostra vita», racconta Osbourne. «Abbiamo pensato che fosse quello il successo, ma poi la cocaina si è rivelata essere la nostra peggiore nemica. Ci siamo buttati a capofitto in quella merda ed è stato terribile. Tanto che adesso tra me e me penso: ma che cazzo avevo in testa per pensare che fosse una bella vita? Era una serata che non finiva mai. Durava sempre fino al mattino dopo».
Ciò che rende interessante quel periodo dopo tutti questi anni è la tristezza che traspare in una canzone che parla di una droga come la cocaina. «Suppongo alla fine il senso fosse che avevamo paura di diventarne dipendenti», dice Butler parlando del testo.
Ma se Snowblind parlava di droghe a livello teorico, FX ne è una versione pratica. «Avevo appena finito di fare l’assolo o qualcosa del genere», ricorda Iommi. «Ho messo la mia chitarra sul supporto senza abbassare il volume. C’era del feedback, l’ho toccata e ovviamente i tecnici del suono hanno registrato tutto. È stato folle, perché eravamo abbastanza fuori di testa».
«Tony si era tolto tutti i vestiti, era rimasto con addosso solo la sua catenina con la croce, e la sua croce aveva cominciato a rimbalzare sulle corde della sua chitarra», dice Butler. «Stava ballando nudo nello studio di registrazione. E l’ingegnere del suono ha messo un effetto che suonava abbastanza bene, quindi abbiamo preso la sua catenina e abbiamo cominciato a usarla per colpire le corde».
«Poi tutti hanno iniziato a ballare e a picchiare le corde, penso che fossimo tutti nudi», aggiunge Iommi. «Penso che le cose siano sfuggite un po’ di mano. È stata una cosa stupida, una di quelle cose che ovviamente non finiscono mai negli album. Poi però qualcuno ha detto: perché non ce la mettiamo?».
Dopo aver registrato alcune canzoni, i Black Sabbath sono tornati in tour per una serie di date negli Stati Uniti, dove hanno aggiunto Snowblind al loro set. Dopo alcune settimane di riposo, sono tornati sulla costa occidentale per finire le registrazioni.
La villa di Los Angeles in cui i Black Sabbath si sono stabiliti si trova in Stradella Road, una via isolata nel quartiere di Bel-Air. Secondo il catasto la casa, con sei camere da letto, fu costruita nel 1936 e ristrutturata nel 1970, poco prima dell’arrivo dei Black Sabbath. La tenuta apparteneva a John du Pont, un filantropo ed erede della fortuna della sua famiglia, ma che ci viveva raramente. Così i Black Sabbath si sono sistemati per bene. «Era una casa favolosa, con una sala da ballo e un po’ di tutto», ricorda Iommi. «Avevamo sistemato l’attrezzatura in una stanza vicino alla piscina e potevamo semplicemente provare, scrivere cose durante il giorno e fare festa di notte». In poco tempo, aveva cominciato ad arrivare la droga.
«Avevamo uno spacciatore che si faceva vedere di tanto in tanto», dice Butler. «Lui aveva queste scatole di detersivo, solo che invece del detersivo erano piene di cocaina. Svuotava letteralmente queste scatole di cocaina al centro del tavolo. Era una piccola montagna. E poi facevamo arrivare altre droghe tramite persone che conosceva il nostro manager», Butler fa una pausa. «La mafia. Arrivava in queste boccette sigillate con la cera. Cocaina pura al 100%. Quello era il bello».
«Una volta ero seduto a bordo piscina e ho detto a un ragazzo seduto accanto a me, “Ci siamo fatti dell’ottima coca ieri eh”, e lui ha risposto, “Beh, te l’ho venduta io”», ricorda Osbourne. «Oh, ok. Che fai nella vita? E lui: “Lavoro per la Food and Drugs Administration”. Io mi sono spaventato, ma lui mi ha detto “No, va tutto bene”. Avrebbe potuto farmi arrestare, non lo so. Quando sei fatto di quella roba ti sembra tutto fantastico, ma cinque secondi dopo diventa tutto orribile».
La buona qualità della droga aveva attirato anche molti colleghi della band. «Venivano Pete Townshend e altra gente, per ovvie ragioni, ovviamente, con tutte le droghe che giravano», dice Iommi. Ma il cocktail di droga, ospiti e l’amore della band per gli scherzi aveva raggiunto il culmine una volta che era passata a trovarli la troupe dei Deep Purple. «Tony era così fatto che voleva fingere di essere un fantasma per cercare di spaventarli», racconta Butler. «E io pensavo: cosa? Di cosa stai parlando? E intanto erano arrivati loro, stavamo facendo un po’ di casino, qualche spinello, e a un certo punto era arrivato Tony con un lenzuolo bianco addosso gridando “Uhhhhh”. Lo avevano guardato come se fosse completamente pazzo. Lui era convinto che li avrebbe spaventati».
Un’altra volta, la curiosità del gruppo li ha quasi distrutti. La band era seduta attorno a un tavolo con sopra una montagna di cocaina, quando Osbourne notò un bottone vicino a una finestra. «Ha detto, “Chissà cosa fa questo pulsante”, l’ha premuto e non è successo niente», racconta Butler.
«Pensavo fosse l’aria condizionata», dice Osbourne.
«Così l’ha premuto di nuovo», dice Butler. «Non succedeva niente. E di nuovo, non è successo niente. Così si è seduto. Ci eravamo seduti tutti a farci di coca, a fumare spinelli, e a un certo punto avevamo visto fuori un sacco di luci blu lampeggianti».
«Avevo guardato fuori dalla finestra e c’era la polizia», ricorda Iommi. «Erano entrati nel vialetto, tre o quattro auto della polizia, e tutti ci eravamo affrettati a cercare di nascondere la droga. Un casino totale».
«Ho detto: oddio, adesso ci arrestano tutti», racconta Osbourne.
Si è poi scoperto che Osbourne aveva premuto il pulsante antipanico della casa, un allarme silenzioso che chiamava le autorità. «All’epoca in casa c’era una cameriera», racconta Butler. «Così le abbiamo detto di bloccare la polizia. Lei è andata alla porta mentre noi scaricavamo nel cesso tutta la cocaina e l’erba che avevamo. E il poliziotto ha detto solo: va tutto bene? E la cameriera: sì, sì. Poi la polizia se n’è andata. In tutto ciò avevamo butto nel cesso 5000 dollari di cocaina». «Un falso allarme», dice ridendo Osbourne, che ha scritto It’s a Raid proprio su quell’incidente, per il suo album da solista del 2020.
Ma alla porta non c’era sempre la polizia. «Un giorno avevamo deciso di fare una battaglia con i gavettoni, ci lanciavamo l’acqua l’un l’altro», dice Iommi. Butler ricorda di aver portato in casa un idrante. Continua Iommi: «A un certo punto era suonato il campanello, Ozzy era andato alla porta e il tizio che era arrivato era il fottuto proprietario della casa. “Che diavolo sta succedendo?”». Quindi, come hanno spiegato la situazione al signor du Pont? Secondo Butler, offrendogli dei soldi.
«Avremmo dovuto scrivere Paranoid come album dopo Vol. 4», continua Osbourne, «perché dopo quell’esperienza siamo diventati tutti dei relitti paranoici».
Tra le varie imprese, la band si concentrava anche sulla musica, registrando al Record Plant, uno studio molto più grande di quello a cui erano abituati. «Mi sembrava che lì fossimo in grado di ottenere suoni più pesanti», dice Ward. «Avevamo più tracce a nostra disposizione. Persino il batterista aveva più tracce, una cosa che nel 1972-73 era pazzesca».
Quando non tiravano fuori groove assordanti, sperimentavano suoni più delicati. Una notte, Iommi aveva deciso di suonare il pianoforte nella sala da ballo della villa. «Non avevo mai veramente suonato quel piano, finché una notte non mi era capitato di sedermici e armeggiarci, e avevo iniziato a suonare un brano», dice. «Poi è arrivato Ozzy e ha iniziato a cantare. Dopo di lui è entrato Geezer. All’epoca avevamo un Mellotron, lo strumento che simula gli archi, e Geezer aveva iniziato ad accompagnare il piano. Improvvisamente avevamo una canzone».
«Sembrava venuta fuori dal nulla», ricorda Osbourne. «Ed era bellissimo».
Così è nata Changes, una ballata commovente sulla fine di una relazione. Nella prima versione della canzone contenuta nel cofanetto del Vol. 4 c’è Osbourne che canta un testo leggermente diverso, che parla di un’amante che si comporta male. Butler ha ammorbidito un po’ le parole cercando di renderle più personali. «Tony aveva appena rotto con la sua ragazza in quel momento, Bill stava per divorziare», dice il bassista. «Quindi c’era un’aria piuttosto malinconica nella casa, e io l’avevo colto».
«Sì, ho scoperto che il brano era su di me», dice Ward con una risata, dal momento che l’ha scoperto solo cinque anni fa. «In quel periodo, forse un anno o due anni prima, avevo attraversato una situazione molto triste con la mia prima moglie e avevo iniziato una nuova relazione. Credo che Ozz o Geezer avessero visto l’effetto che quella cosa aveva avuto su di me, mentre io non ci riuscivo».
L’altra canzone dolce dell’album era la strumentale acustica Laguna Sunrise, dal nome di una spiaggia nella contea di Orange dove la band amava passare il tempo. Era stato lì che Butler aveva provato per la prima volta seriamente l’LSD. «Eravamo andati a casa di questa ragazza a Laguna Beach», ricorda. «Aveva una tenuta da quelle parti, che avrà avuto un valore di 50 milioni di dollari o giù di lì. E avevamo preso la psilocibina e altra roba del genere. Poi eravamo scesi tutti in spiaggia e uno del nostro gruppo si era tuffato da un trampolino, pensando che sotto ci fosse il mare, ma non c’era. Si era quasi rotto il collo. Intanto io vedevo scheletri e cose davvero strane, e suppongo che un po’ di quelle cose siano finite nei testi».
Iommi ha ricordi più tranquilli: la musica del brano gli è stata letteralmente ispirata dal vedere il sorgere del sole su quella spiaggia. Quando quel giorno stesso è tornato alla villa ha preso la sua chitarra acustica e si è messo a comporre (alcuni dei primi tentativi di Iommi sono tra le outtake nel cofanetto). Mentre suonava, ha avuto l’idea di rafforzare il pezzo con un arrangiamento orchestrale di archi, e così lui e Butler si sono procurati un violino e un violoncello per provare a farlo da soli. «È stato assolutamente disastroso», dice Iommi. «Il risultato sembrava il miagolio di un gatto che sta morendo. È stato orribile. Avevo comprato un violino senza avere idea di come suonarlo. Non so che cosa avessi in testa».
«Uno vede le orchestre sinfoniche e pensa: oh, so suonare il basso e so suonare la chitarra, quanto potrà essere difficile il violoncello?» dice Butler. «Poi ho preso in mano il violoncello. Non riuscivo a farci nulla. Devi essere un vero musicista per suonarlo».
Assunti dei veri musicisti, il pezzo era diventato uno dei più belli nel catalogo della band. «Posso dire una cosa», dice Ward, «ogni volta che ascolto Laguna Sunrise torno a Laguna Beach. C’era qualcosa di speciale».
«Laguna Sunrise è un pezzo bellissimo», dice Osbourne. «Mi sarebbe piaciuto provare a aggiungerci delle melodie, ma non potevo migliorare quello che avevano già fatto, quindi ho lasciato stare».
«Mettiamo sempre qualcosa di acustico nei dischi, per fare un po’ di luce, così il resto suona più scuro e pesante», dice Iommi.
Ma se le parti più leggere dell’album creavano preoccupazioni, il resto era innegabilmente opera dei Black Sabbath. Le cose più pesanti di Vol. 4 sono la sua traccia di apertura, Wheels of Confusion, e la sua traccia finale, Under the Sun. Entrambe le canzoni sono state registrate in diverse sezioni. Osbourne racconta come la band metteva insieme le idee in quel periodo. «Quello in cui eravamo davvero bravi era lo scrivere due canzoni, che venivano bene, poi prenderle e mescolarle e farne una canzone sola, che veniva ancora meglio», dice. «Prendevamo parti diverse di diverse canzoni. E funzionava bene. A un certo punto, come band, eravamo imbattibili».
All’inizio di Wheels, l’ingegnere del suono chiede: «Come si chiama questa?» Osbourne dice: «Bollocks». Ovvero, cazzate. La band parte con la canzone e Osbourne inizia a cantare dello stato disastroso in cui versa il pianeta. “Long ago this world of ours was green / Then there was atomic wars and all things / Man polluted everything around him / Now there’s nothing left for him to do, listen to meee now”. Arrivano a metà canzone e si fermano, e l’ingegnere del suono annuncia il take successivo come Bollocks 2. Entrambe le tracce contengono il testo di Osbourne sull’ecologia, ma dopo Butler l’avrebbe rivisto e trasformato in un testo che parla della lotta con se stessi. “Innocence was just another word”, canta Osbourne nella versione finale. “Era un’illusione”.
«La maggior parte del testi era opera di Geezer», dice Osbourne. «Io ne ho uno ogni tanto. Ho scritto quello di Black Sabbath. Geezer è un paroliere fenomenale. Scrive in modo intelligente. È parecchio istruito».
Butler non ricorda di preciso cosa abbia ispirato quel testo, a parte il modo in cui si sentiva in quel periodo. Quindi scrivere gli veniva facile? «Sì, specie con la droga», dice. «Era facile perché eravamo in tour da due o tre anni, in America e nel mondo, e stavo facendo un sacco di esperienze».
Messo di fronte a una frase particolarmente cupa e poetica di Cornucopia (“People say I’m heavy / They don’t know what I hide”) Butler dice che riflette il suo stato mentale di quel periodo. «Penso che la maggior parte dei testi che scrivevo all’epoca fossero così cupi perché ai tempi non c’erano pillole né terapie per la depressione. Andavi dal medico e lui ti diceva di farti due birre o portare fuori il cane, pensando che ti sarebbe passata. Quindi per me scrivere i testi era un modo di esprimere i miei sentimenti».
A giugno, i Black Sabbath avevano lasciato la villa di du Pont, pagando tutto il necessario per i danni, e si erano trasferiti a Londra per finire il disco agli Island Studios. Nel giro di un mese erano di nuovo in giro, per un’altra serie di date negli Stati Uniti. Qualche tempo dopo, la Warner Bros aveva ricevuto i master di Snowblind e qualcuno dell’etichetta aveva ripensato al titolo e aveva chiesto di cambiarlo. «Non erano riusciti a contattare nessuno di noi per scoprire cosa pensavamo», ricorda Butler. «Penso che Ozzy, Bill e io fossimo tutti in vacanza, e non so dove fosse Tony. E penso che il manager abbia detto: oh, chiamatelo semplicemente Vol. 4. E questo è tutto». Cosa ne pensava Butler del nuovo titolo? «Che era orribile».
Nonostante il rebranding, l’album – uscito il 25 settembre del 1972 – vendeva bene. La band aveva pubblicato Tomorrow’s Dream come singolo, ma non era entrato in classifica. Tuttavia, gli incessanti tour e la crescente fama dei Black Sabbath avevano trascinato le vendite. Ma anche dopo che la Warner aveva cambiato il titolo, il gruppo ha avuto l’ultima parola. “Desideriamo ringraziare la grande COKE-Cola Company di Los Angeles”, si legge nel libretto.
Se le registrazioni dal vivo contenute nel cofanetto, che vengono da un paio di date nel Regno Unito nel marzo del 1973, sono indicative, all’epoca la band era al top della forma. «Quando salivamo sul palco non suonavamo soltanto, ma facevamo i pagliacci. Eravamo fantastici», dice Osbourne. «Nessuno se ne è reso conto, ma eravamo nel pieno dei nostri vent’anni». Le registrazioni in realtà mostrano quanto bene rendessero i groove pesanti di Vol. 4 dal vivo, specie il modo in cui Supernaut si trasformava in un assolo di batteria di Ward. «Supernaut era la canzone preferita di Frank Zappa», dice Osbourne. «Amava quel riff di chitarra».
Nei decenni trascorsi dall’uscita di Vol. 4, gli Screaming Trees, i Sepultura, i Converge, i System of a Down e molte altre band hanno fatto cover delle canzoni contenute nell’album. Changes in particolare ha lasciato un’eredità affascinante. Osbourne ne ha fatto una cover da solista e l’ha fatta diventare una hit da top 10 nel 1993; l’ha anche cantata anni dopo insieme alla figlia Kelly. Eminem ha campionato la versione dei Sabbath nel suo disco del 2010, Recovery. Ma la versione forse più sorprendente è quella del cantante soul Charles Bradley, che l’ha cantata con passione nel 2013. Sia Osbourne che Iommi sono rimasti particolarmente colpiti dall’esecuzione. «Quella canzone ha avuto proprio una bella vita», dice il chitarrista.
Anche i Black Sabbath sono cambiati dopo Vol. 4. Alla fine degli anni ’70 si sono separati da Osbourne perché esagerava con alcolici e droghe. Sebbene alcuni membri non siano particolarmente fieri delle loro attività extramusicali di quel periodo, riconoscono tutti che Vol. 4 è stato una tappa fondamentale della loro storia, un album che riflette un momento divertente in cui sono riusciti a portare la loro arte a un altro livello.
«Alla fine è tutto qui: se Tony Iommi non avesse inventato quei riff mostruosi, non avremmo potuto fare il disco», dice Osbourne. «Ogni volta che proponeva un nuovo riff, io dicevo: non farà mai di meglio. E ogni volta lo faceva».
«Ci siamo presi dei rischi che probabilmente non avremmo osato prenderci nei primi due album», dice Ward. «Penso che il disco abbia mostrato che la band stava cominciando a conoscersi, che stavamo iniziando a conoscerci come individui. Penso che per capire Vol. 4 bisogna ascoltare l’album successivo, perché gli accordi con cui inizia Sabbath Bloody Sabbath mostrano come fossimo tornati alla forza bruta. Ma sempre mantenendo le nostre piccole pause acustiche. Vol. 4 ha aperto la strada e ci ha permesso di dire: ok, questa cosa possiamo farla di nuovo in un altro disco».
«Molto aveva anche a che fare con il fatto di essere a Los Angeles», dice Butler. «Per molto tempo non ci eravamo mai fermati. Mentre facevamo quello disco avevamo il tempo di andare in spiaggia, sdraiarci a bordo piscina, rilassarci e tutto per la prima volta. E fuori dalla finestra non c’era Birmingham o Londra. A quei tempi Los Angeles sembrava davvero un posto esotico. Quindi penso che questo ci abbia resi un po’ più tranquilli».
«Mi è piaciuta l’atmosfera di Vol. 4», conclude Iommi. «Mi è piaciuto tutto, sembrava perfetto».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.