Se oggi prospera questa crasi fra rap e it pop, street attitude e romanticismo pop, con i suoni e l’immaginario di quello che Spotify definisce graffiti pop (Coma_Cose, Psicologi, persino il Carl Brave solista e una parte di Mahmood), gran parte del merito è di Regardez moi, l’album d’esordio di Frah Quintale, tutto prodotto da Ceri. Era il 2017, e pezzi come Si, ah, Cratere e Nei treni la notte fecero sorridere i duri e puri dell’hip hop (a cui Frah non smette di mandare barre old school) e riempire di aforismi e disegni le pagine a tema indie italiano di Instagram. Ma proprio l’originalità della proposta (un misto fra urban all’italiana, r&b e funk, assai smaliziato nei testi) e la cura maniacale per l’art work (di cui l’artista si occupa sempre in prima persona) sono stati il motivo per cui il progetto ha incontrato il successo che ha incontrato, oltre all’essere stato una testa d’ariete per molti.
E però: mentre “quelli dopo” hanno banchettato, lui si è defilato; in mano lo scettro, certo, ma anche una certa necessità di mantenerlo. Da quell’uscita, infatti, se si escludono featuring fortunati (Missili, con Giorgio Poi e Takagi & Ketra) e un paio di singoli, sono arrivati concerti, sì, ma anche un silenzio discografico assoluto. Parliamo di quasi tre anni, un’eternità nel mercato di oggi, che per un’artista così non significano altro che aspettative asfissianti. Ma Frah Quintale, comunque, l’ha presa larga e contromano: con un album doppio (Banzai) la cui prima parte (il Lato blu) uscirà domani, non rinunciando a niente (Due ali è una Si, ah 2.0) ma aggiungendo sfumature liquide e notturne: Buio di giorno, è in falsetto, Contento una straniante presa bene (“perché ho tutto quello che ho chiesto”), Amarena fa il verso alle canzoni muscolari dell’estate, Allucinazioni è pura cassa dritta. Così, in libertà: per esorcizzare l’hype e le paranoie da secondo album. «Per quanto tre anni fra un disco e l’altro sono stati un bel lasso di tempo, sì», mi dice.
Ma come mai ci hai messo tanto per tornare?
Non ho mai smesso di scrivere e lavorare, ma avevo bisogno di tempo per metabolizzare quanto successo negli ultimi tempi. Abbiamo suonato per un anno e mezzo in giro, poi sono scappato due mesi a Barcellona, lontano da Milano e da tutto il resto. In più mettici che sono un perfezionista, e che questo è un disco importante, perché è il secondo: volevo che fosse assolutamente come lo volevo io, e ciò ha comportato un sacco di tempo di ricerca, sonora ed estetica.
E non avevi paura di rientrare, dopo tutto questo tempo?
Un po’ sì, ma questi tre anni sono serviti anche a sconfiggerle, queste paure. Non sapevo cosa la gente si sarebbe aspettata, ma fare musica significa decidere la propria strada senza pensare al pubblico. Non devo dimostrare niente a nessuno se non a me stesso, devo accontentare solo me: un giorno mi sveglio e faccio un pezzo rap, il giorno dopo un altro pop, ed è giusto così. Regardez moi mi ha gettato nel calderone dell’indie, e – in relazione alle aspettative – temevo per la mia libertà. Penso sia una paranoia tipica del secondo disco. L’ho risolta con un grande ‘sti cazzi: voglio fare il cazzo che mi pare. L’indie mi sembra un po’ quel genere che arriva, spacca e poco dopo va in saturazione. Ma io non desidero essere associato a quella roba là, che passa di moda. È importante essere estranei alle mode: mai seguirle, al massimo dettarle.
Il successo come l’hai vissuto?
In realtà non me ne sono accorto troppo: stavo sempre in giro, e per me la vita da tour era diventata la normalità. L’unico cambiamento, oltre a una crescita personale, è stato un approccio diverso alla musica: ho iniziato a considerarla un lavoro, con scadenze e tutto il resto. Prima invece era un po’ a caso, stavo in studio con le mie cose e… succede quel che succede.
Ti sei chiesto il perché del tuo successo?
Aspetta, il mio non lo definirei neanche successo: un artista è di successo quando questa condizione dura dieci anni, tipo. Nel caso mio, semplicemente è arrivata l’attenzione che cercavo. Ma il punto viene adesso: il successo è più difficile da mantenere che da conquistare. Comunque no, non mi sono chiesto perché: credo semplicemente dipenda dal lavoro e dall’impegno che c’è stato dietro. E Banzai nasce proprio dall’idea di comunicare agli altri che, a tre anni da Regardez moi, ho ancora delle cose da dire. Anche facendo scelte difficili, buttandomi.
Il titolo la dice lunga in questo senso, no?
Banzai è una parola giapponese che vuol dire “viva!” o “cento di questi anni!”. La usavo anche per firmare alcune mie opere quando facevo il writer. E poi l’ho scelta perché la lego alle trasmissioni della Gialappa’s, tipo Mai dire banzai (ride, nda). Alla fine, è un urlo tipo il nostro “Geronimooo!”: quando vai all’assalto, ti butti, fai un qualcosa di spericolato.
E tornare con un doppio, in un’epoca di dischi mordi e fuggi, è spericolato.
La scelta di fare un disco doppio è venuta abbastanza da sé, in realtà. Sono stato fermo tanto: dopo due anni avevo tantissimo materiale, e un doppio è anche un modo per giustificare la mia assenza. Quando fai dischi spesso escludi tanti pezzi, li lasci indietro, te li dimentichi su un hard disk e alla fine nessuno li ascolta; qui invece voglio dire alla gente che ho lavorato davvero tanto, che il materiale c’è. Per questa prima parte abbiamo scelto dieci tracce che secondo noi stavano bene insieme sotto il colore blu – in studio facciamo sempre il gioco di cercare colori nelle canzoni, a sensazione in base ad atmosfere e suoni. Il secondo lato dell’album avrà un altro colore, ovviamente, ma per ora devo tenere segreto quale.
Il disco è prodotto ancora con Ceri, squadra che vince non si cambia?
Nell’album c’è anche Bruno Belissimo in Amarena, oltre a una collaborazione con Crookers (in Faccia della notte, nda), mentre la produzione di Lambada l’avevo iniziata da solo; però Ceri è il filo conduttore, è lui che rende l’album uniforme. Siamo amici da tanto, dove io non arrivo con le produzioni arriva lui, perché mi conosce, sa cosa voglio e dove voglio andare. Non parlerei neanche di squadra: non c’è proprio un Frah Quintale senza Ceri.
Banzai mi sembra un disco nato dalla serenità. Regardez moi invece l’avevi registrato dormendo sul divano dello studio.
Sì, lì c’era davvero la necessità della sopravvivenza. Ma ora ci sono altri struggle, sicuramente diversi da quelli del 2017, ma ogni disco nasce comunque da un conflitto. Negli ultimi anni la mia vita è cambiata tantissimo – anche in aspetti come l’avere una casa, eh –, ma l’aver affrontato tanti cambiamenti in poco tempo è stato proprio uno dei motivi che mi ha spinto a scrivere, anche per metabolizzarli. Inoltre, ho vissuto una sorta di isolamento personale, in cui mi sono chiuso, staccato da un po’ di cose. E la fine di una relazione. Sono tutti struggle, questi, che rientrano in Banzai.
Esiste arte senza tristezza?
La tristezza, almeno nella musica, è il motore che ti fa scrivere quei pezzi che ti prendono il cuore, che ti danno cazzotti sulla pancia. Ma anche la felicità prevede tristezza, la felicità è piena di malinconia: per scrivere Contento, per dirti, sono passato per Buio di giorno, che è un pezzo molto più cupo, e lì parlo proprio di come mi sia lasciato alle spalle quelle brutte sensazioni. Gli stati d’animo sono ciclici, bisogna attraversali tutti prima di scrivere. Canto che “ho tutto quello che ho chiesto” semplicemente perché, nel momento in cui l’ho pensata, ero contento sentendo di essere finalmente venuto fuori dagli struggle che ti dicevo.
Curi in prima persona l’art work dei tuoi lavori, ma sei uno dei pochi a farlo nel mondo della musica. Come mai secondo te?
Perché, credo, vige ancora la concezione del cantante che si limita a cantare le canzoni; ma un artista è bello che curi tutti gli aspetti delle sue opere, io l’ho sempre fatto pur non essendo, per esempio, chissà quale grafico, ho solo studiato al liceo artistico. Per il resto, sono un mezzo esteta con le mie cose, e credo che ciò costituisca un plusvalore. Io poi ho tanti interessi, compresa la fotografia, figurati. Nel caso di Banzai, per esempio, l’art work è costituito da foto che ho scattato con Valentina De Zanche; il posto della copertina è dietro casa mia, lì è pieno di alberi. Mi piaceva l’idea della mia faccia che uscisse dai rami, mi la associo a Buio di giorno, quando dico “nascerà un fiore col tuo nome”. Per il resto, mi sono ispirato alle grafiche della Blue Note: la mia copertina è una polaroid, scattata quindi in analogico, poi virata in blu.
Infine, il futuro: in questa situazione, che si fa con un disco in uscita?
Guarda, in questo momento sto facendo le prove del live (ride, nda). Ti dirò: il lockdown mi ha dato quel tempo e quella calma necessari per limare il disco che era pronto da prima, ma così ha goduto di aggiustamenti importanti. Ora, non mi spaventerebbe suonare davanti a poche persone: vengo da anni nei locali da 50-100 spettatori, l’importante è che la gente non sia in paranoia. In ogni caso si ragiona settimana per settimana: in calendario non abbiamo ancora nulla e nessuno sa dire niente. Noi, come ti dicevo, facciamo le prove: non so se e come si ripartirà, l’importante sarà farsi trovare pronti.