Non nevica in questo momento a Pavana, provincia di Pistoia, ma ha tutta l’aria che stia per iniziare. «E fa un gran freddo, ma tanto io non esco di casa», dice, ridendo, Francesco Guccini. Pochi giorni fa si è spinto fino a Milano, e ora per un po’ vuole starsene rintanato tra le quattro mura cui ha deciso di consacrare questa fase della sua vita e della sua carriera. L’occasione per il ritorno in città è stata la presentazione di Canzoni, libro scritto dall’amica italianista Gabriella Fenocchio. Edito da Bompiani, raccoglie i brani più noti e amati del cantautore, da Radici a Signora Bovary, accompagnati dalle riletture della ricercatrice, docente in un liceo bolognese. Fenocchio applica gli strumenti della critica letteraria alle tessiture liriche di Guccini, ne analizza il ritmo, le scelte lessicali e la retorica. Con il benestare dell’autore di Canzoni quasi d’amore che, ritiratosi dalle scene musicali, accetta senza scomporsi il fatto che le sue creazioni musicali siano spinte dentro un campo che non è propriamente il loro. «Anche perché Gabriella è una cara amica», esordisce.
Non fa un po’ strano che la propria arte sia oggetto di un studio di questo tipo?
Ogni tanto, mentre Gabriella scriveva, mi chiamava per aggiornarmi su come procedeva il libro: mentre mi leggeva il suo lavoro, pensavo “se tu dici che volevo dire quelle cose, mi fido”. Un critico, in ogni campo, trova spesso chiavi di lettura a cui un autore nemmeno aveva pensato. Quando uno scrive il testo di una canzone – almeno questo è senz’altro il mio caso – lavora d’istinto, d’immediatezza, non è che pensa “ora qua ci metto un’anafora, che ci sta bene”. La canzona nasce spontanea, in molti casi nemmeno ci si rende conto di quello che si sta facendo mentre la si butta giù.
Eppure proprio tu “non hai mai detto che a canzoni si possa fare poesia” (da L’avvelenata, ndr).
Infatti non è poesia, perché la canzone nasce con uno scopo e una tecnica diversa. Questo non vuole affatto dire che sia arte di serie B: il valore può essere altrettanto alto. A me piaceva fare canzoni e mi piaceva che le parole nascessero assieme alla musica, non le avrei mai pensate in maniera autonoma. Poi se si vuole isolare il testo, mica mi offendo.
Parlavi di spontaneità, ma nei fogli su cui lavoravi durante la stesura dei testi – che Canzoni riporta nelle sue pagine – si denota il grande lavoro che c’era dietro a un tuo brano.
Ha colpito anche me rivedere quei fogli, non ricordavo minimamente tutti quei cambiamenti in corso d’opera sulle parole, quelle correzioni e quei ripensamenti. Scegliere un vocabolo piuttosto che un altro, scartare il superfluo e trovare tutti gli incastri ideali, ovviamente, è un lavoro impegnativo. Ma una volta che il pezzo è finito perdi un po’ l’idea di tutto quello che ha portato alla sua realizzazione, ti scordi del lavoro che hai fatto ed è come se la canzone fosse sempre stata così.
Mai pentito a posteriori di aver fatto determinate scelte stilistiche?
Capita spesso negli anni di sentire qualcosa che funziona fino a un certo punto, oppure che poteva essere meglio di così. Ma sul momento, subito dopo aver terminato una canzone, non avevo mai ripensamenti. Sono sempre stato molto veloce a scrivere, buona la prima o giù di lì. Per questo quei fogli così vissuti oggi mi stupiscono un po’.
Qual è il pezzo che hai scritto più di getto?
La locomotiva fu scritta in 20 minuti. Mentre buttavo giù una strofa prendevo appunti a margine del foglio per quella successiva, era come se inseguissi le parole che sarebbero venute dopo. Purtroppo credo che il manoscritto originale non ci sia più. Da questo punto di vista sono un vero cialtrone, non fosse stato per mia moglie tutti i testi originali sarebbe andati perduti. Non ho mai avuto grande cura delle mie cose.
Ci sono dei testi che ti hanno emotivamente provato durante la scrittura?
No, nella scrittura no. Ma nel cantare sì: a un certo punto ho dovuto smettere di eseguire durante i concerti Van Loon, un brano dedicato a mio padre. Mi commuovevo troppo, mi veniva un nodo alla gola e non riuscivo ad andare avanti.
In media quanto tempo ci voleva per scrivere una canzone?
Un pomeriggio, quasi mai di più. Nell’ultimo periodo, però, ce ne mettevo di più: iniziavo e dopo un po’ mi interrompevo, per finirla il giorno successivo. Facevo fatica, perché mi stavo arrampicando sugli specchi per scrivere canzoni: quello che dovevo dire l’avevo detto, ed ecco il motivo per cui mi sono fermato.
Secondo Gabriella Fenocchio, e sono molto d’accordo, una delle parole più importanti per inquadrare la tua musica è “incontro”.
Io ho sempre raccontato solo cose che mi sono accadute. Posso citare a memoria le canzoni che non hanno a che vedere con la mia vita personale: Autogrill e Il vecchio e il bambino, le uniche frutto completamente di fantasia. Tutte le altre appartengono alla mia sfera personale e sottolineano dei momenti della mia esistenza: incontri, persone trovate lungo il cammino, momenti particolari, donne che hanno rappresentato qualcosa per me. Scrivevo quello che vivevo e vedevo.
Di cosa bisognerebbe cantare oggi?
I temi dipendono esclusivamente dalla passione e dal sentimento di chi scrive. C’è stato il periodo eroico, diciamo così, dei cantautori, mentre oggi il mercato musicale segue altre logiche. Forse c’è ancora qualche rapper che ha qualcosa da dire.
Tu però non ascolti più musica.
Esatto. E ho anche smesso di suonare la chitarra: ammesso che sia mai stato capace a farlo, ora non lo sarei più.
Il problema è la poca lungimiranza dell’industria musicale?
Un po’ credo di sì. Il mio primo disco (Folk beat n. 1, ndr) non ha venduto nulla o quasi. Per me era stato poco più che uno sfizio, tanto che pensavo che sarebbe stato il primo e unico. Invece mi hanno chiamato per farne un altro che a sua volta è andato male, e io ho pensato “la mia carriera finisce qua”. Il terzo, uguale. Solo al quarto, Radici, ho cominciato a vendere. Una casa discografica, allora, se credeva in qualcuno non lo buttava via come un fazzoletto sporco in caso il successo non arrivasse subito: c’era un altro modo di pensare al lavoro. Tanto che io ho cominciato subito con i 33 giri e non i 45, a quei tempi si facevano investimenti veri sugli artisti.
Da un lato oggi trionfa la musica mordi e fuggi con gli streaming, dall’altro l’affetto per i “grandi vecchi” è enorme. Il tuo caso, o le recenti celebrazioni per De André e Gaber, lo dimostrano.
Hai appena nominato due grandissimi artisti, è normale che la gente si ricordi di loro. Però posso confermare questa tendenza: quando vado in giro per l’Italia, le sale sono sempre strapiene. E pensare che io nemmeno canto più.
Ti chiedono ancora di farlo?
No, il pubblico degli eventi a cui partecipo ormai lo sa. Però l’altro giorno mi è arrivata a casa la lettera di due maestre di una scuola di queste parti, mi chiedevano se potessi andare in classe da loro a cantare una canzone. “Ma state scherzando?”, ho pensato.
Per Vecchioni, in realtà, lo hai fatto.
Sì, ma ho cantato una sola strofa, mica un poema epico. Roberto ha fatto tanta confusione per nulla. Dice che ha fatto fatica a convincermi, ma non è vero: mi ha telefonato e gli ho detto di sì. Solo è dovuto venire lui quassù a Pavana a registrare, perché io non mi muovo volentieri. Abbiamo registrato in casa, ormai si riesce a farlo con una qualità estrema. Il mio ultimo disco (L’ultima Thule del 2012, ndr) è stato tutto registrato nel mulino dei miei nonni, dove ho trascorso i primi anni della mia vita. Passare dagli studi ipertecnologici a un mulino è stata una gran bella esperienza (ride).
A cosa stai lavorando in questo momento?
Sto riguardando un libro che ho appena scritto, e che dovrebbe uscire nel prossimo autunno. Sto facendo il glossario assieme a un redattore della mia casa editrice, perché uso parecchie parole dialettali e sconosciute. Solo che questa persona non viene mai, perché ha paura della neve. Quindi sono bloccato, sto sul divano e guardo la tv.
Per ora sappiamo che il libro riprenderà il tuo primo romanzo, Cròniche epafàniche del 1989. Puoi anticiparci qualcosa di più?
Racconta lo stesso mondo di allora, ma oggi. Quel paese degli Appennini al centro del libro originale, ambientato tra gli anni ’40 e ’50, e che ora sta morendo. Che poi è ciò che sta accadendo davvero. Qua a Pavana sono rimasti solo gli anziani, compreso me: i giovani scappano perché non c’è lavoro, le case hanno tutte il cartello vendesi e nessuno le compra, è sparita pure la villeggiatura e nessuno d’estate va giù al fiume a nuotare o pescare. Il “capoluogo” (Sambuca Pistoiese, di cui Pavana è una frazione, ndr) d’inverno ha zero abitanti, in un censimento del 1911 nel comune erano in tutto 7100, ora sono 900 scarsi. Ed è così dappertutto da queste parti, che profonda tristezza.