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Fra un mese tutti i vostri amici fighi parleranno di Maria Chiara Argirò

Dal nuovo jazz inglese all'elettronica di ‘Forest City’, e poi la voglia di non essere incasellata, le e-mail che ti fanno svoltare, l'Italia vista da fuori: intervista alla musicista adottata dalla scena londinese

Foto press

Segnatevi il nome: Maria Chiara Argirò. Segnatevelo perché già in Italia (purtroppo…) non siamo ancora abituati ad avere donne molto forti e preparate come strumentiste, sia nel pop che nel jazz; segnatevelo perché ha già un curriculum importante, dagli anni come turnista dei These New Puritans ad essere diventata un nome ricorrente nel giro giusto dello UK jazz, quel jazz molto smart capace di parlare anche (e soprattutto) a un pubblico di hipster, clubber e persone sveglie, non solo ai parrucconi conservatori del jazz. Segnatevelo perché per il fatto che ormai vive da undici anni e passa a Londra quasi ci si dimentica che lei sia italiana e non finisce nei classici articoli sui newcomer di casa nostra; e segnatevelo infine per il suo album in arrivo il 6 maggio, Forest City, potrebbe diventare davvero un disco che piace-alla-gente-che-piace, coi suoi rimandi radioheadiani e la sua complessità mutevole ma altamente comunicativa. In realtà noi per primi avremmo già dovuto segnarcelo, il suo nome; la chiacchierata con lei inizia proprio da qui. E finisce, capirete perché, con una mail da mandare il prima possibile.

Ho recuperato Hidden Seas per preparare questa chiacchierata: ovvero il tuo album precedente – davvero bellissimo – di cui colpevolmente non mi ero proprio accorto, lo ammetto…
Beh, non è uscito proprio con un ottimo timing: fine 2019. Nel momento insomma in cui poteva iniziare a funzionare, a spargersi la voce, inizio 2020, beh… si è semplicemente fermato il mondo. Chiaro che poi ci si è concentrarti decisamente su altro piuttosto che sulla musica, e quel disco è come scomparso nel nulla. Inevitabile. Non è colpa di nessuno.

Va recuperato. Tra l’altro è abbastanza diverso dal disco che stai per far uscire a breve, Forest City: quest’ultimo è molto meno legato al jazz, e molto ma molto più vicino – dimmi se sto affermando delle sciocchezze – a Thom Yorke, ai Radiohead.
È assolutamente così!

Però ecco, per certi versi fare un disco come Hidden Seas è oggettivamente più difficile, no? Più note, più temi melodici, più cambi armonici: insomma, il jazz è una musica più difficile e complessa da fare, proprio tecnicamente. Eppure, appena hai semplificato le cose, perché che tu lo stia facendo lo si capisce dai primi estratti da Forest City, guarda un po’ ti sei subito ritrovata con molta più attenzione attorno a te. Onestamente: da un punto di vista di musicista, e musicista con una preparazione tecnica piuttosto profonda, non fa un po’ rabbia che – come dire? – meno sei bravo, più funzioni?
Ma no! Guarda, ti posso parlare di me: quello che dici è senz’altro corretto, c’è davvero una differenza marcata fra i due album e sì, il jazz è più complesso e tecnicamente avanzato a prima vista; ma non è una scelta deliberata e calcolata quella di allontanarmene quanto, semplicemente, libertà creativa e voglia di ricerca sonora. Sai qual è la verità?

Dimmi.
Mi ero e mi sono un po’ stufata del jazz contemporaneo più standard. Già in Hidden Seas avevo tagliato moltissimo gli spazi per gli assoli: era tutto molto più scritto e meno legato all’improvvisazione e al virtuosismo strumentale rispetto allo standard dei dischi jazz, e i musicisti della band devo dire che all’inizio non è che fossero proprio entusiasti di questa cosa (ride). Ma sentivo di dover fare così. Forest City sarà assolutamente un disco ancora più accessibile di Hidden Seas, musicalmente; e tanto per peggiorare le cose – mi sono messa pure a cantare. Ci pensi?

Manco facessi pop!
Bravo! Ma non mi interessa delle reazioni dei puristi. Il mio è un percorso di ricerca: e in questo momento mi affascina semplificare, compattare, avvicinarmi alla forma-canzone. E ripeto, non è un calcolo o un opportunismo, ma un lavoro specifico su me stessa per crescere, per evolvermi.

Però è chiaro, da come scrivi musica e dai dischi che hai fatto uscire ad oggi, che hai un solidissimo background da, mmmh, secchiona del jazz.
Ho iniziato studiando classica. Poi, a 13 anni, mi sono innamorata del jazz. E mi ci sono dedicata seriamente, ma a modo mio. Infatti ormai undici anni fa ho deciso di andarmene dall’Italia trasferendomi a Londra. Volevo essere libera: il che significava uscire da certi meccanismi italiani, davvero rigidi e statici. A Londra mi sono improvvisamente – e finalmente – trovata circondata da tantissima musica diversa, ma al tempo stesso, è vero, mi sono comunque dedicata al jazz proprio da secchiona, ore e ore chiusa in una stanza al conservatorio a studiare, capire, suonare, risuonare… Solo che a un certo punto hanno iniziato a dirmi troppo spesso «Ah, sei una jazzista»: questa cosa ha iniziato ad inquietarmi. Ho sempre odiato le etichette, sempre. Ancora peggio poi quando mi definivano «female jazz player»: una categoria di una categoria…

Che però poteva esserti doppiamente utile: da un lato le musiciste sono poche, ancora troppo poche purtroppo, e ora c’è la caccia a dar loro degli ingaggi; dall’altro essere inserita nella categoria jazz player significa comunque entrare in un circuito chiaro, consolidato. Una doppia rassicurazione, soprattutto se si è ancora ai primi passi della propria carriera e quest’ultima è ancora tutta da costruire.
Già. Una rassicurazione. Il punto credo sia proprio questo: io ho paura delle rassicurazioni. Non le voglio, le fuggo (scoppia a ridere)… Se mi guardo indietro, c’è una cosa ricorrente nella mia vita: continuo a pormi delle sfide da superare. Quando non lo faccio, mi annoio; e se mi annoio mi fermo, sbaglio tutto. Adesso la mia priorità è espandermi musicalmente, scoprire cioè nuovi suoni: da qui il grande interesse per la forma-canzone e l’elettronica. Soprattutto per quest’ultima, direi, visto che ho già in cantiere delle cose ancora più spinte sotto questo punto di vista rispetto a Forest City, figurati. Capisci comunque che stare in una categoria protetta e ben precisa come female jazz player, beh, non fa esattamente per me…

Va bene, va bene. Però occhio: ora stai correndo il rischio di entrare in un’altra categoria protetta, quella del nuovo jazz londinese, dello UK jazz che è jazz da un lato ma dall’altro flirta esplicitamente col pubblico da club culture. Perché parliamoci chiaro: è diventata la musica di moda, nelle cerchie più hipster.
Vero. Ma mi salva una cosa: sono italiana. E questo significa che non potrò mai realmente appartenere alla scena dell’UK jazz, capisci? Un po’ ovviamente sì, perché il giro è quello, il mio primo ambito di frequentazione lì sta, va bene, ma sarò sempre e comunque «l’italiana». Sempre. E meno male, guarda. Qui a Londra siamo effettivamente bombardati quotidianamente da musica incredibile: il livello è altissimo e le contaminazioni che subisce il jazz dall’elettronica o dall’afrobeat, tanto per citare due influenze, sono in effetti una bellissima peculiarità. Io insomma sono strafelice di essere qui; ma sono altrettanto felice di provenire da un Paese come l’Italia, di avere insomma un background particolare, peculiare. In primis ai loro occhi.

Onestamente: non trovi che tutta questa attenzione e questo improvviso amore verso lo UK jazz (verso la scena londinese in primis) anche e soprattutto da parte del pubblico non specializzato sia anche un po’ una bolla speculativa? Sì, vero, c’è della musica notevole; ma personalmente mi sembra si stia un po’ esagerando…
In parte ti do ragione. Sì, c’è un’attenzione mediatica notevole, spasmodica quasi. Penso a tutti gli articoli del Guardian e non solo… Sai qual è il vero problema? Che alla fine vedo parlare sempre e solo degli stessi nomi. E questo accade proprio perché, a un certo punto, parte questo meccanismo per cui anche per chi non è strettamente della scena, sì, fa figo parlare di quei cinque, sei nomi; e allora va a finire che si parla in generale solo di quelli, si parla continuamente solo di quelli, mentre in realtà ce ne sarebbero molti altri da nominare. In questa maniera non si fornisce un buon servizio alla verità, non si riesce a far capire come mai in questo momento l’Inghilterra sia davvero un posto bellissimo dove fare jazz, ma lo sono però anche l’Irlanda o la Scozia, la scena di Glasgow ad esempio è fantastica. No: il Guardian ha dettato la linea, tutti la inseguono, e il Guardian – anche lecitamente – parla solo di quei cinque, sei favoriti e ora sembrano esistere solo e unicamente loro, ovvio che poi magari ci si stufa pure e la moda passa. Non te li nomino questi musicisti, non ti dico chi sono – un po’ perché è chiaro a tutti chi siano, per chi è dell’ambiente, ed un po’ perché sono anche miei amici, sennò sembra che ne parlo male ed invece li adoro (ride).

Forest City esce ad ogni modo per Innovative Leisure…
Che non è un’etichetta dedita solo o soprattutto allo UK jazz londinese.

Esattamente. Hai capito dove volevo andare a parare.
E questa è una grande fortuna.

Ma come sei arrivata a loro? O meglio, come sono arrivati loro a te?
Siamo proprio sicuri che vogliamo raccontarlo? (Ride)

Oh, ora che dici così lo siamo ancora più di prima, vedi un po’!
Racconta molto di me, il modo in cui io e Innovative Leisure siamo entrati in contatto. Molto. Dunque: gli ho mandato una mail. E dentro la mail, c’era l’album, in allegato. Stop.

Tutto qui?
La cosa più incredibile è che mi hanno risposto dopo poche ore. E hanno scritto: «Quando ci mandano le demo via mail non le ascoltiamo mai e poi mai. Ma mai, capito? Mai! Però, non sappiamo perché, la tua l’abbiamo ascoltata. E accidenti, ne siamo rimasti rapiti». Assurdo, no? Poi chiaro, non è bastato questo, ha aiutato il fatto che il mio manager avesse già delle buone connessioni con loro per chiudere l’accordo; ma originariamente è nato tutto da una mia mail, da una mia semplice mail. Io però sono fatta così: se vedo una cosa che mi interessa, vado per andare a prenderla. Agisco. Senza esitazioni.

Molto anglosassone, tutto questo. A proposito: dal tuo osservatorio, che è appunto londinese già da dieci anni, come vedi la scena musicale italiana?
Ci sono ottime realtà, tra gli artisti ma anche tra i festival, penso ad esempio a Jazz:Re:Found, gente insomma che sa cosa sta succedendo nel resto d’Europa, che è perfettamente sincronizzata. Anche nel pop, eh. Però…

Però?
Però spesso in Italia sento che si è sempre un po’ indietro. Ad esempio sui beat elettronici nelle produzioni: sì, ci sono, vengono usati, ma è come se si fosse sempre quattro, cinque anni indietro come gusti e come tecniche rispetto a quello che succede ad esempio qui. Dopodiché viene tutto usato con gusto, per carità, perché il gusto in Italia non manca, ma è sempre tutto un po’ in delay rispetto a quanto avviene in altre nazioni. Vale per i musicisti, qui si stava parlando di musica, ma vale in realtà anche per chi organizza eventi. Per fortuna qualche eccezione c’è, come il festival che citavo, e ci sono altri esempi virtuosi di promoter che sono attenti alle ultime evoluzioni musicali, fra cui appunto quella del crossover tra jazz, elettronica e sperimentazione; ma in generale, non so, in Italia mi sembra tutto molto più statico. Guarda ai club, alle sale da concerto: qui a Londra ne chiudono e ne aprono a getto continuo, davvero, e quelli appena aperti possono diventare alla moda in pochissimo tempo se fanno bene il loro lavoro. In Italia, no. In Italia è tutto più lento, più statico. A me manca moltissimo l’Italia, manca la mia famiglia, manca il mio Paese; ma se devo essere sincera, arrivando a Londra ho sentito che, almeno musicalmente, ho trovato casa mia.

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Ci sono artisti italiani che trovi particolarmente interessanti, fra le nuove generazioni?
Di recente ho scoperto LNDFK, che è bravissima. Lei è di Napoli, no? Mi sembra che in quella città ci siano molte persone in gamba. E poi, Ginevra. Bravissima anche lei ed altrettanto il team di produzione che le sta dietro, che ha idee veramente notevoli, sembra prendano ispirazione molto dalla Hyperdub, no?, e non è un riferimento scontato se fai cose in Italia. Bravi davvero.

Beh, digli di venire a Londra.
Forse sì, sai? Forse glielo consiglierei davvero.

Mandagli una mail.
Hai ragione! Sono brava a far succedere le cose, con le mie mail…

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