Per contestualizzare Quentin40, ho provato a scrivere tutta l’intervista troncando le ultime sillabe, ma ho mollato dopo poche frasi. Il rapper romano si sta facendo un nome per aver portato uno stile ben preciso, quello dell’elisione, che non è una cosa proprio comune. Soprattutto perché riesce a chiudere le rime fermandosi prima della fine della parola. Ha una faccia da bravo ragazzo, in netto contrasto con la botta di energia che sono le sue canzoni. Si è fatto un nome con i barriti di Thoiry, poi con il ballo dei giardinetti di Giovane1 (e sta per sfornare un nuovo singolo, «bianco e azzurro, non bianco e nero», come dice il suo manager, che sembra fatto apposta per i 30 gradi di questa primavera). In tutti i suoi pezzi c’è una fragorosa scarica di cassa dritta, più elettronica che hip hop. «Più inglese, anche», commenta Quentin.
«Volevamo unire il club al grime, una cosa che fosse una via di mezzo». Il volevamo indica lui e Dr. Cream, un nome noto nella scena di Roma anche per il suo passato nei RapCore. «Ci ha presentati un amico comune, lui ha questo studio a Ostia che non usava più. Nessuno dei miei amici mi ha spinto a fare qualcosa, lui mi ha fatto credere in me stesso, mi ha dato tanta fiducia. Ero timidissimo (Sarà per quello che spesso, ma non al nostro incontro, indossa un cappuccio, nda)». Eppure, all’inizio dei suoi pezzi cita spesso L’odio, il film iconico di Mathieu Kassovitz che racconta di una violenta vita di periferia. «Anche prima di fare musica, la mia vita era simile a quella del film. Il tempo passa, niente cambia… È diventato un culto per noi. Tutti i miei amici sono legati a L’odio. E i giardinetti sono la nostra banlieue. Perdere tempo nello stesso posto per le stesse cose. Ed esserne fieri. Sono fiero dei miei amici. Ed è quello di cui parlo. Niente pistole, niente gangsta. Robe normali».