Non capita tutti i giorni di intervistare un padre certo di un intero sottogenere musicale — l’hip hop italiano — così galantuomo e geek che, prima ancora che l’intervista sia iniziata, come per scusarsi preventivamente della sua potenziale (e proverbiale) generosità contenutistica, vi fornisce dritte sui software per sbobinarla. «Voice Note 2, è pazzesco, funziona benissimo, è gratis ed è un’estensione di Chrome. Voice Note 2».
Ce lo segniamo anche se, soprattutto di questi tempi, in cui la vita quotidiana è diventata una matassa insbobinabile, lo sbobinamento manuale è un’attività che può distendere e calmare. Indica, almeno per qualche minuto, una via precisa da seguire. Ancora meglio se questa via, poi, sono i pensieri e le parole di Frankie hi-nrg mc. «Sono assolutamente con voi. Considerate che a volte mi ritrovo a guardare video tutorial di falegnami giapponesi, perché l’idea di avere qualcuno che mi dica come si fa al meglio una cosa che solo lui sa fare così bene, anche se in una lingua a me incomprensibile, mi rilassa. In alcuni momenti ho anche valutato di farmi una palla di stagnola e lucidarla».
L’occasione per cui ci sentiamo è la pubblicazione di Nuvole, un pezzo che, facendo seguito a Estate 2020, completa un ritratto di Frankie durante la pandemia. Lasciaci dire che hai fatto di tutto in questi mesi di Covid. Hai omaggiato Gianni Rodari a 100 anni dalla nascita con un gruppo piuttosto illustre di compagni d’avventura. Sei stato deluso da Heather Parisi…
Forse siamo un po’ fuori tempo massimo per riprendere questo tema. Però ricordo che quando andavo alle elementari tenevo la cartolina di Disco bambina nel diario. Ero follemente innamorato di lei e lo sono stato per lungo tempo. Spesso mi sono trovato anche in sintonia con alcune sue posizioni. Poi ho scoperto che considerava Trump l’ultimo baluardo della sua civiltà. Non ci cale grazie, non ci cale…
Non smettiamo mai di crescere e crescere significa anche abbattere gli idoli della propria infanzia.
Per abbattere alcuni idoli bastano anche due dita con un colpetto bene assestato. Non trovo macerie intorno a me.
Durante la pandemia hai vissuto anche dei momenti molto più seri. Hai conosciuto il lutto nelle limitazioni logistiche che volevano dettare la linea al dolore.
Lo vogliono ancora. La situazione è in corso. Ma succede anche che a Castelfranco Veneto siano arrivati prima a far incontrare le persone attraverso un vetro, in due ambienti completamente isolati, senza poter attingere alla stessa riserva d’aria; per poi applicare delle maniche a una parete in gomma, come se fosse un enorme preservativo, per potersi toccare e abbracciare. Sono cose meravigliose e possibili. Basta avere la sensibilità di capire che l’incontro tra una persona malata e i propri affetti serve a guarire o a stare meglio. Una struttura sanitaria ha bisogno di questi momenti di alleggerimento, che migliorano la qualità della vita dei pazienti. Avere relazioni umane è un bene primario come mangiare o assumere i giusti farmaci. La questione non si può liquidare dicendo che ci sono le videochiamate. Mia suocera è morta in una RSA e non l’abbiamo potuta incontrare se non in punto di morte. Un giorno ha cominciato a rifiutare il cibo, è arrivata a essere in fin di vita e solo allora ha potuto rivedere i suoi figli. Alla prima carezza si è illuminata, e ha mangiato tutto. Questo scherzetto ce lo ha fatto per un paio di volte, e poi anche lei si è stancata.
Grazie di aver condiviso questo racconto con noi. A luglio hai pubblicato un singolo che è stato il tormentone estivo di tutti quelli che non ascoltavano i tormentoni estivi del dopo lockdown (“Quest’anno le vacanze me le faccio nella testa”). L’altro ieri, col meteo diventato novembrino, hai anticipato su YouTube, senza preavviso, il videoclip di un altro singolo: Nuvole, approfondendo ulteriormente il tuo pensiero sulla pandemia. Che rapporto evolutivo ha questo nuovo pezzo con Estate 2020?
C’è da dire che, tra i due, è nato prima Nuvole. Ma è uscito solo adesso perché, lavorando con Fresco a diversi brani, a un certo punto è venuto fuori il pezzo che sarebbe stato Estate 2020. Eravamo a un passo dalla bella stagione e ci siamo detti che non poteva non essere un pezzo istantaneo, simultaneo a quello che stava accadendo in quell’estate così diversa dalle precedenti. Così è uscito quel mio testo travestito da tormentone estivo, perfino rispettoso di alcuni stilemi del genere, come il bridge paracantato. Con un malessere che, però, traspariva chiaramente dalle righe, e che inneggiava alla voglia di non pensare, al desiderio di dire: me la vivo dentro di me, non rompetemi i coglioni. Se devo restare al chiuso, se devo autoriferirmi, non createmi del disagio ulteriore.
E Nuvole?
Nuvole è un pezzo decisamente autunnale. Al di là del fatto che parla di fenomeni meteo che, d’estate, speriamo non ci siano (mentre vi parlo a stento distinguo le facciate del palazzo di fronte al mio, per la nebbia che c’è a Cremona), ha un carattere riflessivo. L’abbiamo anticipato con un video, prima che la traccia fosse distribuita sugli store. Oggi è possibile fare questa buffa cosa chiamata pre-save. Pensa che figata sarebbe stata, una volta, poter mettere nel walkman una cassetta sulla quale fosse scritto il titolo della canzone di cui stavi aspettando l’uscita, aspettare il fatidico giorno, schiacciare play e poterla ascoltare subito.
Non vivevamo meglio nel mondo analogico?
Questo non lo so. Nei vecchi mezzi c’è una poesia che forse aggiungiamo noi, perché siamo vecchi a nostra volta. Il fatto che l’arrivo del nuovo disco dei Public Enemy mi venga notificato da Chuck D direttamente sul telefono, e che io possa ascoltarlo subito premendo un pulsante, mi sembra una conquista straordinaria. Da Star Trek. Quando, da ragazzino, immaginavo il 2000, pensavo a cose come questa, non alle macchine volanti.
Hai fatto un pezzo (anzi due pezzi, in questa bilogia del lockdown), di ritorno alle origini, al primo Frankie così essenziale per le evoluzioni successive del rap italiano. È un rap di nuovo chiaro, piano, come leggere una pagina di Hemingway dopo una lunga seduta di Joyce, posto che gli altri rapper italiani scrivano come Joyce. Le immagini che produci sono enigmatiche e comprensibilissime al tempo stesso, forse come la realtà che viviamo. Il difficile non è mai decifrare quello che scrivi, semmai è risolvere i problemi che sollevi. Questo perché la nostra attuale condizione di sgomento e incertezza, ci spinge a rivolgerci alle maggiori certezze del passato?
Nuvole è nato durante la pandemia, ma funziona indipendentemente dalla pandemia. Il concetto di “Fuori splende il buio / dentro vedo solo nuvole” è la depressione, ragazzi. È l’essere concentrati sulle nuvole che ci sono dentro di sé, mentre fuori c’è un buio che splende e che è ignoto. Ma è inderogabile. Non ci sono scorciatoie. Non ci sono cammini di luce. È l’ignoto. Prima gli occhi si abitueranno allo splendore insito in questo buio e prima riusciremo a prenderci per mano e ad attraversarlo. Stiamo andando tutti verso l’ignoto, ma è un ignoto all’interno del quale ci sono le soluzioni dei nostri problemi. Bisogna tenersi per mano, perché c’è qualcuno che vede meno e ha bisogno di essere accompagnato. Non possiamo andare per i cazzi nostri. Questo è il momento della cordata.
La musica allora, se non un antivirale, può essere almeno un vaccino?
Neanche un vaccino. Una terapia. La scrittura, in questo periodo, mi ha aiutato e mi aiuta a trovare un centro. Nel momento in cui tutto sembra sovvertirsi e le possibilità di movimento sono fortemente limitate (anche se ora è meglio di marzo o aprile), in fin dei conti il centro del mondo è sotto i tuoi piedi. Il resto resto del mondo saranno le pareti del tuo appartamento, lo spazio che riesci a coprire con lo sguardo fuori dalle finestre, la televisione o i social media. Ma il centro del mondo sei tu. Se chiudi gli occhi, il mondo si ferma. L’approccio alla scrittura che ho iniziato ad avere in questo periodo è diverso da quello che ho sempre avuto.
Cosa è cambiato?
Sono sempre stato un nerd che andava a documentarsi per ogni minimo dato espresso nelle sue canzoni; come quando, mentre scrivevo Quelli che benpensano, andai a verificare che il numero delle parabole nel Vangelo di San Marco fosse effettivamente superiore rispetto a quello raggiunto dagli altri evangelisti. Mi sentivo di dover giustificare ogni singola strofa, perché avesse un significato esatto. Col tempo la gente veniva a dirmi che, inevitabilmente, in quella determinata strofa aveva visto qualcosa di diverso da quello che ci vedevo io. In questo ultimo periodo ho maturato la convinzione che si è migliori autori se si lascia all’ascoltatore la barra del timone del senso. Faccio un esempio da Nuvole: quando scrivo “Trascinando cani di cartone / alani con gli aloni”, non mi sono chiesto come mai questi alani avessero degli aloni. Ce li hanno e basta, saranno gli altri a spiegarmela.
Tipo che gli aloni sul manto sono la versione canina dei capelli da lockdown?
Io li ho immaginati radioattivi, quegli alani. Hanno un input emozionale tale che cominciano a produrre luce da soli.
In Nuvole hai fatto un’ostentazione di paradossi come altri tuoi colleghi fanno ostentazione di macchine o donne. Fai un uso magistrale di questa figura retorica. Descrivi una serie di dialettiche che fanno cilecca: esterno/interno, pubblico/privato, politica/individuo. Quali contraddizioni della vita reale hanno ispirato questo uso poetico del paradosso?
Le contraddizioni partono dalle classi di opportunità che vengono valutate da tanti, ma soprattutto da chi ci governa. Ad esempio: da un lato muore la gente, dall’altro muore l’economia e, se muore l’economia, quando si risolverà il problema per cui muore la gente, continuerà a morire ancora gente perché non ci sarà più un’economia a sostenerla. Certo, deve essere difficilissimo fare il lavoro del Presidente del Consiglio come del Presidente di una regione o del capo di qualunque corporazione. Ma il paradosso è che più si va avanti è più sembra che ci sia una corsa a scaricare le proprie responsabilità sugli altri. Più piccoli e deboli sono e meglio è. Pensate: neanche io trovo le parole (ride) per descrivere gli scenari di incompetenza e di sciatteria davanti ai quali ci troviamo. Chi aveva la responsabilità di gestire l’emergenza sanitaria in una regione come la Calabria ha fatto spallucce. E ogni sostituto è peggio del precedente.
Anche se ci sono pur sempre gli “infami che ci spiano con gli infrarossi”, le schiere di quelli che benpensano, ora che siamo tutti sulla stessa barca sanitaria, si sono almeno un po’ infiacchite?
Il problema è che quelli che benpensano hanno figliato e il loro modello educativo viene ancora applicato. Fortunatamente ci sono dei figli che vanno avanti per analogia e altri che si ribellano ai genitori.
Il bomberino che indossi nel video, con le teste dei politici della Prima Repubblica, è un omaggio a quando stavamo meglio quando stavamo peggio, oppure è dadaismo puro?
Più che dadaismo, patafisica. È un’iconizzazione pop della vecchia destra e della vecchia sinistra. Ci sono tutti: Craxi e Fanfani, Moro e Nilde Iotti. Non c’è un giudizio di merito sulla condotta di questi politici, ma solo immagini che mi ricordano quando disegnavo, da bambino, le caricature di Pietro Longo. A casa si è sempre parlato più di politica che di partiti.
Le tue riprese fatte in casa con la GoPro dimostrano che stare in casa e girarsi un video da soli è uno sport estremo, anche se ti sei avvalso del montaggio di un maestro come Patrizio Marone. I limiti produttivi e logistici sono stati uno sprone creativo? Cosa manca dell’esperienza intima di uno studio di registrazione condiviso con dei colleghi?
Manca la contiguità nello spazio, oltre che nel tempo. Lo spazio è molto importante quando si fa qualcosa con le mani. E la musica si fa con le mani. Quando io sono a casa a Cremona e Fresco è a Città di Castello, pur nel piacere e nell’entusiasmo di riuscire a creare, non è come quando siamo l’uno accanto all’altro, ad aggiungere o togliere note, e il rischio è quello di diventare asettici. L’importante è usare i limiti come trampolini di lancio: le campane che sentite in Nuvole sono quelle della chiesa vicino a casa mia. Fresco le ha sentite in videochiamata, le ha registrate e le ha impiegate in modo naturalissimo, organico, dall’Umbria. Del resto l’hip hop è nato e cresciuto erodendo limiti: facendo ballare le persone con una musica che è fatta di pezzi di altra musica ripetuti e modulati in tempo reale.
Cosa pensi dei tentativi, come Heroes, di proporre, attraverso necessari compromessi, l’esperienza della musica dal vivo anche ora che non è possibile avvinghiarsi o pogare nei palazzetti o negli stadi?
Ha molto senso cercare di restituirci il più possibile una fruizione vicina a quella cui siamo abituati. Ci sono varie formule. Quella dell’evento speciale trasmesso in televisione è valida, ma non può essere l’unica. Il progetto, un po’ trasognato, di una Netflix della cultura, di cui il ministro Franceschini parla spesso, mi fa pensare al fatto che, in fin dei conti, una RaiPlay la paghiamo e l’abbiamo già. Quando sento dire «vedremo la prima della Scala in televisione!» mi viene da ribattere: e la seconda? E la decima? Non avranno luogo. E la prima del Massimo? E la prima di uno spettacolo di Marco Paolini? Io vorrei poter pagare ogni sera il biglietto per vedere Paolini in televisione, dal teatro. Ma per fare questo è necessario creare un’enorme infrastruttura. Non basta una telecamera fissa: devi investire soldi, energie, personale. Inoltre quest’estate ho avuto la fortuna di suonare, nel rispetto delle normative, al Castello Sforzesco: il tutto esaurito che c’era lasciava comunque dei buchi notevoli nel pubblico, ma il patto di complicità che si respirava tra palco e platea era nuovo ed elettrizzante. Bisogna ragionare anche su forme che tengano conto che, finché non usciremo dall’attuale situazione, gli artisti avranno davanti arcipelaghi di persone, con ritmi, desideri e modalità di azione diversi da quelli delle folle, ma non per questo da sottovalutare. Non possiamo pensare solo al singolo grande evento. Anche in questo caso i limiti vanno usati come delle fionde, un passo per volta. Il vantaggio è che il problema è globale e, globalmente, è possibile cercare soluzioni che funzionino anche a livello locale.
C’è qualcosa che hai letto, visto o sentito durante questi ultimi mesi di relativa o assoluta clausura che non avresti scoperto se non ci fosse stata la pandemia?
Sono sincero: la crisi di primavera mi ha reso impossibile qualunque fruizione di arti, spettacoli, letteratura. Non ho letto nessun libro. Non ho visto film, non ho iniziato nessuna serie. Mi concentravo ossessivamente sulle notizie: le cifre, i casi, le app, i confronti pubblici su Twitter. Poi ho iniziato a creare io qualcosa, proprio perché non riuscivo ad assorbire roba esterna. Il primo sblocco che ho avuto è stato quando, dopo una chiacchierata con Fresco (prima di cominciare a lavorare ai nuovi pezzi), ho riascoltato uno dei brani del mio primo album, Storie di molti e mi sono accorto che aveva delle metriche fuori dai miei canoni attuali. Mi sono sembrate contemporanee. Fresco ha realizzato una base e ne è venuto fuori il Fresco RMMXX. Il video del pezzo l’ho fatto io, usando tutte le action figure che ho in casa. Qualcuno lo ha anche visto. Per me è stato fondamentale per sentirmi salvo. Consiglio a tutti, quando siete sopraffatti da tutto, di cercare una forma di espressione, una qualunque. Non necessariamente una finalizzata a qualcosa. Anche solo un disegno. Ma fate un disegno.