Chi è convinto che la musica, come qualsiasi altra forma artistica, sia in fondo l’espressione di ciò che abbiamo vissuto, soprattutto durante l’infanzia, farebbe bene a conoscere la storia di Nevruz Joku prima di giudicare le sue canzoni. Un artista atterrato come un alieno nel 2010 a X Factor e che, dopo il terzo posto, sembrava destinato a una brillante carriera, anche grazie al sostegno di Elio. E che invece, per continuare a inseguire il proprio sogno, ha dovuto affrontare una serie di difficoltà che avrebbero fatto desistere chiunque. D’altronde, fin da piccolo è stato abituato ad attraversare dei gironi danteschi, che dall’inferno lo hanno proiettato in paradiso e viceversa.
Figlio di un musicista tzigano, che ha abbandonato la famiglia quando Nevruz aveva solo due anni, è dovuto «crescere in fretta», con la sorella, in un collegio dove vedeva gli altri bimbi che la sera tornavano a casa accompagnati dai genitori. Quando la madre ha trovato un nuovo compagno, ed è riuscito a riportarli con sé, un altro incubo lo attendeva dietro l’angolo: un patrigno violento. Poi l’adolescenza errante a dormire nei parchi o per strada, la prima band, Water in Face, che sul più bello si è sciolta per una incomprensione, la lunga sequela di sfighe che gli hanno fatto perdere tre abitazioni, fra terremoto, alluvione e pandemia e una costante: mai un soldo in tasca, ma tanta voglia di suonare.
Ancora, il contratto rifiutato con una major, per un budget di 180 mila euro, per mantenere la propria indipendenza artistica (si è presentato all’incontro con un “uccello pene” e una bottiglia di lambrusco) e quindi un album realizzato quasi interamente su un Doblò donatogli dal fan club a causa dell’ennesimo sfratto. Più che una esistenza, sembra un calvario quello di Nevruz, che infatti quando sale sul palco pensa all’immagine «della Madonna che schiaccia il serpente, come vittoria della distruzione del male che ho vissuto».
Ora che abita con la sua compagna a Bologna, con la quale condivide una famiglia allargata formata da dodici gatti, due cani, una tartaruga e una nutria, sta lavorando al quarto album, presta la voce agli Skiantos e insegna ai giovani a «curarsi con la musica». Ricorda persino con distacco quella volta che il padre lo attirò con l’inganno per sfruttare la sua notorietà. «In un mio disco c’è un brano con due violoncellisti, padre e figlio. Per cui, se dovessi rivederlo, gli direi soltanto: guardali insieme, ecco tutto quello che ti sei perso».
Nevruz, nelle scarne biografie che si trovano online si legge che hai avuto “un’infanzia un po’ turbolenta”. Cioè, cosa ti è successo?
Sono figlio di un batterista tzigano del Kosovo, che mia madre ha conosciuto in un campo rom mentre lui suonava a una festa a San Cipriano D’Aversa, in provincia di Caserta. La mamma era bellissima e si è innamorata di lui vedendolo esibirsi e poi ballandoci intorno al fuoco. Lei era molto giovane, mi ha avuto a 19 anni. Inizialmente sembrava un grande amore, l’anno dopo è nata anche mia sorella, solo che a un certo punto ci abbandonò quando io avevo solo due anni.
Quindi tua madre ha dovuto crescere due bambini da sola?
Sì, prima ha trovato lavoro a Parigi, per cui io e mia sorella siamo rimasti dai nonni. Per un periodo ci hanno cresciuto loro. Mio nonno curava gli uccelli e intanto gli fischiettava le melodie di Ennio Morricone. Forse è lì che è nato il mio amore per la musica e di condividerla con gli altri.
Poi non siete rimasti sempre dai nonni, giusto?
No, dopo qualche anno siamo migrati in provincia di Modena. Mia madre da sola con due bambini piccoli ha fatto grandi sacrifici. Lavorava in un ristorante che si chiamava, scherzo del destino, La Mamma.
Che infanzia hai trascorso in quel periodo?
Avevamo solo una stanza e un bagno. Ricordo che a volte non c’erano neanche i soldi per la colazione. Facevamo fatica. A un certo punto, non riuscendo più a gestirci, ci ha affidato a un collegio di suore a San Damaso. Eravamo i bimbi più piccoli e ogni giorno gli altri genitori venivano a prenderei i figli, mentre noi eravamo gli unici per i quali non veniva nessuno. Nostra madre tornava solo una volta ogni sei mesi. Lì ho capito che sarei dovuto crescere in fretta.
C’è un momento preciso in cui l’hai capito?
Un giorno che eravamo alla finestra e vedevamo nel cortile gli altri con i genitori, mia sorella mi disse: «Perché non ci viene a prendere mai nessuno?». E io le risposi: «Non ti devi preoccupare Veronica, ci sono io qui con te». Sono un bimbo che è dovuto diventare grande a cinque anni.
Quando siete tornati a casa?
Dopo qualche anno, quando la mamma ha incontrato un altro uomo, che purtroppo fin dall’inizio mi ha fatto vivere un incubo. Dai 6 ai 15 anni, ho subito tanta violenza da parte sua.
Violenza fisica o psicologica?
Sia l’una che l’altra.
Hai capito i motivi di quella violenza?
Era fascista, mi chiamava Eros perché gli dava fastidio che avessi un nome straniero. Ho vissuto delle torture pesantissime. È stato un patrigno violento che mi picchiava, già dal risveglio, con calci, pugni e insulti. Ho fatto la pipì a letto fino a 15 anni. Per forza, ero sotto tortura…
E tua madre in tutto questo?
Ora abbiamo un rapporto di amore e odio proprio per quello che ho subito. In parte permetteva quella situazione, ma alcune cose non le sapeva, perché lui mi minacciava di non dirle.
Quest’uomo è ancora vivo?
Sì, anche per questo motivo non ne ho mai parlato facilmente. Mia mamma ci ha fatto altri due figli e quindi non vorrei che i miei fratelli passassero quello che ho vissuto io, il vuoto di un padre. Non vorrei danneggiarli, sono consapevole che con loro potrebbe non essersi comportato come con me. Se nei miei confronti è stato un mostro, con loro probabilmente no, essendo i suoi figli naturali.
Immagino che a un certo punto te ne sia andato di casa.
Sono scappato a 15 anni, rimbalzato tra qualche parente per alcuni giorni, tra nonni e zii, finché ho iniziato a lavorare nei cantieri, cominciando a coltivare la passione per la musica.
Quindi, oltre che per fuggire da un incubo, è anche per inseguire un sogno che sei scappato?
Il mio patrigno mi impediva di suonare e cantare, l’unico modo che avevo per fare musica era far schioccare le dita. Ho imparato suonando le ossa (mi fa sentire come ci riesce tenendo un tempo, nda). Quando sono scappato, con i soldi del lavoro mi sono comprato la prima strumentazione. È stato un periodo abbastanza buono, almeno finché non mi sono rotto il ginocchio.
Com’è successo?
Un incidente in scooter. Non mi hanno portato in ospedale e sono rimasto con il crociato e il menisco rotti per tre anni. Ho provato a continuare a lavorare in cantiere, ma era troppo dura. Così ho trovato un impiego più leggero in un centro commerciale, come magazziniere, fingendo di essere nato disabile. Altrimenti non mi avrebbero preso. Non avendo casa facevo vita di strada e suonavo nei parchi di notte.
Cioè dormivi dove capitava?
Al parco, per terra, dove mi veniva sonno. Mi sembrava naturale. Suonavo, poi già che ero lì mi fermavo a dormire. Dopo un periodo errante sono finito in una casa famiglia di Comunione e Liberazione, che mi ha dato la possibilità di curarmi il ginocchio. Mi sono operato e ho iniziato un progetto musicale in duo con Omid Kazemijazi, che è stato anche turnista con i Verdena.
Il duo si chiamava Water in Face, che si era messo in luce nella scena underground.
Stava andando bene, concerto dopo concerto il pubblico rispondeva sempre meglio. Nel 2005-2006 l’indie rock tirava, con questo power duo abbiamo vinto i contest dell’Arezzo Wave e dell’Heineken Jammin’ Festival, abbiamo aperto per Verdena, Daniele Silvestri, Africa Unite, addirittura Metallica, Depeche Mode e Lacuna Coil.
Sento che qualcosa è andato storto anche in questo caso…
Per seguire il progetto sono scappato dalla comunità. Era un contesto religioso che rispettavo, ma non condividevo. Io sono anarchico e libertario, la spiritualità è molto di più di una religione.
Volevo chiederti una follia che hai fatto per la musica, ma credo tu ne abbia una lunga serie.
Ti racconto questa. Un giorno passo di fronte a Scolopendra, un negozio di strumenti di Bologna, e vedo una batteria Ludwig argentata stupenda. È come se avessi avuto un richiamo primordiale. Il problema era che avevo pochissimi soldi, come sempre.
E quindi?
Ho fatto una cazzata, cosa ti aspettavi? Ho usato tutti i soldi e ho comprato la batteria. Così sono finito a dormire in stazione. Ce l’ho ancora. L’ho un po’ modificata, adesso è tutta verde.
È la stessa batteria che hai usato all’Heineken Jammin’ Festival?
Quella! Sono arrivato al concerto con un euro in tasca, non mangiavo da giorni, infatti se volevi trovarmi ero sempre al buffet di MTV. Ho portato la mia batteria, ma i tecnici non capivano come mai visto che sul palco ce n’era già una. Allora mi hanno detto: «Se vuoi la tua te la monti da solo». E così ho fatto. Avevo rinunciato alla casa per quella batteria, non potevo abbandonarla.
È stata almeno utile all’esibizione?
All’esibizione sì, ma non avevo le ventole dell’aria e sul palco c’era un caldo allucinante. Alla fine sono quasi svenuto sulla batteria, hanno dovuto chiamare una ambulanza. Indossavo una tuta verde da motociclista anni ’70, ho raggiunto una temperatura impressionante.
Cosa è mancato ai Water in Face per diventare una realtà musicale a tutti gli effetti?
Ci hanno proposto un tour americano in apertura a Kaiser Chiefs, Queens of the Stone Age e altri grossi nomi, ma l’altro mio socio prese male che Rock TV e MTV passavano il video in cui cantavo io e non lui. Rinunciò, stroncando così quella carriera a entrambi. Sul più bello si è dissolto tutto. Per me è stato devastante. Mi ha chiamato Luca Ferrari dei Verdena, mi ha proposto di aprire i loro concerti, ma ho avuto un crollo seguito dalla depressione, la perdita del lavoro di magazziniere, non sono andato più d’accordo con la mia compagna e ci siamo mollati.
È lì che è arrivato X Factor?
Stavo guadagnando 40 euro a settimana vendendo cartine sulla bancarella di un amico con il quale giravo in furgone, insieme a suo figlio e a un cagnolino. Poi lui è diventato il primo batterista della mia band, Le Ossa. Un altro power duo, trasformato poi a sei elementi. Mentre suonavo in giro con loro, a un concerto è capitata un’autrice del programma e mi ha proposto di partecipare.
Durante i casting di X Factor c’è un video dove ti chiedono perché hai deciso di partecipare e rispondi: «Perché ho le pezze al culo». eNon eri ironico.
No, ma è stata la mia rinascita. Venivo dal degrado più totale. Ero finito in affitto in un ex monastero del Seicento dove però ero accampato, non c’era la luce, usavo le candele, dormivo su un materasso per terra, c’era solo mezza cucina. Un po’ alla barbona, ma almeno c’era un tetto.
Qual è stato l’impatto con X Factor?
Avevo ancora qualche pregiudizio, dell’alternativo che non si mescola con i talent in tv. Tutte cazzate, perché dipende da quello che sei e che porti. Poi mi sono detto: vivo in una casa senza luce, ho un lavoro di merda, non ho soldi, sto malissimo tanto che non parlavo più, non uscivo con nessuno, non ci stavo più con la testa, per cui ho provato. A Senigallia, al primo casting, mi hanno segnalato come “freak +++”. Era il modo di descrivere quelli un po’ strani, io lo ero parecchio.
La tua fortuna a X Factor è stata anche quella di avere come coach Elio, che ripeteva spesso: «Nevruz è un pazzo, ma è anche un artista e da artista bisogna valutarlo».
Con lui abbiamo dato inizio a qualcosa che poi Manuel Agnelli ha fatto esplodere con i Måneskin. Allora non si potevano portare pezzi propri o la band, dovevi scegliere solo alcune canzoni in catalogo. Era un karaoke con la base, difficile esprimerti. Ma è stata una esperienza formativa incredibile. Ero un pulcino fragilissimo, spaventato dal pubblico e dalle telecamere.
Come ti ha aiutato Elio?
Mi ripeteva spesso: «Sei un personaggio demenziale, ma poi fai cose serie». Gli piaceva questo contrasto, dall’ironia a temi più profondi. Per me Elio è stato come un padre. Ha creduto in me anche dopo la fine di X Factor, quando è arrivato il momento di entrare nel mercato discografico.
Ricordo che dopo il programma e il primo EP con le canzoni del talent hai rifiutato di tenere fede al contratto con la Sony per il disco vero e proprio. Come mai?
Non volevano le mie canzoni, in quel periodo cercavano soltanto interpreti. Invece io avevo bisogno di tirare fuori le mie cose, altrimenti non stavo bene. Non facevo musica per firmare con la Sony, prima di tutto la musica mi faceva stare meglio.
Però ti hanno lasciato libero, a dispetto di un contratto che di solito è vincolante.
Vuoi sapere com’è andata davvero?
Sentiamo.
Mi sono presentato alla Sony per discutere il contratto tutto vestito di bianco con un “uccello pene”, che è un’opera d’arte, niente di volgare, e una bottiglia di lambrusco. Si sono stupiti, nessuno andava da solo a contrattare almeno da 25 anni. Io avevo già un album pronto, volevo uscire con quello e andare in tour, ma se non avessi rispettato il contratto avrei dovuto pagare una penale di 70 mila euro. Alla fine mi hanno liberato dal contratto senza dover sborsare nulla.
Che contratto ti avevano proposto?
Il budget a disposizione era di 180 mila euro per promuovere il progetto e cantare le canzoni scritte dai loro autori. I contratti allora erano quelli, dipendeva dal posizionamento con cui eri uscito da X Factor. Per il terzo posto c’era questa possibilità. Ricordo di avere detto: «Vi chiedo scusa, ma forse ho sognato male».
E il tuo disco è stato prodotto dagli Elio e le Storie Tese, un bell’attestato di stima.
Elio me lo disse già prima di quell’incontro: «Se non te lo producono loro, te lo produciamo noi, perché componi musica divertente da suonare». Infatti hanno partecipato anche loro nel disco.
Se oggi ti contattasse una major accetteresti certe condizioni?
Onestamente sì, ma non per i soldi. Perché nel frattempo ho tirato fuori la mia musica. Il mio nome è nessuno è uscito in 18 tracce con l’unica etichetta in Italia che ha accettato un concept nel 2018. Adesso se anche avessi una canzone scritta da altri la canterei, per questo mi sono autoprodotto diverse cover come quelle di Lucio Dalla, Renato Zero o Pino Daniele, sempre reinterpretandole.
Sei reduce da Una voce per San Marino, hai altri progetti in vista?
Al festival ho portato L’alieno, un brano che sarà nel mio quarto album e che avrà diversi ospiti. Il primo posso spoilerarlo, si tratta di Omar Pedrini con un pezzo veramente rock. Ma io non voglio definirmi con un genere, ho dimostrato di passare da uno all’altro, dipende cosa hai da dire.
Senti, dopo tutto quello che mi hai raccontato devo chiedertelo: Nevruz ci vive di musica?
Non nego di dover fare altro per vivere, perché le sfighe non sono mica finite.
A questo punto sono curioso.
Nel terremoto in Emilia ho perso la casa che avevo rimesso a posto. Ero in affitto, ma ci ho speso 30 mila euro. Proprio la settimana prima mi ero messo in piedi nella stanza dicendo: «Finalmente mi sono sistemato». Dopo il crollo sono andato da mia sorella ma, a causa dell’alluvione, ho dovuto trovare un altro alloggio e anche da quello mi hanno sfrattato durante la pandemia non facendo concerti.
Sei tornato ancora una volta alla vita di strada?
Più o meno. Il fan club mi ha donato un Doblò con il quale ho potuto continuare ad andare in giro a suonare ed è diventato la mia casa. Ci dormivo e ci componevo la musica. Di notte con la macchina accesa registravo e facevo pre-produzione. Gran parte delle canzoni di Il mio nome è nessuno sono nate in quell’auto. Poi ho trovato alloggio in un ex asilo di San Lorenzo nella zona di Sorbara ed è venuto a stare da me per due anni Fabio Testoni, il mitico Dandy Bestia degli Skiantos.
Tra l’altro, dopo la vittoria di Sanremo Rock del 2018, sei diventato la voce degli Skiantos al posto di Freak Antoni.
Per me Dandy è un altro papà. Gli ho proposto un pezzo che avrei voluto far sentire a Freak Antoni che si intitola Ci piscio. È un brano che però le etichette rifiutano visto che è antimilitarista. Poi Dandy è tornato dalla sua compagna, mentre io sono stato sfrattato. Quando se ne è andato mi ha detto: «Nevruz, secondo me tu avresti fatto il musicista anche ingoiando meno merda».
Ho saputo che la figlia di Freak Antoni apprezza la tua interpretazione dei brani del padre.
Mi ha mandato un messaggio dopo l’esibizione a San Marino: «Quando ti guardavo cantare mi hai fatto pensare al papà, lui che era un po’ un alieno giocherellone e che ora spero tanto mi e ci guardi dalle stelle». Sono scoppiato in lacrime. Il fidanzato dice che ha una bella voce, se un giorno penserà di cantare mi farebbe piacere darle qualche lezione, come faccio già con altri ragazzi.
Quindi lavori anche dando lezione di canto?
Ho un laboratorio che si chiama La voce che cura con Trame 2.0, l’associazione che per prima ha creduto in questo progetto. È partito dai centri sociali e poi è arrivato nei centri culturali e nelle strutture pubbliche. Attraverso il canto aiuto ragazzi che sono scappati dalla guerra, dalla povertà o che hanno delle disabilità. Oppure per Villa Igea, un ospedale psichiatrico di Modena, dove stiamo ottenendo ottimi risultati, alcuni giovani sono tornati a scuola. Io sono la dimostrazione che la musica salva la vita. Avrei avuto più di un motivo per non essere qui oggi a parlare con te.
Oggi hai una casa?
Adesso convivo con la mia compagna a Bologna. Abbiamo una famiglia allargata con in casa dodici gatti, due cani, una tartaruga bipolare che chiamiamo Marilyn Manson, a volte è Marilyn e a volte è Manson, oltre a una nutria.
Effettivamente in questa storia ci mancava solo una nutria…
Lei lavora per la LAV (la Lega anti vivisezione) e sono tutti animali che ha salvato. Glielo dico spesso: «Con me hai trovato il tuo caso umano». Ma lei da due anni mi ha permesso di tornare il bambino che non sono mai stato. Ci piacerebbe aprire una fattoria didattica dedicata ai più piccoli.
Per chiudere il cerchio, hai mai più rivisto tuo padre?
Si è fatto vivo dopo X Factor. Ho scoperto anche di avere altri fratelli, uno che è cresciuto in un campo rom e ora abita in Belgio, uno in Iraq che però non mi ha mai risposto e una sorella che è stata il gancio per rivedere mio padre. Attraverso di lei mi ha attirato nella sua trappola.
In che senso?
Mi ha invitato a passare un capodanno insieme a loro a Parigi, ma quando sono arrivato ho capito che aveva in mente altro…
E cioè?
Mi sono ritrovato a una festa dove suonava una band, ma in pratica mio padre aveva concordato con gli organizzatori di prendere dei soldi affinché io fossi presente. Ha usato la mia notorietà di quel periodo. Quando ho compreso, mi sono alzato per andarmene, solo che il suo chauffeur, così lo chiamava, mi si è avvicinato e mi ha fatto vedere la pistola dicendo: «Non puoi uscire di qui finché tuo padre non prende i soldi». Ero con la mia ex e ho avuto paura. Poi siamo riusciti a scappare.
Insomma, in questo caso il cerchio non si è chiuso.
Un uomo che ha fatto tanti figli e non ne ha cresciuto neanche uno non è un uomo. Con mia mamma abbiamo recuperato il rapporto, mentre con lui è stato impossibile.
Cosa rappresenta per te oggi la musica?
Quando salgo sul palco mi viene in mente questa immagine: la Madonna che schiaccia il serpente. La vittoria della distruzione del male che ho vissuto. Ogni volta che canto è un atto psicomagico.
Ora che sembri sereno, con una compagna, una casa, i laboratori in cui insegni ai giovani, la tua band e un disco in uscita, cosa diresti a tuo padre se lo avessi di fronte?
Nel mio terzo disco c’è un brano con due violoncellisti, padre e figlio, i GuerzonCellos. Per cui, prendendo spunto da loro, gli direi soltanto: guardali insieme, ecco tutto quello che ti sei perso.