Da una come Francesca Michielin ti aspetti legittimamente una serie di cose. Tipo: che lo sport sia l’ultimo dei suoi pensieri (ma poi scopri che ha scritto canzoni come La serie B, dedicata al suo Vicenza, o Alonso, come l’omonimo pilota di F1). O ancora: che sia un’orgogliosa millennial (e invece se ne esce con Noleggiami ancora un film, denso di nostalgia per Vhs, squilli e diapositive). Perfino il titolo del suo nuovo album è una sorpresa: 2640, sottointeso metri sul livello del mare – è l’altitudine di Bogotà (dove era diretta per un viaggio, prima di rinunciare per scrivere il disco). Insomma, quella che abbiamo visto finora era solo la punta dell’iceberg, e ora è pronta a svelarci cosa c’è sotto la superficie. Non a caso il brano-manifesto del disco si intitola Comunicare, «un pezzo che ho scritto di getto: avevo due ore libere in conservatorio ed è quasi venuto fuori da solo».
Ecco, a proposito: spesso vieni descritta come una semplice interprete, ma le canzoni di 2640 le hai scritte praticamente tutte tu…
È il bello di essere donna e giovane: tutti pensano che non ne sia capace! (Ride)
Molti dicono che sei “la Lorde italiana”…
È un bel riferimento. Amo la sua attitudine, la sua precocità, le sue fragilità, ma non credo di assomigliarle a livello di sound. Anche perché conosco ogni campione, suono o strumento che abbiamo usato in quest’album, e so che non sono quelli che usa lei.
Quanto c’è di tuo in questo progetto?
Tantissimo: faccio una ricerca costante per assomigliare solo a me stessa. È un disco molto autobiografico ed è mio dall’inizio alla fine, tranne due canzoni, una di Tommaso Paradiso e l’altra di Calcutta, che hanno voluto regalarmele. Con Calcutta e Dario Faini abbiamo anche scritto alcune cose insieme; e poi c’è Cosmo, che mi ha aiutato ad arrangiare un brano, Tapioca, in cui campioniamo un canto tradizionale ghanese.
Da dove viene l’idea?
Sono cresciuta in un quartiere multietnico di Bassano del Grappa, davanti a casa nostra c’è un centro dove le varie popolazioni possono celebrare i loro riti. Di domenica andavo da mia nonna a mangiare il pasticcio, e poi in questo centro a mangiare la tapioca per festeggiare qualche ricorrenza ghanese: è una comunità a cui sono molto legata. Mi è tornato in mente un coro che una mia amica mi cantava quando eravamo bambine, così le ho chiesto se poteva mandarmi una nota vocale in cui lo canticchiava.
Cosa dice il testo?
Elogia il creatore: “Per ringraziarti suonerò ancora più forte i miei tamburi”. L’ho trasformata in un inno urbano, in cui ringrazio per cose molto normali. Come il mio quartiere di Bassano, che è un posto in cui non c’è molto, ma proprio per questo mi ha aiutata a immaginare e ad andare lontano.
Come in Bolivia, in cui racconti della voglia di trasferirti in Sudamerica?
In realtà la canzone non parla di me, anzi: voleva essere una critica. Molte persone che mi è capitato di conoscere inseguono il cambiamento, vorrebbero scappare in posti esotici e remoti, magari con l’idea di vivere una vita più genuina e fare la differenza. Ma non si rendono conto che spesso il primo problema da risolvere è dentro di loro.
Cioè?
La Bolivia è uno dei più grandi produttori di quei cibi consumati da chi vuole fare una vita “sana” e “etica”, tipo l’avocado, la quinoa, le noci del Brasile. Diventando dei prodotti di massa stanno rivoluzionando drammaticamente l’ambiente e l’economia locale. Volevo accendere una lampadina su un certo atteggiamento, quello di chi vuole cambiare se stesso e salvare il mondo solo per facciata, per comodo, o per poter dire che lo sta facendo. Ignorando le conseguenze.
Non hai avuto paura di spiazzare chi, da te, si aspetta romanticismo e leggerezza?
Spesso capita di dovermi autocensurare, ma stavolta non me la sono sentita. Il tema dell’alimentazione per me è molto importante, e non è la prima volta che me ne occupo: ho sostenuto varie campagne per la filiera etica dei pomodori, che spesso anche in Italia vengono raccolti da braccianti sfruttati e nascondono realtà che nessuno conosce.
C’è spazio anche per canzoni più sentimentali, però…
Esatto, come Scusa se non ho gli occhi azzurri. È speculare a un altro singolo, Vulcano. La prima racconta di quando ti innamori, ti disperi perché lui non sembra convinto quanto te e cerchi giustificazioni a tutto; la seconda di quando la rabbia prevale, capisci che in te non c’è niente che non va e lo mandi a quel paese.
Quel brano si apre con il verso “Scusa se non ho già trent’anni”. In che senso?
Beh, diciamo che la persona a cui è dedicata è più vicina ai 30 che ai 20! (Ride, nda) Sarà perché ho cominciato a lavorare molto giovane, ma sono sempre stata portata a relazionarmi con persone più adulte. Da una parte mi ha aiutato a maturare prima, ma dall’altra mi sono persa un sacco di esperienze tipiche della mia età.
In effetti in Io non abito al mare citi un sacco di situazioni normali, come trovarsi in mezzo al casino sotto il palco a un concerto. Ma tu quanto spesso le hai vissute?
Dai 16 anni in poi, andando a scuola e lavorando, era davvero impossibile avere una vita: le sere libere le passavo a studiare. In quest’ultimo anno, invece, sono riuscita a recuperare una normalità. In quella canzone, che ho scritto con Calcutta, c’è proprio quel periodo: uscivamo dallo studio e andavamo a un concerto, a ballare, a berci una cosa. Devo dirgli grazie anche perché mi ha aiutato molto a riprendermi i miei spazi.
A proposito, e quel viaggio a Bogotà?
Non ci rinuncio per niente al mondo: l’ho solo rimandato!