Intervistare qualcuno con l’accento scozzese è sempre impresa tanto impervia quanto divertente. Se poi l’interlocutore a un certo punto accenna a Bella ciao («ne abbiamo suonato qualche battuta in un concerto in Italia, una volta, e la gente è impazzita») la faccenda diventa quasi surreale. Difficile non trovare istantaneamente simpatico Alex Kapranos: comunicativo, entusiasta, aperto. L’esatto contrario dell’immagine da azzimata e spocchiosa rockstar alternativa, tutta completi di sartoria e citazioni pop art, che in qualche modo lui e i Franz Ferdinand hanno sempre trasmesso.
Lo raggiungiamo nella sua casa parigina, dove vive con la moglie francese (e musicista) per farci una chiacchierata partendo dal nuovo album – il sesto in studio – del gruppo di Glasgow. The Human Fear è un ottimo disco che, al di là dei cambiamenti nella formazione (è il primo inciso con la nuova batterista Audrey Tait), ribadisce con classe e convinzione gli stilemi della band, così come li abbiamo conosciuti da quando ascoltammo Darts of Pleasure, il primo singolo uscito 22 anni fa.
Il titolo del primo singolo estratto dall’album è Audacious. Quanta audacia c’è ancora nei Franz Ferdinand, a più di vent’anni dai vostri esordi?
Spero ancora tanta. Anzi, sono convinto che il nostro sia tuttora un approccio audace al fare musica. Essere artisti e performer richiede un grado ineliminabile di audacia, che non viene meno con gli anni. Però intendiamoci: non intendo con questo il voler fare gli spacconi, o impressionare il pubblico cercando di essere quello che non si è. Esattamente il contrario: l’audacia sta nel rimanere fedeli alla propria identità. Custodirla, in un certo senso. Senza seguire mode che non fanno per te, senza nasconderti dietro una patina di modernità posticcia. Evolversi, certo, è importante, ma mantenendo la tua voce. Gli artisti che amo di più sono quelli che riescono a farlo con grazia e naturalezza. Tipo Nick Cave, per esempio: cosa può esserci di più distante dalle ballate grandiose, pacificate dei suoi ultimi dischi e la viziosità dei Birthday Party? Eppure è sempre lui. Oppure PJ Harvey. L’ho vista in concerto all’Olympia di Parigi, un anno fa, l’impianto teatrale del suo live show è lontanissimo da quella selvatica ragazza con la chitarra che vidi per la prima volta più di trent’anni fa, ma nella performer raffinata di oggi riconosco comunque sempre il suo spirito. Accettare la propria identità è liberatorio. Quella dei Franz Ferdinand è sempre la stessa: siamo una band rock’n’roll su cui puoi ballare. Ma in ogni disco cerchiamo comunque di andare in posti in cui non siamo mai stati, di sfidare noi stessi.
In questo rimanere in linea con ciò che si è – che si sia artisti o no – tuttavia possono spesso infiltrarsi anche insicurezze e paure. E qui veniamo al titolo dell’album, The Human Fear, frase che viene ripresa anche nel testo di Hooked. Anche qui, come per il concetto di audacia, mi pare che intendiate la paura in un senso potenzialmente positivo. Mi è venuta in mente Fear Is a Man’s Best Friend di John Cale…
Ci ho pensato anch’io. C’è una differenza: Cale definiva il terrore una specie di sistema di allarme, avvertirlo significa essere messi all’erta. Io lo intendo in modo meno meccanico, nel senso che niente può farti sentire più vivo della sensazione incombente di paura, così come specularmente niente può paralizzarti di più dell’esserne travolto. Arrendersi all’angoscia è la sconfitta definitiva. Le paure fanno parte dell’esperienza umana. Paura del futuro e dei cambiamenti, che è ciò di cui parla Hooked. Paura di essere giudicato da chi ti sta attorno, come in The Birds. O quella di essere ospedalizzato, che è il tema di The Doctor, mentre Night or Day è incentrata sulla paura di perdere chi ami.
Possiamo definirlo un concept, quindi, o la parola ti fa, ehm, paura?
No, no, meglio non usare quel termine (ride). In tutta la mia carriera non ci ho mai neanche provato a ragionare in termini di concept, è una modalità creativa che ti rinchiude in una gabbia. Quello che mi succede quasi sempre, invece, è che alla fine del processo creativo, quando le canzoni sono tutte lì nero su bianco, mi accorga di un tema ricorrente. Infatti il testo di Hooked è stato l’ultimo che ho scritto, quando mi sono reso conto di quanto il tema della paura ricorresse negli altri brani. Ma quella canzone parla anche di mio figlio e le due cose sono evidentemente collegate. Sono diventato padre a più di 50 anni e ovviamente è stata un’esperienza che ha messo sottosopra il mio mondo. Chiaro che hai un sacco di paure: sarò in grado di affrontare un cambiamento simile a questa età? È stato meraviglioso accorgersi di quanto tutte quelle insicurezze vengano spazzate via da questa ondata di amore che ti travolge e per cui non sei assolutamente preparato. E allora le paure vengono ridimensionate, ti accorgi di quanto spesso siano irrazionali. Pensa che prima che nascesse mio figlio ero terrorizzato dall’idea della mancanza di sonno, adesso penso: «Cristo, Alex, tutta la tua vita è incentrata sull’assenza di sonno, nel 2004 dormivi due ore a notte, cosa vuoi che sia?» (ride).
Musicalmente il disco mi pare molto in linea con quell’identità Franz Ferdinand di cui parlavi prima. Con qualche interessante divagazione, come il sapore mediterraneo/balcanico di un pezzo come Black Eyelashes.
Quella canzone ha un flavour greco, perché, ehi, io ho un flavour greco! Al contrario di mio padre, che in Grecia è nato, la mia è una grecità derivata. La canzone è una metafora sulla mia ricerca di una identità sfuggente che non riuscirò mai a possedere completamente. Perché quando vado in Grecia, per quanto mi sforzi di parlare la lingua e di comportarmi come un greco, vengo sempre fuori come uno scozzese (ride). Musicalmente, quel tipo di progressioni modali ogni tanto affioravano nelle nostre canzoni anche in passato, per esempio nel disco precedente in un brano come Lazy Boy. Ma qui ho voluto dispiegarla in modo più esplicito.
A proposito di origini e radici, come vivi il tuo rapporto con Glasgow oggi? Quanto ha contato per i Franz Ferdinand venire da una città come quella?
Glasgow è ancora casa, e lo rimarrà per sempre. Ho vissuto a New York, a Londra, ora divido il mio tempo tra Parigi e Glasgow. Amo quella città in tutti i suoi aspetti, dal tempo di merda alla sua architettura. Mi ritengo fortunato a essere cresciuto in un posto con una storia musicale così forte, ma allo stesso tempo varia. Quello che mi è sempre piaciuto della scena di Glasgow è che non c’è mai stata… una scena. Al contrario di altre città come Liverpool col Mersey sound o Manchester con Madchester, Glasgow non è definita da un genere in particolare. Gli Orange Juice erano diversissimi dai Teenage Fanclub, gli Arab Strap dai Primal Scream, i Simple Minds dai Belle & Sebastian. E i Franz Ferdinand da tutti quanti. A parte le battute, ciò che fa da filo conduttore in tutta la grande musica che è uscita da Glasgow è l’attitudine. Quel misto di concretezza e atteggiamento no bullshit mescolato con aspirazioni intellettuali e poetiche, una cosa che penso derivi dal fatto che Glasgow è una città industriale con una fortissima componente working class, ma è anche sede di una delle più importanti università britanniche. In ogni caso, siamo e saremo sempre l’esatto opposto di Londra.
Siete una band nata a Glasgow, ma anche una band nata nei primi anni del millennio. Guardandoti indietro, ti ritieni fortunato per aver iniziato in quel periodo?
Potrei dirti di sì per il semplice fatto che nel 2004 ancora si vendevano i CD e in qualche modo, anche senza fare il boom come accadde a noi con il nostro primo disco, si riusciva a pagare l’affitto facendo il musicista indie. Ma ancora adesso, quando vado a sentire dal vivo delle nuove band, ritrovo la stessa energia e le stesse aspirazioni che avevamo noi 20 o 25 anni fa. Il potere viscerale della musica, quello che ti muove quando hai 18 anni così come quando ne hai 52 come me, è qualcosa che va al di là delle frasi fatte sull’invecchiare. Ricordo di aver visto in concerto Leonard Cohen poco prima che morisse. Era anziano, fragile, ma era lui al 100%. Quindi sì, è stata una fortuna aver cominciato in anni che per i musicisti erano più facili di quelli attuali, ma credo che se iniziassimo oggi avremmo lo stesso drive di allora.
Le difficoltà odierne a cui hai accennato sono comunque una questione ineludibile quando si parla di fare musica oggi. Anzi, spesso ho l’impressione che di questi tempi passiamo più tempo a discutere dell’ecosistema musica più che della musica in sé. Tu cosa ne pensi?
Hai ragione. Si parla sempre e solo di streaming, AI, scomparsa dei supporti, difficoltà economiche nell’andare in tour e così via. La mia reazione, alla fine, è che non voglio pensarci. Rispetto a quando abbiamo cominciato è cambiato tutto, e quasi tutto in negativo. Ma è quel che dicevo prima sul concetto di paura: non voglio rimanerne paralizzato. Quello che non cambierà mai è la mia voglia di creare musica, di suonarla su un palco. Quello è ciò che mi fa sentire vivo. Quindi fanculo a tutto il resto. Poi è ovvio che in qualche modo gli artisti oggi debbano trovare il modo per reagire allo stato delle cose, lo dico proprio in termini sindacali. Dobbiamo unirci e trovare soluzioni per far fronte allo sfruttamento di stronzi come Daniel Ek (il CEO di Spotify, nda) e personaggi della sua risma. Gente che fa sembrare dei santi i discografici senza scrupoli degli anni ’50 e ’60. Quanto all’AI… oddio, non farmi parlare. Ho sentito un po’ di cose generate dall’intelligenza artificiale, per ora è solo spazzatura spaventosa. Sono circondato da persone appassionate di tecnologia che mi magnificano continuamente questi incredibili orizzonti di innovazione, poi sento roba AI generated e mi dico: no, dai, ma state scherzando?
Chiudiamo su una nota leggera. Sulla pagina Wikipedia dei Franz Ferdinand ho letto una frase divertente: “Hanno fatto tornare di moda la frangia nella coiffeur maschile”.
Ah ah, all’epoca potevamo permettercelo. Adesso siamo troppo stempiati per lanciare mode di hairstyle. Non male, comunque, come modo per passare alla storia. Anche se preferirei che tra cinquant’anni venissimo ricordati per essere stati una rock’n’roll band diversa da tutte le altre.