Ci sono le donne, lo sballo, la cocaina, gli eccessi, i traumi, le difficoltà economiche, gli amori tormentati, i tradimenti, le fughe, la fame di successo, i backstage, le groupie, la voglia di riscatto, la disintossicazione. Nel mezzo, l’autobiografia di Francesco Sarcina in uscita il 16 febbraio, non è uno di quei resoconti edulcorati che spesso gli artisti pubblicano assemblando aneddoti già sentiti e risentiti e facilmente rintracciabili sul web. Non è nemmeno il racconto del percorso con cui il cantante, chitarrista e frontman de Le Vibrazioni è passato dalle jam session di fine anni ’90 nelle scalcinate cantine di via Lombroso a Milano ai palchi dei maggiori club italiani, dai dischi con la band a quelli solisti fino al ritorno con il gruppo a Sanremo 2020.
Qualcosa di tutto questo naturalmente affiora, ma nel libro il 44enne Sarcina si tien ben lontano dalla mera cronaca degli avvenimenti pubblici per sviscerare il dietro le quinte, i retroscena e in sostanza la vita al limite di un ragazzino cresciuto nella periferia milanese degli anni ’80, in un contesto popolare dove la delinquenza s’intrecciava con la violenza dello scontro politico, con due genitori incasinati e perennemente in crisi e un sogno in testa – diventare un musicista – che se da un lato lo ha salvato, dall’altro, al motto di “sesso, droga e rock’n’roll”, lo ha trascinato in una giostra di situazioni borderline che una volta adulto lo hanno buttato a terra.
Ma non c’è nessuna parabola moralista in tutto questo, semmai il contrario. «Semplicemente a un certo punto mi sono rotto le palle di essere sempre giudicato e ho deciso di auto-denunciarmi alla faccia dei perbenisti», spiega Sarcina. «Anzi, devo ammettere che ora pensare che tutto quello che ho scritto possa potenzialmente finire in mano a chiunque è strano. Perché sì, alcune cose le ho censurate, ma mi sono messo a nudo sul serio: in queste pagine confesso tantissime delle cazzate che ho combinato nella mia vita».
Quand’è che ti sei convinto che questa vita fosse degna di essere raccontata?
Quando, dopo che negli ultimi anni mi sono ritrovato invischiato in un mondo dominato da un buonismo, un perbenismo e un bigottismo totalmente falsi, ho iniziato a chiedermi perché mai dovessi sottopormi ai giudizi di gente che non ha fatto nemmeno un millesimo di quello che ho fatto io, sia come esperienze di vita, sia a livello professionale, figuriamoci artistico. Io non giudico mai nessuno e credo che giudicare e puntare continuamente il dito contro gli altri sia segno di debolezza e insicurezza. Allora mi sono detto: sai che c’è?, anziché farmi raccontare da questi soggetti ipocriti, privi di personalità e intelligenza, adesso li racconto io, i cazzi miei, e il bello è che sono molto peggio di quelli per cui questa gente si scandalizza. Ma moooolto peggio: più veri, più intensi, più devastanti.
Facciamo un passo indietro: chi sarebbe questa gente che ti giudica?
Chiunque, generalizziamo che è più bello… Il punto è un altro: dopo una vita vissuta come l’ho vissuta io, dopo essere diventato un superstite, dopo aver fatto più di 2000 concerti e forse anche dopo aver scopato più di ogni altro essere umano – e non è che mi interessi fare la gara, è così e basta –, vedere il mio nome buttato via in quel modo, nel calderone del gossip costruito in banalissimi salotti per beceri, mi ha spinto a reagire.
Stai dicendo che la storia con la tua ex moglie Clizia Incorvaia ti ha portato tuo malgrado in un mondo di pettegolezzi e che questo ti ha spinto ad autodenunciarti per mettere a tacere tutti?
Esatto. Perché il pettegolezzo non può certo scalfire me che sono stato abbandonato da mia madre e ho perso mio padre rischiando pure di perdere me stesso. Anzi, guarda, lo capisco pure, il pettegolezzo, so bene quanto siamo stupidi noi esseri umani. Ma i miei figli? Io voglio che conoscano la verità. Basta con i tabù, basta con l’omertà di queste famiglie, in cui molti di noi sono cresciuti, che mettono la polvere sotto al tappeto: vi dico io chi sono nel bene e nel male e vi lascio il libero arbitrio di scegliere in che direzione andare a partire dalla verità nuda e cruda.
Prima di iniziare a leggere ho temuto avessi scritto un’agiografia, un elogio della tua carriera e del percorso fatto con Le Vibrazioni.
Che noia! Piuttosto mi sarei tagliato una mano.
Mi sono ricreduta sin dalla seconda pagina, dove parli di cocaina. E a fine lettura ho pensato che forse hai preso troppo sul serio la triade sex, drugs & rock’n’roll, trasformandola in un ideale di vita.
Più che altro avevo nel sangue quell’ideale di rock che ti porta ad amare la perdizione, ad aprire porte sconosciute e a prendere strade tortuose e pericolose confidando nel fatto che la musica, anche per la dose di lucidità che richiede, ti salverà sempre e comunque. In parte è andata effettivamente così: la musica da una parte mi ha buttato nella mischia, dall’altra mi ha protetto e salvato. Ma sarei anche potuto morire.
Una famiglia composta in parte da delinquenti – parole tue –, tuo padre Tito a cui “interessava solo scopare e suonare”, tua madre che dopo il trauma della perdita di un figlio scappa di casa. “I gesti dei nostri antenati ce li portiamo dentro, tutti”, scrivi. “Ogni azione, ogni pensiero attraversa il tempo e lo spazio, e poi va a colpire figli, nipoti, pronipoti. Niente si esaurisce con la morte”.
È così, perché se tu sin da bambino sei abituato a stare in mezzo ai casini, è come se, per assurdo, i problemi ti dessero sicurezza. E quindi te li crei persino quando non ci sono. Solo che poi c’è il senso di colpa, perché non è stato solo mio padre a non aver aiutato mia madre quando è rimasta devastata dall’interruzione della gravidanza al settimo mese, nemmeno io ho fatto un cazzo.
Eri un ragazzino.
Beh, sì, avevo 12 anni, ma poi sono arrivato a 14 e pure io ho incominciato a pensare solo a suonare e a trombare. Finché, dopo una serie di traumi e dispiaceri, la testa di mia madre è esplosa. Perché aveva ingoiato, trattenuto, ingoiato, senza avere nessuno con cui parlare, fosse anche solo un professionista. È che i problemi psicologici sono uno stillicidio: non sono evidenti da subito, magari ti accorgi che qualcosa non va, ma aspetti e intanto quelli ti crescono dentro di giorno in giorno logorandoti pian piano. È per questo che sono difficili da prevenire.
Diciamo pure che all’epoca – parliamo degli anni ’80 e ’90 – nelle famiglie proletarie come la tua non passava nemmeno per l’anticamera del cervello di andare dallo psicologo.
Vero, non era proprio contemplata quella possibilità, un po’ per una questione di soldi, un po’ per motivi culturali: andare dallo psicologo era considerata una stronzata. Fatto sta che come è esplosa mia mamma, sono esploso io, in altro modo. Fino a che, a furia di vizi, sono arrivato a non essere più me stesso, era come se non vedessi più niente. E lì, circa un paio di anni fa, ho deciso di smettere, per darmi la possibilità di ricominciare a vedere, appunto, per permettermi di recuperare una freschezza e una lucidità mentale che in questo modo non provavo dai tempi dell’adolescenza.
Racconti di aver provato di tutto: marijuana, oppio, cocaina, Lsd, chetamina, mescalina, funghi allucinogeni, MDMA, eroina. Quest’ultima una volta sola e non in vena, almeno così scrivi.
L’eroina l’ho pippata e come racconto nel libro la ragazza con cui l’ho fatto è andata in overdose. Non mi ha mai attratto come droga, l’ho sempre vista come diabolica, demoniaca, e posso garantire che è così: basta che la provi una volta ed è come se da lì in poi ti inseguisse un’anima nera. In quel periodo mi ero innamorato di questa ragazza che aveva anche tentato il suicidio più volte, ho scoperto poi. Era molto bella, ma si bombava di psicofarmaci, un disastro, solo che mi era venuta una specie di sindrome dell’infermierino. Il casino è successo quando è venuto fuori che pippava eroina di nascosto e prima di lasciarla ho voluto provare che cazzo fosse quella roba, maledicendomi in quello stesso istante.
Hai rischiato la morte, dici: è un messaggio anche per i giovani, questo?
Più che altro, se qualche giovane dovesse leggere il mio libro, vorrei capisse che dietro alla fama, al successo, agli abusi di sostanze, ai soldi, alle donne, c’è tanta fragilità. Ci sono dei traumi legati a una condizione famigliare che senza che io mi ne sia accorto sono diventati dei mostri, per cui, per esempio, l’abbandono di una madre si è trasformato in un rapporto complicato e conflittuale con le donne. Che ho poi sublimato con il romanticismo di certe canzoni, ma che ho risolto soltanto quando è nata mia figlia Nina. Prima di allora ho amato tantissimo, ma in modo molto possessivo ed egoistico.
Anche narcisista, o no?
Ah, beh, certo.
Non che tu lo nasconda, basti pensare al punto in cui racconti di quando a ogni concerto sceglievi la ragazza da portarti a letto quella sera tra le fan sotto al palco e te la facevi portare in camerino.
Per questo dicevo che mi hanno trattato come un orco, ma alla fine la verità è di gran lunga peggiore! (Ride) Però attenzione, io non ho mai nascosto questo lato di me alle persone che ho amato e che mi hanno amato. Non mi sono mai presentato come un chierichetto, no, mi presentavo come orco e poi semmai cercavo di fare di tutto per dare comunque del bene. Solo che quando hai delle ferite profonde, se non le risolvi si trasformano in demoni e ogni volta riemergono.
Confidi di aver contattato J-Ax, quando hai deciso di disintossicarti. Ora non stai toccando più nulla?
Ho dovuto davvero dire di no a tutto per un lungo periodo, ma nel senso che non potevo nemmeno entrare in un locale, perché anche solo un bicchiere di vino mi avrebbe riportato nel vortice. Dopodiché pian piano mi sono ripreso la mia vita, mi sono ritrovato. Non è stato facile, ma ora mi sento forte. Il che non significa che sia diventato un santo, ho eliminato i vizi che mi annebbiavano la mente, ma non è che bevo solo acqua e vado in giro a pregare.
In ogni caso nel libro affermi di non rinnegare niente: “La mia vita fino a ora è stata una corsa sopra un cavallo imbizzarrito che mi ha riempito di cicatrici e fatto godere come un pazzo”.
Ma sì, sarei ipocrita se dicessi “ragazzi, ho scritto quest’autobiografia per dirvi che non dovete drogarvi”. A me non frega niente di quello che fanno gli altri, ognuno ha la sua storia, questa è la mia. Chi sono io per venirti a dire di non usare questa o quell’altra sostanza? Ognuno deve fare le proprie esperienze e capire da solo dove può arrivare. Al massimo potrei consigliare di cercare di mantenere sempre un contatto con la realtà, perché tutta quella roba lì è illusione.
Ok, discorso droghe chiuso. E le donne? Qualcuna potrebbe tacciarti di maschilismo leggendo alcuni passaggi di Nel mezzo.
Ma perché?
Ti dico l’unico punto che ha turbato me: quando racconti di una ragazza che ti è svenuta tra le braccia durante un rapporto sessuale nel bagno di un locale. Non ti senti…
Mi sento un pezzo di merda, uno stronzo totale, ma non un maschilista. Il sesso è bello perché è qualcosa che fa godere entrambi e non ho mai obbligato nessuno a farlo.
Ne sei ossessionato?
Io sono ossessionato dalle donne, a me la femmina fa impazzire, la amo profondamente, io voglio sempre stare dentro a una donna. Ma non sono uno che picchia le donne o dice loro di starsene zitte, anzi, io voglio perdermi nell’universo femminile, io sono quello che dice “raccontami di te, denudati, denudiamoci”. Ma poi, dai, faccio musica e la musica è femmina, l’arte è femmina, la natura è femmina: di cosa stiamo parlando?! Insomma, se qualcuno mi dovesse dare del maschilista sarebbe un idiota. Semmai sono stato uno stronzo, questo sì, anche in quel frangente che ricordavi, ma a parte il fatto che sia le donne sia gli uomini possono essere stronzi… Non ero nessuno all’epoca, ero un ragazzetto appartenente a una generazione di ragazzi e ragazze che si davano facilmente.
In generale che effetto ti fa ripensare a te stesso nei momenti più borderline del tuo passato? Come ti vedi?
Mi do del coglione, però penso anche di essere stato fortunato e in un certo senso forte: se tutto questo fosse successo senza che io avessi combinato niente con la musica sarebbe stata un’enorme sconfitta, sono contento non sia andata così.
Nel libro ripercorri i tuoi primi passi da chitarrista, le prime band, le prove nelle mitiche cantine di via Lombroso a Milano, la nascita de Le Vibrazioni, il primo contratto discografico. E nel farlo ricostruisci un’epoca in cui lo scontro politico tra destra e sinistra permeava tutto, tant’è che persino il teenager Francesco Sarcina si ritrovò a dare fuoco a un’ex fabbrica dove si radunavano gruppi di neonazisti.
Fa ridere, vero? Cioè, fa ridere che uno come me facesse parte dell’autonomia operaia, non sapevo nemmeno per quali diritti combattessero gli operai. Poi l’ho capito, perché tra i mille mestieri ho anche lavorato in una fabbrica a un certo punto, ma allora più che altro c’entrava il fatto che vivevamo con il mito del ’68.
Lo definisci “riflesso pavloviano”, l’istinto a schierarsi di quei tempi.
Sì, perché allora, anche se non eri un militante, avvertivi questo bisogno di appartenenza che oggi non c’è più. Anzi, oggi passano da sinistra a destra e viceversa come niente, il credo e i valori sono ormai scomparsi. Fino a vent’anni fa era tutto diverso e secondo me era meglio. Voglio dire, se eri antifascista, antirazzista, contrario all’omofobia e per l’uguaglianza sapevi da che parte stare e anche solo questo ti faceva sentire parte di un movimento rivoluzionario, con un fine, con degli ideali, con un sogno. Ora è tutto una grandissima presa per il culo. Ma lasciamo perdere.
Va bene, però dimmi una cosa: alla fin fine credi che la tua vita di eccessi abbia più dato o più tolto alla tua musica?
La prima. Perché comunque vivere così mi ha consentito di avere una visione immaginifica, mi ha permesso di toccare delle corde che altrimenti non credo sarei riuscito a toccare. Il grande quesito che mi resta è: come mai quando cresci in una famiglia disastrata come la mia, in un contesto così complicato, fai di tutto per non rifare le stesse cazzate, eppure ti ritrovi a rifarle? È vero che possiamo spiegarcelo dicendo che se un bambino riceve un imprinting di quel tipo è ovvio che venga su così, ma com’è possibile che quel bambino conservi dentro di sé delle cose che appartenevano a suo nonno o al suo bisnonno? Perché parlo anche di loro nel libro e mi chiedo: c’entrano anche i geni? Boh, mi viene in mente il film Cloud Atlas…
Pensi di essere stato predestinato a vivere una certa vita?
Predestinato a crearmi dei problemi per poi risolverli. Altrimenti non mi spiego come io possa essere ancora qui a raccontare tutto questo. Perché ho rischiato veramente, eh…
Ne vai orgoglioso?
No, questo no, per niente. Però sono fiero di aver messo tutto nero su bianco in un libro e spero che chi leggerà sappia cogliere, sì, la goliardia, la strafottenza e la spocchia che mi contraddistinguono, ma anche la mia sensibilità, la generosità con cui ho cercato sempre e comunque di fare qualcosa di buono, e la capacità di essere umile e onesto. Forse anche troppo.