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Finley: «Ragazzi, anche meno, facciamo canzonette, non salviamo vite»

Hanno fatto la gavetta dopo il successo e ora che il pop-punk è tornato di moda, si rifanno vivi con un disco pieno di feat. Non si prendono troppo sul serio, ma rivendicano una loro autenticità. «Potevamo inventarci anche noi uno scioglimento e una reunion per sbigliettare di più»

Foto: Simone Paccini

Che fine hanno fatto i Finley? A un certo punto se lo sono chiesto anche loro, dopo sette anni di silenzio discografico (ma non concertistico). Per tornare hanno lavorato a un album all-star e a un evento celebrativo in grande stile. Il disco si intitola Pogo Mixtape Vol. 1 e in ognuna delle 14 tracce (di cui 11 inedite) c’è un feat di artisti che vanno da J-Ax a Rose Villain, da Naska a Sethu, fino ai Punkreas, i Ministri e le Bambole di Pezza. Lo show è invece il Tutto è possibile al Forum del 16 ottobre a Milano.

La band composta da Pedro (voce), Ka (chitarra), Dani (batteria) e Ivan (basso) è la stessa di quando iniziarono nel 2002 a provare i loro pezzi in una cantina di Legnano e che, qualche anno dopo avrà successo grazie all’ascesa di MTV, a pezzi pop virali prima dell’avvento dei social (ricordate Diventerai una star?) e a un’intuizione del produttore Claudio Cecchetto. Catapultati nella seconda metà degli anni ’90 nel mainstream, hanno capito cos’è il professionismo all’Heineken Jammin’ Festival: «Noi sfidavamo gli Avenged Sevenfold a bere birrette, i Metallica poco distante provavano il loro concerto».

E così, mentre venivano «rincorsi dai fan e vivevamo blindati, scene che avevamo visto in tv per i Beatles», capiscono che «quel mondo non ci rispecchiava per niente ed è scattato un rifiuto quasi fisiologico». Non a caso condividono una chat WhatsApp che si chiama «Ai Finley fanno schifo i soldi» e dopo anni di vera gavetta, «nei piccoli club o nei pub con poca gente», gli sembrano meno amare anche le critiche e le contestazioni ricevute. «Noi gli hater li avevamo dal vivo e pagavano pure il biglietto per venire ai nostri concerti. Adesso sono tutti troppo permalosi per un commento, ma forse non sanno cosa vuol dire ritrovarseli di fronte». Non parlano di scioglimento o reunion: «Potevamo inventarceli, ma sono solo il pretesto per sbigliettare».

Il vostro ultimo lavoro in studio è del 2017. In quest’epoca dove tutto è velocissimo ed è necessaria una presenza costante sembra un’era geologica fa. Intanto, che clima c’è tra voi per questo ritorno?
Pedro: Siamo felici, emozionati e desiderosi di sentire cosa ne penserà il nostro pubblico e tutti quelli che ci riscopriranno o ci scopriranno per la prima volta. È un disco al quale abbiamo dedicato due anni della nostra vita ed è stato divertente metterci a confronto con una serie di artisti di cui noi avevamo il poster in camera o che avevano il nostro.
Dani: Noi siamo una band, quattro teste che devono trovare un punto di incontro. Coinvolgere altri artisti ci sembrava una follia essendo difficile trovare un accordo tra di noi. Invece è stato semplice. Contaminare la nostra musica con quella di altri è stato figo. Si è creato un effetto domino strepitoso.
Ka: L’idea era di fare qualche featuring, perché in 20 anni ne avevamo fatti solo con Mondo Marcio ed Edoardo Bennato.

Facciamo un passo indietro. I Finley nascono a Legnano nel 2002 e sono partiti dalle prove nella cantina del Circolone.
Ka: Fino a ieri eravamo in una sorta di sala prove che è, di fatto, un capannone. Veniamo da lì, da contesti di provincia e per anni abbiamo mantenuto quell’identità da garage band.
Pedro: Le canzoni sono sempre nate da cantine o sale prove. Negli anni il processo compositivo è cambiato grazie alla tecnologia e ognuno di noi ha sviluppato una propria identità, ma per chi fa musica in maniera analogica la sala prove è il posto dove nasce tutto, dove passi del tempo insieme. Noi nel 2002 il sabato andavamo al Circolone a sentire i concerti, durante la settimana qualche metro sottoterra provavamo i nostri pezzi.

Negli ultimi dieci anni, per molti giovani, la cantina è stata sostituita da software per l’autoproduzione e programmi di condivisione.
Pedro: In realtà stiamo notando che tanti, da qualche anno, ritornano agli strumenti musicali. Fino a 7-8 anni fa i dj erano le nuove rockstar. Adesso, invece, i giovanissimi nei live suonano davvero e vengono anche ai nostri concerti. Prima vedevamo in maggioranza 30-40enni, ora ci sono moltissimi giovani.

Il fenomeno Måneskin ha influito?
Ivan: Sicuramente sì, te lo posso confermare io che insegno basso e c’è stato un grande aumento in particolare di ragazze che, mosse dall’esempio di Victoria De Angelis, hanno iniziato a interessarsi a questo strumento.
Pedro: Nel 2006, ai tempi del nostro primo disco, era bellissimo vedere che tantissimi ragazzi formavano una band e acquistavano strumenti perché prendevano esempio da noi. Ben vengano i Måneskin e il ritorno della musica suonata. In parte ha influito anche la pandemia, perché una volta passata tanta gente aveva voglia di tornare ai concerti dal vivo con qualcuno che suonasse davvero.

Sembra tornato di moda anche il pogo.
Pedro: La nuova wave con Machine Gun Kelly e il ritorno dei Blink-182 ha favorito una serie di dinamiche. Tra l’altro, siamo andati al concerto di addio dei NOFX ed è stato bellissimo ritrovare quella cornice e una sorta di comunità che si crea in un pogo. Da fuori sembra violento, ma quando ci sei dentro c’è grande rispetto, fratellanza e regole non scritte, come non tenere i gomiti alti o rialzare chi cade a terra.
Dani: Un po’ come nella boxe. È entusiasmo e unione. Abbiamo voluto riportare questo spirito alla sua nobiltà. Il bello è che il pogo non è più riconducibile neanche solo al punk. Penso a Salmo, ma spero che un giorno si pogherà anche ai live di Laura Pausini.

Il vostro disco è stato anticipato dal pezzo con Naska Porno che ha avuto numeri importanti.
Pedro: Quando abbiamo conosciuto meglio questi artisti giovani, come anche Sethu, abbiamo scoperto che ci seguivano da tempo. Non ti rendi mai conto di quanto sei vecchio se non di fronte a dei giovani. Con Diego è nata un’amicizia e il pezzo ha dato il via a questo viaggio, anche grazie al numero degli stream sulle piattaforme.
Ka: Si parla spesso male e volentieri delle nuove generazioni, ma da Diego abbiamo imparato tantissimo e in pochissimo tempo, ci ha fatto capire quanto sia veloce questa generazione, tutta focalizzata per arrivare dove vuole. Che non è solo ambizione, è riuscire in poco tempo a delineare un’identità, un linguaggio e con tanto coraggio in un momento in cui funzionavano i Mahmood o i Lazza. E poi questi ragazzi sentono già cosa succederà fra due, tre anni. Noi ci mettevamo anni solo a decidere uno di questi passaggi, loro sembrano già sapere tutto.

Dalla cantina siete arrivati a vincere nel 2006 l’MTV Europe Music Awards quali migliori artisti italiani, replicando nel 2008. Cosa ricordate di situazioni di quel tipo?
Pedro: Ricordo gli aftershow degli MTV Music Awards che erano un disastro, come un folle show di Juliette and the Licks in un contesto a luci rosse e in un’atmosfera onirica per quanto avevamo bevuto e quello che aveva proposto. Poi ci sono tutti gli incontri epici nei backstage, da quello con Justin Timberlake o, in altri eventi, quando alle colonnine per le PlayStation ci siamo trovati a giocare di fianco ai Megadeth. Il bello di quei festival europei è che ti trovavi con artisti diversissimi che dietro al palco stavano tutti assieme. In un altro festival abbiamo giocato a calcetto con Kooks e Scissor Sisters.
Ka: Ricordo un mischione in una scaletta dove c’eravamo noi, Evanescence e Nelly Furtado. Oggi, per fortuna, è qualcosa che vediamo anche nei festival italiani.
Dani: La sensazione che mi torna è quella dell’incoscienza totale di noi quattro, ragazzini, che vivevamo quelle situazioni gigantesche, tra festival europei o Sanremo, che ci è rimasta addosso anche in questo album. Cioè non cambiare a seconda dei contesti o di chi hai intorno. Siamo sempre quattro amici che si divertono a fare musica, non ci siamo mai montati la testa.

Avete suonato all’Heineken Jammin’ Festival…
Pedro: Fantastico quell’evento, suonavamo nel giorno dei Depeche Mode e il giorno dopo erano previsti i Metallica. Ho ancora di fronte agli occhi l’immagine di quando stavamo seguendo il mondiale di calcio e la partita Italia-Stati Uniti 1-1, gol di Gilardino e autorete di Zaccardo, il tutto mentre sfidavamo a birrette gli Avenged Sevenfold. Invece i Metallica, dopo essere arrivati con il loro van, si erano chiusi nella sala prove.
Dani: Siamo andati a sbirciarli e in quel momento abbiamo capito che se vuoi essere un professionista devi lavorare su te stesso. Noi, invece, ci scolavamo delle birrette con gli Avenged Sevenfold.

Il successo vi ha cambiati?
Pedro: No perché, nonostante l’impostazione della comunicazione dei nostri primi lavori, noi abbiamo sempre mantenuto la stessa naturalezza.

In che senso «nonostante l’impostazione della comunicazione dei nostri primi lavori»? La stragegia scelta da Claudio Cecchetto per proporvi sul mercato era forzata?
Pedro: È una domanda complessa. Noi non cercavamo quel successo, volevamo fare la nostra musica e tutto quel che è arrivato è stata una conseguenza. Quello che ci è successo non ha cambiato tanto noi, ma tutto quello che ci ruotava attorno. Dopo il doppio Disco di platino si sono alzate le aspettative, c’è stato il cambio di produttore, è aumentata la pressione e forse era tutto troppo. Noi abbiamo sempre vissuto serenamente ma, a ripensarci, abbiamo un po’ rifiutato quel tipo di successo. Non abbiamo cambiato le nostre dinamiche, ci siamo tenuti le stesse amicizie e ci siamo spesso rifugiati in provincia.
Dani: Anche perché in quel periodo facevamo fatica ad andare in giro o a fare le vacanze. I fan ci rincorrevano ovunque, vivevamo blindati. Sembravano le scene che avevamo visto in tv coi Beatles, ma quel mondo non ci rispecchiava per niente. In quel momento è scattato un rifiuto quasi fisiologico.
Ka: In un momento di hype così forte, è stato controproducente. Tessere relazioni è importante, ma a noi quel rifiuto è servito come ancora di salvezza.

Foto: Simone Paccini

Come vivevate le critiche all’interno della band?
Ka: E pensa che non c’erano i social. Noi abbiamo avuto gli hater dal vivo e che pagavano il biglietto per venire ai nostri concerti e manifestare il loro dissenso. Adesso sono tutti troppo permalosi di fronte a un commento negativo, forse non sanno cosa vuol dire ritrovarseli di fronte.
Pedro: A volte qualcuno di noi si incazzava di brutto. Mentre io cercavo di ricordare che la cosa che fa più male è l’indifferenza. Per via di come è stato proposto il nostro progetto inizialmente, siamo stati percepiti in modo semplicistico e distorto. Eravamo una band con una connotazione pop, certo, però esasperarla così tanto non ci rappresentava e ha finito per influenzare il giudizio su di noi anche dei critici.
Dani: Solo in un secondo tempo abbiamo capito che le critiche le subiscono tutti, dal più fake al più intoccabile. Ma diciamocelo, le critiche fanno bene se vuoi migliorare. Certo non devi accontentare la singola critica, meglio continuare a impegnarsi e del resto sbattersene.

A livello giornalistico avete avuto anche voi un Riccardo Bertoncelli come Francesco Guccini o un Nantas Salvalaggio come Vasco Rossi, cioè stroncature feroci?
Pedro: Non ricordo i nomi, di critiche ce ne sono state, non mi sembra feroci. Forse quando siamo andati a Sanremo 2008 con Ricordi ne sono arrivate di toste, ma eravamo ventenni che se la facevano sotto e non era il Festival di oggi. Negli anni le critiche siamo riusciti a trasformarle in un vantaggio: la partendo da un giudizio così negativo, quando la gente ci sentiva in concerto cambiavano idea e per noi era una vittoria. Un effetto sorpresa che è stata una figata.
Dani: Io ricordo Giancarlo Magalli, che salutiamo affettuosamente, che da membro della giuria di qualità di Sanremo ci diede un bel 5 per gli outfit. E questo a me ha fatto molto male… Si fa per ridere, perché Magalli, con tutto il rispetto, non mi sembra un king degli outfit.

Vi sentite i Blink-182 italiani?
Pedro: Il nostro merito è stato quello di portare il pop-punk nel mainstream e dare una sferzata a quell’ambiente. Siamo cresciuti con Derozer, Punkreas, Pornoriviste e tutto lo ska punk italiano della seconda metà degli anni ’90, c’era una bella comunità. Però quel genere musicale non aveva avuto uno sbocco verso un pubblico ampio e noi abbiamo avuto il merito e la fortuna di portare quelle melodie e quell’approccio attraverso MTV alla portata di tutti.
Ka: È indubbio che non eravamo accomunabili a Rancid o Green Day che erano più politicizzati, ma noi abbiamo messo in musica le nostre esperienze di quattro adolescenti con una grande voglia di fare festa. Per noi la musica è soprattutto quello.
Dani: Noi portiamo il pogo e poi ci vediamo tutti insieme a bere.

Insomma, è un sì mascherato con un ragionamento più ampio (scoppiano a ridere, nda)…
Pedro: Diciamo che i Blink sono stati il nostro riferimento da sempre.
Dani: Ma certo, il loro approccio scanzonato, disilluso, divertente e anche un po’ cinico. Quando ti diverti tu come band e la gente apprezza anche le tue minchiate, hai fatto centro. In Italia poi c’è una tendenza a prendersi troppo sul serio. Ragazzi, anche meno. Stiamo facendo musica leggera, canzonette, non salviamo vite e non cambiamo il mondo. Diamo momenti di svago e riportiamo a galla delle emozioni, quindi divertiamoci.

Proprio perché non vi prendete troppo sul serio, anche nel trailer del nuovo album vi chiedete: «Che fine hanno fatto i Finley?».
Pedro: Che è una delle domande più ricorrenti che ci hanno fatto in questi anni. Appena ti fermi un attimo sembra che tu sia sparito.
Ka: Ci sono dei momenti di esposizione, dove la tua musica può essere importante per la gente, e altri nei quali ti prendi delle pause e dai importanza a cose diverse.

Negli anni dove siete stati meno sotto le luci dei riflettori avete mai pensato allo scioglimento?
Ka: Concretamente no, perché una vera pausa non c’è mai stata. Nel corso degli anni abbiamo sempre continuato a fare concerti e questo ci ha dato molta più solidità dal vivo. Quando eravamo giovani siamo stati catapultati in situazioni più grandi di noi. In seguito abbiamo passato tanto tempo a suonare nei club e abbiamo fatto la gavetta vera, quando ti trovi di fronte a poche persone e concerto dopo concerto ci siamo guadagnati una credibilità.
Dani: Ma poi lo scioglimento è il pretesto per creare una reunion e sbigliettare di più, dai Blink ai Litfiba. Potevamo inventarcelo anche noi uno scioglimento per poi tornare insieme, solo che non è il nostro modo di vivere la musica e la promozione.

Qui emerge in voi l’anima punk degli esordi.
Dani: Abbiamo una chat whastapp che si chiama “Ai Finley fanno schifo i soldi”.
Pedro: Ti posso dire che, rispetto a quando avevamo 20 anni e dopo aver fatto live nei piccoli club o nei pub con poca gente, ci piace molto di più suonare. Forse perché abbiamo imparato cose nuove e messo da parte quell’incoscienza che non ci faceva apprezzare fino in fondo le cose.

A questo punto mi sembra di capire che, rispetto ai NOFX che hanno dato l’addio alle scene, in attesa di una reunion, i Finley si vedono anche a 60 anni a fare pop-punk.
Dani: Vogliamo morire sul palco.
Pedro: Ho visto che il prossimo 6 luglio a Las Vegas sarà possibile farsi sposare da Fat Mike. È un’idea, se qualcuno è interessato, siamo disponibili.

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