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Franco126: Fuori dal tempo

Comprate i pop-corn, sta per uscire ‘Multisala’, il disco dove Franco126 passa dai pezzi tristi, i “saddoni” come li chiama lui, a un suono più vivido e funk. Qui racconta un album che è tutto un cinema, spiega come si mettono assieme Califano e il TruceKlan, ripercorre il film della sua vita, riflette sull'ambizione di essere contemporaneo e senza tempo
Freanco 126 cover rolling stone

Ufficio di Bomba Dischi, Roma.

Ho pensato questa cosa qua… sia Nessun perché che Ladri di sogni mi hanno ricordato Random Access Memories dei Daft Punk, che pesca molto in questa stessa roba anni ’70 franco-italiana.
Sì sì, ci sta.

Come sei arrivato a questi suoni?
Sul suono è più Ceri che decide. Da parte mia c’è stata una suggestione data dai miei ascolti. Ma a volte i pezzi prendono una direzione che non ti aspetti. Per esempio Ladri di sogni, che ha un tiro un po’ disco, inizialmente voleva avere un suono più funky, poi ha preso una piega differente.

Figli delle stelle
Sì, voleva avere quel tiro, far riferimento a quel mondo. E ho sentito molto il disco di Calvin Harris, Funk Wav Bounces.

Con Stanza singola hai fatto il primo disco tuo da solo, hai dovuto dare una tua idea di suono… Ora con Multisala hai dovuto cercare di allargarlo.
Be’, secondo me è interessante, sia per l’ascoltatore, sia per me come autore, provare a fare delle cose nuove. In questo disco c’è stata una ricerca maggiore che ha portato a soluzioni diverse. Ci sono dei pezzi un po’ più bossa, come Simone e Vestito a fiori, ce n’è uno più funky [Nessun perché, nda] e uno [Ladri di sogni, nda] che è più disco, anni ’80. Di base le canzoni nascono soprattutto dai miei ascolti. Ho scoperto generi nuovi, musica nuova, e mi è venuta voglia di farla, di provare a farla a modo mio.

Comunque tu vieni dal rap, dove uno può fare un mixtape e cantare sulle cose che gli pare.
Esatto, l’approccio è più o meno lo stesso. Mi ricordo che da pischello ero in fissa con le colonne sonore degli horror italiani anni ’70 e ogni tanto su quelle basi ci scrivevo pure. Col rap puoi scrivere su ogni tipo di musica e quell’impostazione mi è rimasta. Per cui magari faccio ascolti più funky e mi viene voglia di scrivere su quella roba. In qualche modo pure quel genere credo mi appartenga, anche se la gente tendenzialmente mi associa a un mood molto più triste, perché forse è quello che mi riesce meglio…

Tipo?
I pezzi chitarra e voce, i pezzi saddoni, no? Invece…

Franco 126 sulla digital cover di Rolling Stone

Certo, tu in Stanza singola hai approfondito certi sentimenti perduti nella canzone italiana, in stile Califano… Ora hai fatto un pezzo, Maledetto tempo, che ha un tastierone… [Faccio partire la canzone] Questo tastierone è proprio Venditti quando esce dalla fase con De Gregori.
Sì, e anche Baglioni, con quella salita melodica, no? Gli accordi li ha scritti Pietro [Di Dionisio, chitarrista della band di Franco e fondatore dei Mostri, mitica band romana degli anni Duemila, nda], che è un grande conoscitore di quella tradizione. Pensa, questo pezzo ha una storia strana, doveva essere la colonna sonora del film su Totti. Infascelli [il regista, nda] mi aveva chiamato per fare la canzone sui titoli di coda, voleva un pezzo che doveva avere l’andamento che poi ha il brano del disco. Alla fine la colonna sonora non si è fatta, ma ho deciso di riscrivere la canzone e tenerla. Era un pezzo che parlava di Totti e infatti “maledetto tempo” è una frase che ha lui detto nel suo discorso di addio. Premetto che non sono per niente tifoso, ma ho un grande rispetto per la figura di Totti che comunque è un simbolo, un esempio di mentalità e di coerenza. Anche se non sei tifoso devi riconoscerne l’importanza e lo spessore. In questo discorso Totti dice: «non sono ancora pronto a dire basta, forse non lo sarò mai» e io l’ho ripreso nel mio testo. Perché lui giocando a pallone per lavoro in qualche modo non è mai cresciuto, è rimasto bambino. E quindi “maledetto tempo”, nel senso che quando non aveva più l’età per giocare, per forza di cose ha dovuto fare i conti col fatto di crescere. Ho trovato il suo discorso d’addio brutale e mi ha ispirato. Il testo originale era anche molto di più incentrato sul calcio, invece di “e chi lo sa, è solo un altro scherzo del destino”, dicevo: “mi mancherà sentire l’erba così da vicino e mille voci diventare un grido”. L’andamento della canzone era uguale, ho solo cambiato le parole rendendola più aperta e parlando in modo più chiaro del tempo e non dell’esperienza del calciatore. L’ispirazione di quel pezzo era Il campione di Califano, che parla di un pilota di automobili. Anche lì c’è una salita melodica simile e temi simili. Lui dice: “se c’è il campione ancora in me la gara è mia / Se invece il tempo ha spento la mia frenesia / Sbaglio una curva, volo in aria e così sia / Vai, perché se vinco tu sei dietro ai miei trofei / Se invece perdo di un illuso cosa te ne fai?/ In ogni caso un ruolo qui non ce l’avrai”. Lui vive per correre, tutto quanto nella sua esistenza è incentrato su quello, e non riesce a fare pace col fatto che prima o poi dovrà dire basta. Mi piaceva il dramma dello sportivo.

E pensando a Totti ti sei fatto dei pensieri su come funziona la carriera di un musicista adesso?
Penso che per un musicista a un certo punto sia uguale. Hai il tuo periodo di crescita ma poi forse ti dovrai inventare un’altra cosa perché non sei più attuale, a meno che non fai il salto e diventi uno di quegli autori eterni che possono vivere per sempre di musica.

E senti, dicevi di Pietro di Dionisio che ha suonato la tastiera. Io sto in fissa con Pietro di Dionisio da sempre.
Esatto. Ti racconto meglio la genesi. Ho scritto il pezzo con un mio amico appassionato di calcio, Giovanni De Cataldo, che mi ha suggerito di partire dal discorso di addio alla Roma di Totti, in cui dice proprio “maledetto tempo”. È commovente anche per me che non sono tifoso. Non l’ho vissuto come un trauma, ma è stato comunque un pugno nello stomaco vedere Totti così, che piangeva. Avevo delle melodie in testa per la canzone, poi ho parlato con Pietro, lui ha buttato giù gli accordi iniziali e poi Ceri ha riarrangiato tutto quanto.

Va be’, come sai io sto completamente in fissa che tu lavori con Pietro Di Dionisio perché per me… Pietro è proprio la parte intelligente dello spirito romano.
Pietro è stato importante, mi ha dato tanti consigli. Per esempio gli ho detto che volevo fare un pezzo funky e mi ha consigliato di ascoltare Il veliero di Battisti. Ha una cultura enciclopedica e sa sempre dirti cosa ascoltare.

Stai facendo una ricerca particolare perché vieni dal rap, diciamo, e stai cercando di costruire una cosa tua… Ognuno deve inventare la sua tradizione, in qualche modo, cioè deve prendere degli elementi che ci sono nella storia della musica e collocarsi a un certo punto di quel percorso, no?
Certo.

Foto: Gabriele Micalizzi

Quindi vale parlare di Totti, vale parlare di Califano, vale parlare di Venditti, dell’Italo disco, ognuno deve costruire il suo senso di dove sta, no? E quindi mi interessa che c’è questa collaborazione con Pietro Di Dionisio… perché lui aveva colto delle cose dieci anni fa che tu stai sviluppando ora.
Sì, lui già parlava del quotidiano di Roma. In questo è stato un anticipatore dei tempi, come hai detto tu in un altro articolo. Pure noi in qualche modo abbiamo fatto musica con lo stesso spirito, soprattutto per la voglia di raccontare, anche se Pietro voleva più fotografare il suo periodo storico…

Giusto, tipo in Camilla… “Questa cocaina / è proprio la rovina / di chi si vuole alzare / presto la mattina”…
Esatto. È la poetica del riferimento, che poi ha caratterizzato gli anni ’10 con l’esplosione dell’it-pop. Si parla di cose quotidiane del presente storico, per esempio dell’iPhone, delle scarpe Nike, delle Vans. Polaroid è un po’ il manifesto di questa scrittura per immagini. Oggi sto cercando una strada diversa. Stanza singola ha dei riferimenti, che sono più vintage, ma in generale voglio un po’ smarcarmi da quello stile.

Be’ ho notato che ad esempio in questo disco qua tu usi la parola “reclame”, che sembra proprio un tentativo di usare una parola fuori contesto.
Sì , esatto, un po’ fuori contesto. Però mi rendo conto che sono figlio del mio tempo e quindi è inevitabile che nel mio disco senti anche un po’ di contemporaneità. La scrittura viene sempre dal rap e quindi è diversa e più moderna di quella di un cantautore anni ’70, però ormai è molto cambiata da Polaroid. La mia paura è che se senti Polaroid tra dieci anni magari non capisci. Invece Stanza singola è più probabile che tu lo capisca perché non c’è un uso massiccio di quei riferimenti.

Si può dire che è più post-moderno cercare di fare una cosa eterna che cercare di fare una cosa coi riferimenti, perché tu stai proprio ragionando in qualche modo sul parlare al di fuori della storia.
Se tu senti i dischi di De Gregori non ti sembrano invecchiati, no?

È vero, però secondo me c’è qualcosa di diverso, nel senso che i dischi degli anni ’70-80 di De Gregori arrivavano in un periodo del Novecento in cui si era stabilito un canone, mentre tu cerchi di farli in un’epoca in cui non c’è un canone, quindi è diversa come operazione.
In che senso “si era stabilito un canone”?

Nel senso che i vent’anni del secondo dopoguerra secondo me sono proprio gli anni in cui si stabilisce: “la vita umana è questa”.
Sì, ma musicalmente erano i cantautori che dettavano legge, ancora non c’era un canone, paradossalmente mi pare ci sia più adesso. Loro potevano fare un po’ come gli pareva, per esempio erano molto più liberi dalle dinamiche di mercato. Adesso devi fare i singoli, devi confrontarti con i distributori digitali, mentre i cantautori non avevano questi vincoli. E poi era un altro mondo, avevano lo studio con i musicisti sempre a disposizione. Infatti facevano un disco all’anno. Non so se De Gregori nello specifico, però Battisti per un lungo periodo ha fatto un disco all’anno…

Foto: Gabriele Micalizzi

De Gregori lo intervistai tipo dieci anni fa e disse che loro potevano andare all’Rca.
Esatto, avevano lo studio con tutti i musicisti.

E una volta andarono e ci stava Lou Reed. Si misero a guardarlo mentre settava la chitarra e De Gregori mi ha raccontato che è stata la più grande lezione della sua vita, Lou Reed che sistemava l’amplificatore per trovare il suono… E invece tu che situazione hai? Come funziona oggi?
Io cerco di fare quello che mi piace. Di fare una musica che non dipenda dal tempo. Una roba che la senti tra vent’anni e ha ancora lo stesso spessore e non dipende dal momento in cui è stata scritta.

Quando hai scritto Multisala?
Da quando ho finito Stanza singola, dall’estate 2019.

E quando è iniziata la pandemia ti sei posto il problema di scriverne?
Non ne ho parlato anche se a tratti sembra quasi che lo faccia. Tipo in Che senso ha dico: “far finta che le cose siano come sempre quando è cambiato tutto”. Lì poi parlo di cause perse, per esempio una storia che magari dura dieci anni e non hai più voglia ma ci resti dentro per inerzia; oppure quando continui a frequentare amici con cui non ti trovi, pure quella è una causa persa. È un tema ampio e ho l’impressione che tante persone abbiano colto un riferimento alla pandemia. E qui si torna sempre al solito discorso: vuoi cantare della contemporaneità o vuoi cantare un argomento più generale? Se parli della pandemia stai parlando di un fatto contemporaneo, mi auguro che presto sarà finita. Se tu vuoi rimanere tra vent’anni non credo che tu debba parlare della mascherina…

Certo. Quindi t’angoscia proprio questa cosa che le cose sono fatte per un momento così ravvicinato nel tempo.
Non è quello che voglio io, non è quello che mi interessa nella musica. Infatti vado quasi sempre a cercarmi dischi vecchi che insieme al rap mi hanno segnato, hanno cambiato il mio modo di vedere le cose.

Foto: Gabriele Micalizzi

Il titolo come l’hai scelto?
Mi sembrava si sposasse bene con le canzoni. Stanza singola aveva come richiamo la solitudine, è un disco introspettivo che parla di me. Multisala invece ha più voci, con dei pezzi che sono proprio delle storie. Per esempio Simone, racconta di un amico, c’è un brano che parla del tempo, Ladri di sogni dell’atmosfera di una notte. Ci sono le canzoni d’amore in varie declinazioni. Miopia è un incontro tra due persone che si annusano, non si capiscono bene, Vestito a fiori parla di depressione. Storie diverse, che però a modo loro hanno vissuto un po’ tutti.

Chi è Simone?
Non è una persona specifica, ha i tratti di vari persone, è un tipo umano. Ho provato a raccontare dell’amicizia nelle sue contraddizioni. “Simone ce ne ha una per tutti / sono sicuro che ce ne ha una pure per me” però “ce n’ha una pure per sé”. Nel senso che le amicizie non sono tutte rose e fiori, sono anche difficili, si fa fatica a capirsi. Ma non per cattiveria, lui non si capisce neanche con sé stesso. Volevo parlare di un tipo di persona particolare, di uno che vive secondo le sue regole, ma in un modo abbastanza obiettivo, senza giudizio. Un po’ come Grande figlio di puttana degli Stadio, in cui vedi il personaggio anche nelle sue fragilità. E così Simone: lo vedi fragile, lo vedi anche spaccone, lo vedi in tanti modi perché è in tanti modi. Volevo spostarmi da me stesso, con Simone parlo di me attraverso un altro, non solo della mia interiorità. E pure gli altri temi sono più impersonali. Anche Lieto fine è una canzone d’amore però ci si interroga sul concetto di lieto fine.

Tornando al rap, tu con quale tipo di rap ti sei identificato crescendo?
Noyz Narcos, il TruceKlan. Era la roba che parlava meno del rap in modo autoreferenziale, era fico, era crudo.

Parlava meno del rap?
Il rap parlava del rap, per molti anni in Italia ha parlato di rap.

Sì sì, ma il rap in generale deve parlare del rap.
Sì, be’, non necessariamente. Noyz Narcos non ha mai parlato di rap. Neanche Chicoria… Gemello era uno che scriveva per immagini, è stato tra i primi a Roma.

Foto: Gabriele Micalizzi

Cosa vuol dire scrivere per immagini?
Che visualizzi quello che si dice. Io mi ricordo anche Molto Peggio Crew, che era il gruppo di Carlo [Carl Brave] e di Enphashishi, che è Giovanni, l’amico con cui ho scritto Maledetto tempo. C’erano altri che non parlavano semplicemente del rap, come i Dogo. Poi ho pure approfondito tutto il rap romano, i Colle der Fomento, i Cor Veleno, tantissimo… Però diciamo che la scintilla col rap, ma anche con la musica in generale, è stato il TruceKlan, per cui ho avuto una passione veramente smodata. Parlava un linguaggio che mi arrivava, era diverso e si sposava bene con le cose che mi piacevano. Io sono appassionato di film dell’orrore, di letteratura horror, leggevo Dylan Dog da bambino, e il Truceklan attingeva a un immaginario simile.

Una cosa che mi incuriosisce è il rapporto che c’è quando uno viene da situazioni così specifiche e poi si trova ad entrare nel mainstream. Come funziona? Com’è il pubblico generalista?
In che senso com’è il pubblico generalista?

Quando tu passi da un mondo in cui uno sa cos’è il TruceKlan e cosa sono gli In the Panchine a uno che si ascolta il pop… com’è?
Be’, devi asciugare. Devi capire cosa è comprensibile per tutti e cosa non lo è, togliere i riferimenti alle cose troppo particolari. Dell’iPhone puoi parlare, infatti su Polaroid ne parliamo. La Mini Cooper, l’Enjoy può capirle anche il pubblico generalista. Se ti dico Larry Flynt è più difficile. Oppure Joe D’Amato, come nel pezzo di Noyz che dice “porno horror come Joe D’Amato”. E poi non devi usare uno slang troppo specifico. Quando rappavo agli inizi avevo un lessico super particolare, un po’ come il TruceKlan. Ma ora so che mi rivolgo a persone che non stanno dentro a tutte le dinamiche che conosco io. Questo è il passaggio, ma non è venuto a tavolino, pure Polaroid era un esperimento.

Quello è esploso proprio.
È un esperimento che è uscito bene e allora lo abbiamo continuato a portare avanti.

Era già Bomba Dischi? Come nasce?
No, abbiamo cominciato a far uscire i pezzi su YouTube uno dopo l’altro…

E poi il disco con chi è uscito?
È uscito con Bomba, però era già tutto su YouTube. Avevamo cominciato a far uscire questi pezzi, delle polaroid, un po’ per caso. Il nome viene dal fatto che la copertina di ogni brano era una foto scattata da qualche bangladino di zona nostra che la sera va in giro a fare polaroid. All’inizio c’era Solo guai, che doveva essere nel disco di Carl Brave, io avevo sentito il giro di chitarra e ho detto “Va be’ questo è pazzesco, su sto giro ci voglio stare”. Ai tempi neanche scrivevo d’amore, o comunque non scrivevo di cose malinconiche.

Foto: Gabriele Micalizzi

E il giro chi l’aveva fatto?
L’aveva fatto Massi, un amico d’infanzia di Carlo. Carlo produceva trap. Prima ancora che esplodesse, facevamo trap insieme, ti parlo del 2015-2016. A un certo punto ci siamo fermati perché non ci convinceva, non ci sembrava un genere nostro. La trap ha anche una componente fortemente autocelebrativa, e a noi stava un po’ stretta. Carlo comincia a chiamare dei musicisti, comincia a entrare in fissa col campionare gli strumenti. Io vado in studio da lui e mi fa sentire ‘sto giro di chitarra e dico “va be’ qui facciamo il featuring per il disco tuo”. Scrivo la strofa, scrivo il ritornello, “tu come stai ecc”. Non mi convinceva proprio tanto, ma a lui piacque tantissimo. Registriamo la canzone, la facciamo uscire e vediamo che ha dieci volte più successo di tutti i nostri altri pezzi. Ci sembrava incredibile e allora continuiamo sulla stessa linea, usando come copertine le foto fatte dal bangladino.

Cioè è una foto che vi facevano loro per strada?
Sì sì. Perché noi non avevamo un grafico. Questo era uno dei grandi problemi della 126… Per dire, la 777 aveva Tommasino, Tmd, che era uno bravissimo, faceva dei numeri pazzeschi, sembravano delle robe americane. Noi non avevamo un’idea grafica ma volevamo comunque fare uscire il pezzo. Per caso abbiamo incontrato uno di quelli che fanno le foto, ce la siamo fatta scattare a Ponte Sisto. E poi abbiamo fatto la foto alla polaroid col mio iPhone 5, quindi una roba veramente di basso livello.

E avete fatto tutto il disco così.
Si sposava bene con la scrittura. Le canzoni erano tutte fotografie. Però veniva anche dalla necessità di trovare un grafico, che non avevamo, che poi forse è pure più la cosa più interessante. Magari si pensa che le idee migliori siano tutte studiate ma spesso sono frutto del caso. La cosa che ci importava era la sincerità. Secondo me quando fai il rap di un certo tipo sposi un po’ una maschera. E invece dentro Polaroid c’eravamo veramente noi, c’ero veramente io e… Se canto “mio fratello torna a casa” è perché il Drone, che è amico mio, viveva a Berlino, e per tornare a casa faceva scalo a Francoforte. Era un disco molto sincero, penso si sia sentito, la gente l’ha capito.

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