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Flavio Paulin, il “dissidente” dei Cugini di Campagna: «Sono adulti che fanno giochi da bambini»

Il cantante originale di ‘Anima mia’ è uscito dal gruppo nel 1977 per dedicarsi all'elettronica. Qui racconta il suo percorso e rivendica il suo ruolo all’interno della band, compresa la paternità del falsetto

Foto: Mondadori via Getty Images

A volte cose e persone non sono come sembrano. È il caso di Flavio Paulin, cantante dalla chioma lunga e bionda dei Cugini di Campagna, la voce in falsetto che ha stregato una nazione e che improvvisamente, nel 1977, si converte al verbo dei Kraftwerk passando alla voce naturale, sequencer autocostruiti e capelli corti. È un pioniere assoluto che meriterebbe molto più plauso dalla critica rispetto a quanto hanno raccolto i suoi epigoni sbiaditi, che del techno pop e della “ambiguità” hanno preso solo la superficie.

Ma Paulin, il papà di tutti gli Italian futuribili, non se n’è mai curato e va avanti per la sua strada, che a differenza degli ex colleghi dei Cugini di Campagna non va verso Sanremo, ma diritta verso lo spazio, che ama ancora sondare con le armi di uno scienziato/alchimista del suono. Lo intervisto al chiostro del Bramante a Roma, simbolo del suo essere un “classico futuro” col figlio Patrick, suo degno erede.

I Cugini di Campagna non sono mai andati a Sanremo. Quest’anno sì: come mai?
Perché non ci sono io.

In che senso?
Quando c’ero io le nostre canzoni erano delle bombe. Erano talmente belle, e lo dico con orgoglio, che non avevamo bisogno di vetrine. Abbiamo sempre snobbato Sanremo perché eravamo sulla cresta dell’onda. Quindi se ci fossi stato io i Cugini non avrebbero probabilmente avuto bisogno di Sanremo. E poi la musica non va votata, non è una gara, è un’arte.

All’inizio facevate proto gothic no? La band si chiamava Medium.
Nei Medium io non c’ero, poi il gruppo si è chiamato La Fine del Mondo. Avevo messo un annuncio, suonavoil basso e volevo espandere la mia conoscenza di gruppi e di musicisti dal quartiere a tutta Roma. Nel giro di pochi mesi da La Fine del Mondo siamo diventati i Cugini di Campagna.

Quali erano le influenze iniziali?
Mah, si suonavano canzoni che andavano di moda, di tutti i generi, e facevamo le serate per guadagnare. Poi abbiamo cominciato a registrare canzonette che ci venivano date dai nostri produttori.

Ovvero Gianni Meccia e Bruno Zambrini, fondatori dell’etichetta Pull…
Persone a cui devo tutto. Mi hanno insegnato come si sta in studio, come si canta, come si registra. E hanno creduto in noi.

Però vi volevano far fare una cosa diciamo molto casareccia.
Avevano questa mentalità “scanzonettistica” delle cose, un po’ divertente, ed era Gianni Meccia che influiva parecchio su questo, perché lui faceva canzoni di questo genere. E quindi dava al gruppo una impostazione diciamo molto leggera…

Però poi nel 1973 arriva Anima mia e lì le cose cambiano…
Sì, ma perché cambiano? Perché noi eravamo chiaramente scontenti di fare quelle cose. Cercavamo il rinnovamento. Avevamo 24 anni e cosa possono fare dei ragazzi di 24 anni se non cantare l’amore?

Però all’epoca se lo facevi ti dicevano anche che eri disimpegnato rispetto al cantautorato militante.
Effettivamente è vero, ma era un po’ tramontata all’epoca questa cosa dei cantautori impegnati… Comunque, all’epoca di Anima mia non eravamo pronti al boom del singolo, che è stato in classifica per un anno. È andata così: i nostri produttori avevano finito i soldi, ci dissero che avrebbero chiuso perché non c’erano riscontri. Abbiamo chiesto di darci la possibilità di scrivere una cosa di nostro gusto. Così io e Ivano Michetti abbiamo scritto Anima mia e scrivendola ci è venuta l’idea di utilizzare il falsetto. C’è da dire che io cantavo così già di mio, contrariamente a quello che qualcuno dice, attribuendosi il merito, ma il merito è soltanto mio. Cantare così mi veniva spontaneo. Abbiamo fatto qualche serata in cui cantavo in questo modo tanto per testare il pubblico. In un locale a Ostia cantai Abat jour in falsetto e funzionò. E allora io e Ivano decidemmo di giocarci tutto, tanto non avevamo niente da perdere. Così abbiamo fatto Anima mia, pensando: o facciamo il botto o comunque ci abbiamo provato. Cantare normalmente non aveva più senso, anche storicamente.

Il falsetto che viene sempre attribuito ai Bee Gees periodo disco in realtà lo avete sdoganato voi.
Per carità, ci sono stati dei precedenti, pensa a The Lion Sleeps Tonight, pensa ai Beach Boys, ma in America capirai quante ne hanno provate. Ma fino ad allora non si era mai pensato che l’interprete principale delle canzoni si esprimesse totalmente in questo modo. E c’è una ragione: perché tutti gli altri falsetti che abbiamo ascoltato nella storia non erano in grado di mantenere l’impatto emotivo come voce solista. Forse, aggiungerei, solo qualcuno dei Platters, perché i Platters erano qualcosa di speciale, con delle voci pazzesche. Ma non c’era una voce capace di essere autonoma e interprete di tutto il brano in mezzo falsetto. Ecco, il mio è un mezzo falsetto, quindi ha delle note acute e basse contemporaneamente e in qualche maniera riesce a mantenere tutte le ottave e non dare l’idea di coprire solo quelle alte.

Ma voi oltre a questo siete stati forse il primo vero gruppo glam in Italia, almeno come immagine.
Sì certo, non c’era nessuno così.

Seguivate, che ne so, i Mott The Hoople?
Ci ispiravamo agli Sweet.

Dai, grandissimi, gente davvero working class.
Esatto. Decidemmo di vestirci così per colpire il pubblico. Ne discutemmo, chi portava avanti l’idea eravamo io e Ivano. Attenzione però, ci tengo a dirlo: eravamo dei bravi ragazzi, nessuno si è mai drogato e cose del genere. Volevamo provocare per divertimento, coi nostri principi e ottimi valori.

Vi hanno comunque censurato più di una volta, no?
All’inizio, perché qualche parolina sai, nella mentalità dell’Italia conservatrice era motivo di scandalo. Le parole di Anima mia “mi davi i calci dentro al letto” oggi sembrano niente di che, ma all’epoca colpivano, erano moderne.

Parliamo invece del sound: pochi hanno sottolineato il vostro essere arty. Io farei un paragone con gli Aphrodite’s Child, per dire…
Come no, certo.

In Un’altra donna ci sono sventagliate di synth che ricordano Vangelis. C’era già un sentore di elettronica che altri non avevano ancora provato. Già all’interno dei Cugini tu hai iniziato a fare esperimenti per arrivare poi a Paulin?
Diciamo che gli arrangiamenti dei Cugini li ha sempre fatti Ivano. Su quello lui era bravissimo, niente da dire. Forse qualche idea veniva da Giorgio Brandi, che era un bravissimo tastierista e oggi lavoriamo insieme. Veniva dai Panna Fredda, era una garanzia.

Eravate tutti tecnicamente avanzati quindi.
Sì, le idee erano condivise, c’era anche Bruno Zambrini che fa attualmente musica da film. Insomma facevamo quello che sentivamo di fare. In particolare, in Anima mia ci aveva colpito un organo che trovammo in uno studio di registrazione e suonava morbidamente, con questi effetti armonici, si sposava perfettamente con la mia voce. Lo usammo e funzionò.

A proposito di strumenti, tu sei un bassista deciso, ma quali erano i tuoi bassisti di riferimento?
Mah, ti posso dire Jaco Pastorius, che è il massimo e non faceva pop. Mi piace Sting quando era nei Police, che era più simile a me, canta fa il solista… io non sono un virtuoso.

Sei un bassista melodico come Paul McCartney.
Sì, ecco, sono al servizio del pezzo.

Le influenze post Anima mia sono un po’ più prog? Cosa ascoltavate? Avevate rifermenti internazionali?
Ascoltavamo musica durante i viaggi su e giù per l’Italia, quand’eravamo in tour, in particolare i Pink Floyd. Però le nostre cose le facevamo d’istinto, facevamo gli arrangiamenti adatti alle nostre canzoni: molto più curati nei singoli, perché dedicavamo poco tempo agli album.

Perché?
È una delle ragioni per le quali sono andato via. Non c’era la volontà del gruppo di fermarsi e dedicarsi di più agli album. I singoli erano veramente delle lance appuntite, mentre negli album c’era poco studio. Non erano all’altezza della nostra fama.

Cosa che probabilmente vi ha penalizzato agli occhi della critica.
Sicuramente. Per cui va bene il pop, è giusto a 24 anni, va bene l’immagine provocatoria, vedi i Måneskin.

Vi hanno copiato, è chiaro. Anche nel porsi come provocatori, ma bravi ragazzi. Che ne pensi?
Mi sembra ok che un gruppo abbia capito quello che avevamo capito noi, anche se noi lo facevamo 50 anni fa. Cioè che anche l’immagine conta dal punto di vista artistico. Perché l’artista deve rappresentarsi in tutti i modi: se l’artista deve incidere in qualche maniera sulla cultura del paese sono importanti anche l’aspetto fisico e l’immagine. Ce lo insegnano gli attori.

I Måneskin sono stati criticati ultimamente per lo stesso motivo dei Cugini: passi per i singoli, ma l’album in sé è stato visto male perché non all’altezza del marketing che c’è dietro.
Non so loro, per noi il problema era che avevamo troppi impegni e non c’era la volontà di fermarsi per sei mesi e lavorare all’album. Cosa che invece i Pooh hanno fatto, si sono fermati e in quel periodo hanno lasciato il posto a noi, chiudendosi in studio. Cosa che fanno anche gli stranieri, perché sanno lavorare bene.

C’era una rivalità tra voi e i Pooh? Vi conoscevate?
Ci conoscevamo, non c’era nessuna rivalità. Non ci poteva essere, loro erano grandi. È bello pensare che in un periodo della storia della musica ci siano stati due gruppi così. Ma avevano uno stile diverso, erano corali, noi eravamo singoli cioè cantavo solo io le canzoni. Questa è una delle differenze, ma per il pubblico era come tifare per la Roma o per la Lazio…

Proprio i Pooh sono stati tra quelli che per primi hanno capito che era ora di cambiare sonorità in Italia.
Non solo. Proprio in quel periodo, nel 1973, avevano fatto Parsifal, col quale hanno dato più valore allo spettacolo dal vivo. Cosa che anch’io volevo fare, ma non è stato possibile perché i fratelli Michetti erano restii a fare questo passo.

Come avete vissuto il passaggio dei tempi, delle mode e degli stili? Tu lasci il gruppo nel ’77, che è l’anno del punk.
Avevamo il nostro stile e non volevamo in alcun modo cambiarlo, le influenze esterne non hanno mai cambiato la nostra musica. Poco ci importava. Ma ascoltavamo tutto perché gli anni ’70 sono stati cruciali per la musica mondiale.

Ci sono stati screzi, litigi con la band, quando l’hai lasciata?
Nessun litigio. I miei compagni hanno capito la mia esigenza di esprimermi in modo diverso. E, cosa importante, ho promesso loro che non avrei fatto concorrenza al loro stile, che non avrei continuato a cantare in falsetto. La mia uscita non era condizionata dal fatto che volessi avere tutto per me, accaparrarmi il diritto di fare il solista all’interno del gruppo. Mi interessava cambiare direzione artistica e loro hanno capito. Dopo l’uscita dal gruppo del mio sostituto Paul Manners mi hanno chiesto di rientrare, ma avevo già firmato con la RCA e quindi era impossibile. Dopo un po’ se ne andò anche Giorgio Brandi. Dopo, tutta la direzione artistica è finita nelle mani del solo Ivano Michetti… e chi vuol capire capisca.

Che cosa pensi di come sono i Cugini oggi? Credi che siano diventati una macchietta?
Non mi piace l’evoluzione dei Cugini, perché non c’è stata nessuna evoluzione. Non rappresentano la maturità doverosa che un artista che ha fatto molto dovrebbe avere per rispetto del pubblico. Non si possono cantare i “giochetti da bambini” quando si è adulti.

E che cosa pensi del fatto che i Cugini sono riusciti a ritagliarsi di nuovo uno spazio mediatico anche grazie alle sparate sui Måneskin?
Serve per attirare su di sé l’attenzione del pubblico, evidentemente perché non c’è altro modo per attirarla.

In quali rapporti sei con loro oggi?
Non c’è alcun rapporto, perché chi dirige la loro parte artistica vuole cancellare, far dimenticare la storia della band per concentrarla tutta su di sé. Non c’è un racconto orgoglioso delle storia dei Cugini come doverosamente dovrebbero fare persone mature.

Che tipo era Ivano Michetti all’epoca?
I rapporti di collaborazione con lui sono stati ottimi, dal punto di vista strategico/artistico eravamo sempre pienamente d’accordo, sulle scelte sia musicali che testuali. Da quel punto di vista non ho nulla da dire, Ivano è un bravo arrangiatore ed è capace di scrivere canzoni, che comunque, va sottolineato ancora, facevamo insieme. Umanamente preferirei non fare commenti: non siamo in buoni rapporti, abbiamo avuto diverse questioni legali seccanti, quindi non abbiamo purtroppo alcun rapporto. Ma non dipende da me.

Torniamo alla musica. Perché poi la tua sbandata improvvisa per l’elettronica “totale”? Non suonavi i synth, eri bassista, non è normale.
Ma perché io non sono normale (ride). La prima ragione è che mi ero stancato di assumere quel ruolo di biondo che canta in falsetto l’amore: dopo dieci anni, rischiavo di rimanerne prigioniero. Seconda cosa: avevo cantato l’amore per tanti anni, avevo scritto tanti successi, che altro potevo dire? Basta, discorso finito. Dentro di me c’era la spinta a dire cose più importanti, andare avanti nell’evoluzione musicale. Contemporaneamente sono rimasto folgorato dai suoni dell’elettronica, perché mentre la chitarra ti limita a livello espressivo, l’elettronica no. Il mio obiettivo era quello di mantenere in qualche modo le melodie italiane, dando loro corpo su quel tipo di espressività derivante dalla tecnologia che ti offre possibilità infinite. In questo senso, il mio primo album, Paulin, è riuscito in parte. Non è perfetto, è sperimentale, un primo tentativo. Ma ogni imperfezione è giustificata dal fatto che facevo uno sforzo enorme mentalmente per passare dal pop a un altro genere.

Ci credo, è stata una sterzata stupefacente. E sei stato aiutato in questo da Mario Maggi, l’inventore del Synthex, altro pioniere assoluto dei sintetizzatori italiani.
Non c’era il midi, non c’era nulla. Qualcuno mi presentò Maggi e questo trentenne dopo una settimana mi ha portato un apparecchietto piccolo così, fantastico, andammo in studio e i suoni erano finalmente perfettamente sincronizzati. È stata la mia fortuna. Lui non si scompose neanche un po’: «Vedi se funziona» (ride).

Avevi un secondo album già pronto?
No, ho chiuso per motivi familiari e anche per la delusione… non ti nascondo che non ero stato compreso nei miei intenti.

Però una come Patty Pravo ti aveva compreso, eccome.
Lei inciso New York nel suo Munich Album, io parlo del pubblico. Ennio Melis, che era il direttore della RCA, credeva in me. Voleva che diventassi un Bowie italiano. Ha finanziato tutto e io – spiace dirlo – l’ho deluso perché non sono riuscito a portargli il sequel. La RCA aveva questa politica: il primo album lo usava per testare un po’ la cosa. Poi quando vedevano che l’artista era una persona a cui dare fiducia, perché comunque per loro significava investire soldi, davano la possibilità di crescere nell’arco di tre album. Se avessi continuato, la cosa sarebbe decollata. Se non è successo, la responsabilità è soltanto mia.

Ma come vedi oggi il tuo disco è di culto.
E il mio futuro ora è mio figlio Patrick. Lui continua questo discorso con la maturità di oggi e i suoi album sono quasi perfetti. Quindi io sono il passato, lui è il futuro in cui le nostre idee proseguono attraverso nuovi lavori che produciamo insieme. La nostra idea è che la musica deve assumere un ruolo culturale che oggi non ha più, quindi dev’essere una sorta di libro.

Come una fiaba sonora…
Ti parlo da titolare della Private Artist, una piccola etichetta che vuole dare spazio a musica innovativa. Perché l’ho aperta? Perché ritengo di non dover sottostare alle idee degli altri per fare la mia musica. Produco la mia musica come farebbe un piccolo editore.

Paulin verrà mai ristampato?
Mi risulta che il master sia in Germania, è stato comprato dalla Sony che ha rilevato la RCA. Succederà quando la Sony lo riterrà opportuno, ma il progetto c’è: molti mi scrivono perché sono interessati alla cosa.

Passeggeri del domani”, quindi?
Certo, sempre.

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