Era febbraio quando Francesco Bianconi mi ha invitata a raggiungerlo nel suo studio casalingo, un pomeriggio, per farmi ascoltare per intero il suo nuovo lavoro, il primo da solista, masterizzato da pochissimi giorni. L’uscita era prevista per la primavera, c’erano le prime date del tour pronte a essere annunciate per il mese di maggio ma soprattutto, l’ho scoperto seduta con il suo autore davanti a un impianto degno di questo nome proprio quel pomeriggio, c’era un disco importante, ambizioso, straordinario anche nell’accezione più letterale possibile del termine che era pronto a nascere, venire al mondo. Inutile specificare che quel disco, poi, non è uscito più, che le chiacchiere registrate che pochi giorni dopo avremmo fatto con Francesco e il produttore dell’album, Amedeo Pace dei Blonde Redhead, sarebbero rimaste lì, ferme, cristallizzate dentro un file audio e dentro le riprese video fatte in quel sabato mattina di fine inverno, quando già ti aspetti, dalle prime brezze più morbide, una grande primavera.
Ora che le cose non sono tornate alla normalità, ma riusciamo pur con fatica a concederci qualche nuova grande uscita discografica, Forever, questo primo progetto del frontman dei Baustelle finalmente sta per nascere, arriva allo scoccare della mezzanotte e da domani sarà disponibile per tutti. Si tratta di un lavoro importante, diverso, concepito a più penne, più voci, più menti, più mani. Oltre alla produzione di Amedeo Pace c’è una struttura classica dei brani, tutti eretti su una concezione sonora per pianoforte e quartetto d’archi, nata dal lavoro di Bianconi con il polistrumentista per eccellenza del pop italiano degli ultimi anni, Enrico Gabrielli e con Angelo Trabace, pianista di formazione classica prestato al pop di impressionante talento. Insieme a loro anche il pianista Michele Fedrigotti, nome della classica noto anche per le sue collaborazioni con, tra gli altri, Battiato, Alice e Giuni Russo.
A partire da quest’impianto classico e da un’idea minimale di struttura sonora mutuata da ascolti e riascolti di dischi storici similmente concepiti (su tutti Francesco segnala il rinnovato amore per Desertshore di Nico) Forever spazia, si muove nel mondo e al mondo si apre, insieme al suo autore, affiancato per l’occasione, anche alla scrittura, da nomi internazionali di assoluto pregio come Rufus Wainwright, Eleanor Friedberger, Kazu Makino e Hindi Zahra. Si scrive, si sente e si canta in italiano, in inglese, in arabo: si abbattono i confini e, con loro, le definizioni: anche quella, abusatissima, del grande cantautore italiano.
Per raccontare questo attesissimo lavoro sono dunque tornata, a distanza di mesi, di isolamenti, mascheramenti, inermità e vuoti, in quello studio casalingo dell’autore ora che, con una brezza simile ma che all’incontrario va, volgendo all’inverno; abbiamo questa volta cambiato posto e prospettive reciproche e abbiamo ripreso il discorso dove l’avevamo lasciato, per poi muoverci un po’ a ritroso e vedere cosa resta di qualcosa che sta per nascere.
Allora, dove eravamo rimasti, e cos’è successo nel frattempo a Francesco Bianconi solista e a queste dieci canzoni?
Quando ci siamo visti a febbraio le canzoni erano pronte, il disco era mixato e anche masterizzato da pochi giorni se non ricordo male: eravamo pronti per l’invasione del mondo però come spesso succede arriva un evento esterno, arriva il Generale Inverno, la guerra mondiale, in questo caso la pandemia che ci ha congelato tutto. C’è stata da parte mia semplicemente un’elaborazione di strategie alternative che poi è una cosa accaduta a tanti, su varie scale, tutto in nome della sopravvivenza. La mia rielaborazione è stata quella di rimandare l’uscita del disco, era previsto a maggio, alcuni hanno fatto comunque uscire dei dischi durante quel periodo, ma l’uscita di questo era perfettamente concomitante con il momento in cui anche la distribuzione era ferma: uscire senza il formato fisico nei negozi era una cosa penalizzante per cui leggendo i giornali e facendo aggiorna sulla pagina di Repubblica di continuo abbiamo rimandato all’autunno. Io ci sono rimasto male come quando devi, chessò, partorire suppongo, anche se forse è un paragone che non è giusto fare però ecco, c’era questa cosa che volevo vedere uscire.
Ero curiosa di capire se per te in questo lasso di tempo trascorso nel mezzo le canzoni fossero un pochino cambiate, o fosse cambiato il tuo sentire nei loro confronti.
Questo era il mio grande incubo, è stato come lasciare tutto nell’indeterminatezza, però si sapeva che sarebbe passato molto tempo, uno iato temporale così grande tra master e uscita non c’era mai stato per cui avevo grande angoscia su come sarei stato io al momento dell’uscita effettiva: soprattutto conoscendomi e visto che mi rompo in fretta e subito finito un disco ne voglio fare altri, temevo molto. Tutti gli amici mi dicevano di non pensare a me, ma agli altri, alla gente che comunque avrebbe ascoltato tutto questo proprio per quello che era e cioè come una cosa nuova senza conoscere nessun tipo di simile mia paranoia. Alla fine ho capito che avevano ragione loro e mi sono detto che avrei trovato il modo di risincronizzarmi con tutto questo, come in un racconto di fantascienza. Di certo è una cosa che mi ha dato molto da pensare e ancora, a distanza di poche ore dall’uscita, me ne dà, certamente c’è il vantaggio di aver fatto un disco che dal punto di vista timbrico e sonoro non ha il problema di dover essere sincronizzato con le mode e con il tempo. Al momento mi sento abbastanza tranquillo, in fondo potrebbe essere un disco del 1700.
Questo lavoro, mi raccontasti già allora, è nato in lunghe session pomeridiane con i musicisti, session di scrittura intime e casalinghe che ora, a ripensarci, sembrano piccoli isolamenti musicali, piccoli lockdown artistici arrivati prima del lockdown reale.
È vero, non ci avevo mai pensato, ma è interessante: per tutta la fase di preproduzione, di scrittura, è stato come praticare un forzato continuo piccolo isolamento insieme alle persone che lavoravano di volta in volta con me. Per scriverle ho voluto collaborare con musicisti di estrazione classica: Angelo Trabace, Enrico Gabrielli, Michele Fedrigotti. Prima ancora c’era stato un mio desiderio di rimettermi a studiare composizione e perfezionare alcune conoscenze che ho da autodidatta con la finalità di metterle poi al servizio di questo nuovo lavoro che avevo in mente e che sapevo doveva avere un’impronta classica. Ho certamente provocato questi piccoli isolamenti che dici, che sono anche isolamenti concettuali perché si trattava di scrivere canzoni che fossero isolate dal modo di scrivere canzoni del mondo che mi circonda e anche isolate dal me del passato, dal modo in cui ero abituato a scrivere io stesso.
Nel risultato è un disco molto ambizioso, ma qual era la tua ambizione quando ci lavoravi?
Era quella di fare una cosa nuova che reggesse all’usura del tempo, una cosa che mi dispiace molto di questi anni in cui viviamo è che anche a fronte di musica bella siamo subissati, è come se non la si riuscisse ad afferrare, e mi domando se sia io che non riesco ad afferrarla o se sia di per sé poco afferrabile, mi sembra tutto decadere molto velocemente, ho la sensazione che prima gli album durassero, come in un consumo meno rapido di quanto lo è ora. Oggi pare che tutto abbia successo e poi sparisca subito.
L’ambizione di essere Forever.
La tensione al Forever, alla resistenza al tempo in quest’era di soglie dell’attenzione molto basse in cui a volte sembra che arrivi musica fatta proprio programmaticamente per soglie di attenzione basse: musica fatta per un mondo effimero, musica nata con l’idea dei “pezzi bomba”, dei “senti come spacca questo” e intanto ho “spaccato”, “spaccato”, “spaccato”, ti comunico “fuori ora il mio pezzo che spacca” e poi alla fine cosa rimane? Sembra che in tutto questo si sia un po’ dimenticato, e questo sinceramente mi provoca dispiacere, che la musica è anche un piacere, deve rimanere un godimento che provoca anche un’astrazione dal resto, un piacere che genera magari anche una piacevole fatica. A furia di togliere si toglie anche il piacere interpretativo dell’ascoltatore e quindi ci si incanala tutti in un monoprodotto; il risultato è quello di essere circondati da musica tutta uguale, ma non uguale solo nel risultato, proprio musica che lavora tutta su codici che sono variazioni sul tema, musica che sai già dove va.
Nel tuo ultimo singolo, Certi uomini, a un certo punto parli dei discografici morti della Warner, della Universal e della Sony, di certo corresponsabili di questo stato dell’arte.
Con i Baustelle siamo stati tra gli ultimi in Italia a godere di una discografia che aveva il portafogli da un lato e gli uomini dall’altro, una discografia che contemplava la presenza del pop più commerciale e anche di successo (una Laura Pausini, per dire) e di gruppi come noi che facciamo una cosa diversa e per un pubblico senz’altro più ridotto: c’era anche un’idea di investimento a lungo termine. I discografici morti di cui parlo sono solo una parte di un sistema in cui ugualmente hanno peso i cantanti che, come dico nel pezzo, “ucciderebbero per apparire in un programma in televisione”, e tra questi mi ci metto anch’io. Lo dicevo anche in Amen “io che vendo dischi in questo modo orrendo”, io stesso mi faccio pena e vergogna nel far parte di questo tipo di sistema. I discografici muoiono quando e se l’unico sistema che conoscono è quello di fare le prime donne dentro i reality show, esattamente come accade per i cantanti. Detto questo, non sono mai stato uno che ha dato colpe ai discografici tipo “se non vendiamo è colpa loro”: no, se una cosa non si vende è quasi sempre colpa dell’artista. Poi pensavo che avrei dovuto scrivere un’altra strofa in cui dicevo una cosa tipo “i ragazzini ucciderebbero per fondare una casa discografica e spaccare”, in riferimento a questo nuovo pensiero, ad esempio molto diffuso tra giovani rapper e trapper che ancora mentre stanno scrivendo lasciano la penna lì e pensano: “faremo 50k, 100k” o magari lo scrivono proprio perché il genere in cui gravitano glielo consente storicamente.
Ma torniamo a te: dunque mi dicevi che uccideresti per apparire.
Beh sì, metaforicamente certo. Altrimenti non sarei qui a fare il disco da solo, pensa a questo: io in questo momento, figurativamente parlando, ho mezzo ucciso la mia band per fare questa cosa che sto facendo che è puro narcisismo, puro ego, che mi serve per vivere, certo, ma soprattutto mi serve interiormente. L’importante però, io credo, è essere consapevoli dei propri peccati, anche quelli dell’ego.
Allora andrai a Sanremo ad apparire quest’anno?
No, non vado a Sanremo. Quello continua a essere un modo non mio di apparire, non mi piace il meccanismo della gara, non mi sento psicologicamente adatto a quel tipo di pressione, poi magari un giorno lo sarò ma al momento preferisco starne fuori. Mi ricordo la prima volta che ci sono andato dieci anni fa come autore con Irene Grandi, ero curioso ed ero contento di essere autore di una canzone per una cantante importante; sono finito dentro questo carosello allucinante, ricordo di averci dormito solo una notte e se ci penso mi rivedo lì col mio valigino la mattina dopo alla stazione a riprendere un treno per Milano da solo, non triste ma distante da tutta quella giostra.
Forever è un disco molto nudo, la sensazione che si ha, ed è una cosa che riguarda tanto le musiche quanto i testi, è di trovarsi davanti a una tua immersione totale dentro te stesso fino ad arrivare a mostrarti a chi ti ascolta in modo del tutto scoperto. Ho pensato che forse questo per te era l’unico modo possibile per fare un disco senza gli altri Baustelle: togliere ogni abito, ogni posa, tutto. Una cosa che quando sei parte di un gruppo non puoi fare così completamente, perché non sei da solo, ci sono anche gli altri.
Mi sembra molto interessante ed è probabile che sia così, non so se fosse l’unico modo ma l’ho pensato molto legato alla spoliazione, sì, e poi è un progetto che nasce certamente in contrapposizione ad altro, non nasce come un big bang, nasce dal fatto che io ho fatto dei dischi in un certo modo con i Baustelle, dalla mia esperienza pregressa e non avrebbe avuto senso per me fare qualcosa che fosse in concorrenza con le cose fatte prima; io sentivo che stava nascendo un essere umano nuovo e il disco che stava nascendo a sua volta da questo essere umano nuovo doveva essere diverso. Sono cose a cui penso adesso queste, non sono nate a tavolino, ma la tua domanda è interessante perché ora io ci penso e mi dico: come poteva essere diverso da così? Come poteva essere altrimenti? E forse non avrebbe proprio potuto essere altrimenti.
Dovessi dare una definizione di Forever con una sola parola direi che è un disco psicanalitico. Un pezzo cardinale in questo senso è L’abisso, in cui inchiodi te stesso con una capacità, appunto, immersiva, da palombaro del tuo Io che è sconvolgente. Fatico a pensare – e sul passato recente depongo proprio le armi – a un altro pezzo che fa questo tipo di lavoro (uso un termine psicanalitico, ecco) con la medesima trasparenza.
Sì, senz’altro lo è perché ho iniziato un percorso di analisi prima di iniziare a scrivere le canzoni del disco perché sentivo che avevo bisogno di questa cosa e secondo me i testi rispondono ed esprimono questo viaggio che ho iniziato a fare. Il percorso di scavo dentro te stesso o lo mascheri oppure ne fai del cinema verità, della musica verità in questo caso. Sono successe cose in me e le ho tirate fuori con un mascheramento sempre minore e forse una minore retorica, come se ci fosse una sorta di filo diretto, per quanto possibile, tra l’essere umano e le cose che lui racconta, tra il sé e la sua rappresentazione.
In questo disco è centrale anche la relazione con l’altro da te, in primis direi proprio dal punto di vista formale delle scelte musicali e dei tuoi compagni di avventura.
Proprio perché sono stato forse per la prima volta a mio agio anche con delle regioni di me che a volte confinavo per paura o chissà perché da permettermi una perdita del controllo, cosa che non ho mai perso e prima avevo sempre cercato di non perdere, nella vita come nel lavoro. Ho fatto il produttore artistico di molti dischi dei Baustelle, un ruolo da controllore, che mi piace molto ma in qualche modo è come se ti facesse perdere di vista la gioia del caos e del delirio derivanti dall’atto creativo. Qui perdere il controllo significava distruggere un me che io chiamo ente moralizzatore che è come un gufo sulla spalla che ti dice se una cosa è giusta o sbagliata. Ho delegato questo ruolo di produttore ad Amedeo Pace che poi si è rivelato quasi inquietantemente simile a me nel ruolo di controllore e con cui mi sono trovato benissimo. Anche nella scrittura dei pezzi, in quei famosi isolamenti di cui parlavamo prima, ho voluto proprio distruggere questa idea di “Francesco è quello che scrive i testi”, volevo lasciare le cose aperte, collaborare, scrivere con altri, ricevere anche, perché ogni contributo è una forma di ricezione. Il risultato è che perdendo quel controllo di cui dicevamo, pur cercando di non perdere il mio rigore, mi sono divertito molto, ho avuto molto in termini creativi.
Un disco scritto e cantato da varie voci e soprattutto in varie lingue come questo può anche risultare spiazzante, nella musica pop non è una cosa molto diffusa, in Italia per di più…
Era una cosa che volevo tanto, fa parte proprio di questo uomo nuovo che come diceva Morgan pensa “ho deciso di perdermi nel mondo”. Ecco: qui ho proprio deciso di aprirmi al mondo. Voglio dire: so già di essere italiano e dunque avevo molta voglia di fregarmene dell’idea di essere italiano e di rispondere a quell’altra idea del cantautorone con la canzonona italiana. Perché poi succede che quando parliamo di De André e celebriamo De André ci riferiamo tutti delle sue parole, ai testi e invece il suo disco più celebrato in assoluto, quello che si ascolta nel mondo e di cui si è innamorato David Byrne, è un disco cantato interamente in genovese, è un disco del Mediterraneo come Crêuza de mä, un disco di cui in pochissimi avranno approfondito il senso delle parole rispetto a quanti, di quelle stesse parole, hanno amato il suono. Un disco che fa lo stesso effetto che tu venga dall’Arizona o da Arenzano. Le parole sono suono, anche il rock’n’roll fa suonare le parole. Tramite lo stratagemma di questa spoliazione, di un disco che si regge tutto su pianoforte e quartetto d’archi, volevo avvicinare mondi lontani, rendendo omogenee parole arabe con parole inglesi con parole italiane. Per definire questa cosa dico che è un disco di folk universale.
Ho pensato che in un momento storico come questo nostro in cui i confini e i muri sono purtroppo tornati in auge, questa tua scelta fosse anche politica, proprio una scelta anche ideologica di puro, magnifico sconfinamento.
Sì, la è stata, mentre facevo questa cosa ho pensato che in mezzo a queste idee folli di nazionalismi, sovranismi, un mondo di nazisti dell’Illinois, un periodo di chiusura, paura, incertezza, manipolazione della gente arrabbiata, questa apertura fosse anche una mia piccola personale risposta politica
Un elemento che torna fortissimo nella tua scrittura, e succede anche in questo disco, su più livelli, è quello spirituale, in certi casi direi proprio religioso. Ci sono molte immagini che afferiscono a quella sfera in modi più e meno diretti e persino quando dici “io so che sono nato dalla fica e so che lì voglio tornare” io penso istantaneamente all’origine del mondo, ci sento un riferimento all’atto della creazione.
Sì, sono cambiato un po’ anche in questo, mi sono sempre professato ateo ma ho sempre scritto cose in cui anche solo come elemento decorativo ho usato metafore oppure ho preso in prestito immagini dalla Bibbia: è un immaginario che credo serva ad arricchire una canzone. Mi sono sempre detto appunto ateo in ricerca, insoddisfatto del materialismo, ma da un po’ di tempo a questa parte penso: ma chi l’ha detto che bisogna ricercare? Battiato scrive in un libretto della sua opera Genesi: “per credere non bisogna avere fede, forse basterebbe a volte sentire”. Dice una cosa che io ho capito dopo, messo a fuoco da poco, leggendo un po’ di Mistici, oppure cose come questa gigantesca biografia di Giordano Bruno che ho letto quest’estate, Il sapiente furore, edita da Adelphi. Mi sento ora di pensare che forse anche questa cosa della ricerca di Dio è solo una menata da comodi figli di papà.
Io non mi sono convertito ma mi piacerebbe abbandonare ogni forma di ricerca e semmai arrivare a Dio senza dover passare da religioni e ricerche. La conclusione di Giordano Bruno alla fine è quella di un monaco tibetano: Dio è nelle cose, in tutto. Dio come qualcosa che dipenda da come tu vedi le cose: per esempio accettarle, grazie a questo sentire. Accettare anche la morte, contemplare la felicità e dunque il fatto che la morte possa semplicemente arrivare.
Dici “vivo perché ho voglia di morire” e in Zuma Beach fai proprio riferimento a un momento di felicità totale a tal punto da considerare che potresti anche accettare la fine di tutto in quel momento: “vorrei disintegrarmi nella luce”.
Ecco, sono quei momenti in cui c’è quella consapevolezza, in cui la lampadina di Dio tu la accendi, sei così in pace con la vita da poter considerare di abbandonarla in quel momento. Non prego Dio per avere cose in cambio, per lenire dolori, Dio non è uno che fa regali credo, ma è magari proprio quell’accendere la lampadina.
E forse questa nuova consapevolezza coincide proprio con la maturità?
Sì, forse è proprio così.