Chi sono i romantici radicali? Si intitola così, Radical Romantics, il nuovo album di Fever Ray in uscita il 10 marzo. Terza prova solista dell’artista svedese, dal punto di vista del sound il disco rappresenta un punto d’incontro tra i suoi precedenti lavori, Fever Ray (2009) e Plunge (2017), e il repertorio di The Knife, la band messa in piedi nel ’99 da Karin Dreijer alias Fever Ray con il fratello Olof e scioltasi nel 2014. Purtroppo, viene da dire. In compenso questo Radical Romantics potrà piacere anche ai fan del duo di Heartbeats, visto che è frutto di un rinnovato sodalizio dei fratelli Drejer, a distanza di una decina d’anni dall’ultima collaborazione.
«Ho iniziato a lavorare al nuovo materiale nel 2019», racconta Karin (che si identifica coi pronomi they/them, ndr). «Poi quando Olof ha lasciato Berlino, dove ha abitato a lungo, per tornare a vivere a Stoccolma abbiamo messo su un nuovo studio di registrazione insieme. Ci è venuto naturale ricominciare a scrivere a quattro mani, abbiamo buttato giù due tracce e dato che ci siamo divertiti, siamo andati avanti».
In passato i suoi fan si erano divisi tra chi preferiva l’album d’esordio Fever Ray, dai ritmi più rallentati, sulle frustrazioni della maternità, e chi il seguito Plunge, che era più percussivo e abbracciava tematiche queer in un’opera in bilico tra manifesto politico e ode all’indipendenza. Con Radical Romantics si amplia questo secondo discorso, in 10 tracce che oltre al fratello vedono la partecipazione di altri produttori, dalla portoghese Nídia a Johannes Berglund per le parti vocali, dal britannico Vessel a Trent Reznor e Atticus Ross dei Nine Inch Nails: canzoni seducenti nel mescolare darkwave, industrial, trip hop e dance, loop ipnotici, pulsazioni e beat spesso spezzati con atmosfere dense e avvolgenti e la voce distorta, filtrata, a tratti stridente, ma intensa e profonda di Karin. Tutto per dare forma a quella che in prima istanza potremmo definire una celebrazione dell’amore libero, dei “romantici radicali”, appunto.
«Ho riflettuto sul significato del disco solo dopo aver chiuso tutti i pezzi, rendendomi conto di avere scritto una qualche specie di album sull’amore. Ma dal momento che per me l’amore non è solo quello mitizzato come romantico, anche per contrastare questa visione ho deciso di parlare di radical romantics. Un po’ perché lo trovo divertente, un po’ per omaggiare chi lotta per amare in qualunque modo voglia farlo, in base ai propri bisogni e desideri, in assoluta libertà. Libertà anche di comunicare tutto questo agli altri».
In tale contesto il singolo What They Call Us è «una reazione all’avanzata dei fascisti nel parlamento svedese e non solo, un brano a sostegno delle minoranze, di gay, lesbiche, transessuali e di tutti coloro che hanno bisogno di essere protetti». Alla base esperienze di vita, ma anche letture. «Una fonte di ispirazione è stata All About Love: New Visions di Bell Hooks (in italiano Tutto sull’amore. Nuove visioni, nda), libro in cui l’amore è descritto più come un’azione, una pratica attiva, che come un sentimento. Credo sia una visione corretta, perché l’amore è innanzitutto un prendersi cura degli altri che richiede impegno, motivo per cui è molto difficile amare nella società capitalistica in cui viviamo: per amare serve serenità, serve una calma interiore adatta all’autoanalisi, serve tempo da investire, tutte cose a cui non mi sembra si dia valore oggi».
Facciamo notare che difficilmente il capitalismo cesserà di essere il paradigma economico dominante, ma Karin pensa il contrario: «Per me, invece, morirà, semplicemente perché deve essere così. Non dico che accadrà senza difficoltà né traumi, anzi, probabilmente sarà necessaria qualche catastrofe. Ma già la pandemia ha costretto molti a fermarsi, a rallentare e a riflettere su cosa conti davvero nella vita, domanda fondamentale. A me, perlomeno, è successo: i periodi di isolamento spingono a pensare a quale tipo di relazioni sentimentali e rapporti interpersonali desidero coltivare».
Al di là della nostalgia per The Knife, e chissà che presto non finiranno per risorgere, chi ha consumato Plunge come chi scrive apprezzerà anche questo Radical Romantics nonostante non segni una vera e propria evoluzione. Perché immergersi nell’universo sonoro di Fever Ray, in quel magma sintetico capace di gettarti nella claustrofobia più alienata e opprimente come di farti nuotare nell’etereo, è un’esperienza fisica e mentale che ti resta attaccata sulla pelle. In primo piano c’è ancora una volta il trattamento della voce: «Soprattutto in alcune canzoni mi premeva che fosse percepita come vicina all’ascoltatore, che risultasse intima», spiega Karin. «È il caso di What They Call Us e Kandy dove per raggiungere quest’obiettivo canto in una tonalità più bassa del solito e con una sorta di quiete. In particolare, per Kandy ci tenevo così tanto che la voce suonasse calda e seducente che ricordo addirittura di aver detto a Olof di prendere come riferimento Julio Iglesias. Strano, lo so, ma è la verità, anche se ovviamente il risultato finale doveva essere più sporco e filtrato. A volte sento dire che la musica elettronica è fredda, ma i miei brani nascono proprio da una ricerca di calore che qui è stata portata avanti da Olaf anche suonando i beat con le mani, usando pads, batterie elettroniche e sintetizzatori analogici per ottenere un suono il più organico possibile e imperfetto nell’accezione bella del termine, a differenza di quello che viene fuori quando si lavora soltanto con programmi al computer».
Se la stessa Kandy, forgiata con il Roland SH-101 già usato per The Captain dei Knife, si tinge di esotismo, in Radical Romantics non manca una dose di spirito rave. Vedi Carbon Dioxide, con Vessel, in cui Karin, animo affine a Peaches e a gruppi quali Le Tigre e Chicks on Speed, capace di far dialogare Kate Bush con Björk e Peter Gabriel con i Depeche Mode e i Kraftwerk, prende spunto dalla Bibbia e nella fattispecie dalla prima Lettera ai Corinzi. Dove si dice, per intenderci, “se anche avessi il dono della profezia, conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e la mia fede potesse spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla”.
«Non ho mai letto la Bibbia, essendo nata negli anni ’70 sono cresciuta senza religione in una Svezia all’epoca social-democratica e rivolta a sinistra. Ho scoperto quel passo guardando Film blu di Kieślowski, il regista polacco, e l’ho trovato estremamente bello. È finita che ci ho scritto una canzone che intende catturare la forza del sentimento che si prova quando ci si innamora. Dopodiché ho cercato di spiegare a Sebastian (Gainsborough aka Vessel, nda) che desideravo suonasse super colorata ed emotivamente ricca».
La conversazione si sposta su un terreno più scivoloso con Even It Out, brano che tratta di bullismo auspicando vendetta nei confronti del bullo di turno. “This is for zacharias, who bullied my kid in high school, there’s no room for you and we know where you live”, recita il testo. «Lì racconto una storia vera, ho solo cambiato il nome della persona implicata», spiega Karin. Chiediamo se non crede che quello di vendetta sia un concetto violento. «Per come la vedo io è diverso affrontare un evento nella mia quotidianità e parlare di un argomento con la mia musica, l’espressione artistica non è la vita vera», risponde. «Ciò che volevo esprimere è, più in generale, che quando si è vittime di un abuso di qualsiasi tipo è giusto riprendersi ciò che ci è stato tolto, ossia il rispetto. Peccato che la legge svedese non protegga le vittime di bullismo, così i bambini e i ragazzi bullizzati sono perlopiù costretti a cambiare scuola, mentre dovrebbero essere i bulli a essere spediti altrove. Ma purtroppo noto una crescente indifferenza da parte del mondo adulto, come se nella società svedese contemporanea anche la cura dell’infanzia stesse subendo colpi».
La delusione per la recente svolta a destra della Svezia è evidente, ma va detto che già ai tempi del disco di debutto solista Karin non aveva risparmiato critiche al suo Paese. «È indubbio che in fatto di parità di genere e diritti riconosciuti alle madri siamo avanti, ma è anche vero che se in passato siamo stati molto progressisti, negli ultimi anni il conservatorismo è aumentato al punto che vedo persino tanti giovani accettare e sostenere l’idea che le donne, una volta madri, possano tranquillamente starsene a casa con i figli. E parlo di ragazzi con una grado di istruzione elevato… Ora che la maggioranza fascista al governo dallo scorso autunno mette in discussione i diritti delle minoranze, dei migranti, della comunità LGBTQ+, è chiaro che non si può dare nulla per scontato: ci sono diritti garantiti che possono essere negati da un momento all’altro, mai smettere di combattere».
È in quest’ottica che Fever Ray promuove l’inclusività in studio come sul palco circondandosi di collaboratori non binari, non importa si tratti di tecnici o di ballerini. «Non faccio attivismo, ma nel mio lavoro provo costantemente ad allargare i diritti di tutti e scegliendo in autonomia chi voglio al mio fianco».
Il suo tour al via il 23 marzo toccherà Stati Uniti ed Europa, ma per ora non l’Italia, e stando ai videoclip che hanno anticipato l’uscita di Radical Romantics riporterà in scena l’estetica da horror movie, non priva di humor, tanto cara a Karin, che si esibisce con maschere e costumi e che attribuisce grande rilevanza al lato visuale della musica. «Non si tratta di interpretare dei personaggi che mi permettano di trasformarmi, perché per me tutto è performance: si performa sul palco come giù dal palco, nella finzione come nella realtà. Il punto non sta nella distinzione tra le due dimensioni, ma nel fatto che le arti visive mi appassionano e quindi mi diverte tantissimo costruire un immaginario coerente con le mie canzoni. In questo mi sta affiancando Martin Falck, un caro amico già con me ai tempi di Plunge». Molti spunti provengono dal cinema: «Per il video di What They Call Us avevamo in mente David Lynch e il regista svedese Roy Andersson, mentre per quello di Even It Out, che condivideremo a breve, abbiamo guardato al cinema di John Waters».
Qua e là spunta anche Ingmar Bergman, tra l’altro nel 2010 Fever Ray ha firmato la colonna sonora di una pièce teatrale tratta da L’ora del lupo, capolavoro del genio scandinavo datato 1968 che con la poetica dell’artista di Radical Romantics ha in comune la sottolineatura della natura enigmatica di ogni cosa. In fondo se tutto è performance, come sostiene Karin Dreijer, vuol dire che viviamo nell’illusione.