Mentre sto per salire nell’ascensore che mi porterà nella camera di Florence Welch, mi imbatto in Sarah Jessica Parker: cose che succedono, negli hotel fighetti del centro di Londra. Dopo un momento di stallo – spaesato per l’inatteso bonus-celebrità, continuo a spostarmi dal lato sbagliato, impedendo alla star di Sex and the City di passare: mi avrà preso per uno stalker? –, la Parker mi regala un bellissimo sorriso, poi ognuno per la sua strada. A 53 anni è ancora desiderabile, se ve lo stavate chiedendo.
Qualche piano più in alto, ancora felicemente turbato, apro una porta ed eccola lì, di spalle, controluce, molto alta, con un lungo abito vintage, del materiale di cui sono fatti gli abiti vintage: Florence. Si gira, e i suoi capelli color rame compiono una piccola ruota intorno al suo volto. Come entrata a effetto non è male. Immagino faccia così all’ingresso di ogni giornalista, con un copione apparentemente nature, in realtà collaudato.
Florence Welch è nata nel 1986: praticamente tutti quelli a cui ho parlato di lei, prima e dopo questa intervista, mi hanno detto che credevano fosse molto più vecchia. Anche io, lo confesso. Di persona, sarà la voce, la sua risata, o poter osservare da vicino l’elasticità della sua pelle, ma appare immediatamente la ragazza che è.
A fine giugno pubblica il suo quarto album, High as Hope: anticipato da alcuni singoli potenti – soprattuto Hunger –, sembra un ritorno alla semplicità del suo disco d’esordio, Lungs, del 2009. La Florence del 2018 sembra un’artista dolorosamente serena. «Serena! Nessuno lo dice di me! Fico!», mi risponde con una risata, cogliendo della mia descrizione solo la parte che le interessa. L’entusiasmo con cui Florence risponderà per tutta l’intervista dovrebbe costringermi a utilizzare sempre il punto esclamativo, ma ve lo risparmio. «Credo di essere riuscita a capirmi meglio di quanto avessi fatto con l’ultimo album (How Big, How Blue, How Beautiful, del 2015, nda). Quello era una sorta di lungo urlo, mentre High as Hope è stato scritto in una condizione molto migliore. Sono contenta che si capisca».
L’intero album sembra concepito dal punto di vista di un adulto, che si guarda indietro e osserva il proprio io più giovane e immaturo con una sorta di sollievo – per essere cambiato –, ma anche di tenerezza. Florence esplode in un’altra risata: «La me giovane era sicuramente più stupida! È un disco molto riflessivo. Essere immersi nel caos, come ero io fino a qualche tempo fa, non ti dà modo di pensare al passato, e capire perché hai agito in un certo modo, perché sei cresciuta in un certo modo… È una sensazione felice e malinconica al tempo stesso. Quando non sei impegnata a rendere drammatica la tua vita, puoi permetterti di ragionare».
Il senso di High as Hope si può riassumere nel verso “Hubris is a bitch” (“L’Hybris – l’arroganza dell’uomo nella cultura ellenica – è una stronza”) di 100 Years, una delle ultime tracce dell’album. «Hubris is a bitch!» ripete Florence divertita, come se l’avessi scritto io. «Poteva benissimo essere il titolo del disco. Nasce da una poesia che stavo scrivendo. Pensavo a tutte le cose che succedono e mi è venuto spontaneo: l’hybris è una stronza! Come se il mondo fosse una grande tragedia greca, in cui le strutture di potere crollano su se stesse. Ho pensato: che cazzo sta succedendo?».
L’intervista esclusiva a Florence Welch è sul numero di Rolling Stone in edicola. Per acquistare la copia digitale, clicca qui.