Molto prima che Nairobi della Casa di carta lanciasse il suo slogan femminista “Comincia il matriarcato!”, Gala aveva già fondato un’etichetta discografica che si chiama proprio Matriarchy. Lo ha fatto nel 2005, alla fine di un ciclo che, in questa intervista al telefono da New York dove vive, descrive come «gli anni peggiori della mia vita». Se non sapete chi è Gala, andate su Google e ascoltate le prime note del pezzo che l’ha resa famosa e che è inevitabile citare: Freed from Desire. Hit internazionale dal 1997, ballata in discoteca e negli stadi. Ancora oggi. L’attuale campione mondiale dei pesi massimi, il pugile Tyson Fury, si fa annunciare sul ring da Freed from Desire, per dire.
Intanto, però, online, c’è un pezzo nuovo di Gala, che è di altra fattura, non esattamente pop, «un progetto collaterale», lo definisce Gala. È molto delicato e colpisce al cuore. Si chiama Parallel Lines, è una canzone su questi nostri tempi strani, storia di chi vive sotto lo stesso tetto costretto a fare le stesse cose ma senza più condividere gli stessi sogni e anche un po’ metafora delle nostre vite parallele, quella che manda avanti le cose di ogni giorno e quella che vorrebbe essere altrove. Di Parallel Lines c’è un video, frutto della collaborazione di Gala con Nina Paley, artista di opere d’animazione come Sita Sings the Blues e Seder-Masochism.
Gala, prima dell’intervista mi hai detto che non vuoi che scriva quanti anni hai. Perché?
Perché le donne che fanno musica pop devono essere per forza giovani, altrimenti non contano niente. Oppure, se continuano ad avere una carriera, vengono criticate per come appaiono. I miei amici che adorano Madonna, che si sarebbero svenati per Madonna, adesso passano il tempo a commentare se si è rifatta il labbro, gli zigomi o il gomito. Ascoltate la sua musica, no?
Però, per dire, Patti Smith ha tutte le sue rughe come Mick Jagger e nessuno dice niente.
È il mondo del rock, non del pop. Molto diverso.
Ok, niente età. Però diciamo: Gala Rizzatto, nata a Milano, studi al liceo classico Parini. Come sei diventata una cantante dance?
Sono figlia unica di genitori intellettuali, artisti molto presi dalle loro cose. Da piccola mi sentivo molto sola. La musica mi teneva compagnia. Il primo ricordo sono i vinili che giravano sullo stereo. Ballavo tutto il giorno. Sognavo di cantare con un microfono in mano. Volevo fare quello, a quattro anni lo sapevo già. Non ci sono state scintille: al contrario, era consapevolezza.
E poi?
Verso i 13 anni mi è stato vietato ballare e fare sport. Ai tempi partecipavo a delle piccole competizioni di atletica ma, a causa di un problema alla schiena, i miei mi portarono da un professorone, un grande medico che pensava di saperla lunghissima e che mi disse che mi sarei dovuta muovere il meno possibile: “Dedicati agli studi di greco e latino, più stai seduta meglio è, niente danza, niente sport». Quel giorno ho pensato: sono morta. E per un po’ lo sono stata veramente. Odiavo la scuola, odiavo tutto, sono ingrassata, diventata bulimica, insomma l’infelicità totale. A un certo punto, ho mollato il Parini e sono andata a studiare negli Stati Uniti, prima a Boston e poi a New York, che è diventata la mia città. Ho studiato arte e fotografia e ho iniziato a fare la fotografa nel mondo dei locali, della musica, degli skater. In discoteca ho scoperto che potevo ballare, eccome se potevo ballare. Anzi, se iniziavo io, la pista si riempiva. La prima volta come cantante? Avevo fotografato un musicista e, invece di farmi pagare per le immagini della sua copertina, gli chiesi di poter cantare nel disco.
Poi è arrivato il primo album, Come Into My Life, con pezzi scritti da te. Un successo pazzesco: dischi di platino, classifiche, premi. Come si vive un simile boom, così, al primo colpo?
Per me non era il primo colpo perché, fin da bambina, io tutti giorni mi svegliavo e mi dicevo: devo raggiungere le persone con la musica. Sapevo che ci sarei arrivata. Era dentro di me.
Per quanto potessi essere preparata all’idea, è sempre una cosa che può sconvolgere.
Io me lo aspettavo, ed è lì forse che ho sbagliato. Mi sentivo addosso questa sensazione di sicurezza e potenza che probabilmente era un po’ infantile. Poi, però, la vita mi ha presentato un’enorme quantità di ostacoli che non avevo previsto. Nel mondo della musica, se non hai dietro una team che ti segue e che spesso in America è la famiglia – pensa a Beyoncé o a Taylor Swift – sei una barchetta in mezzo a un oceano pieno di squali. Io ero quella barchetta lì. Giovane, sola, molto indipendente dai miei che stavano in Italia e con i quali non condividevo informazioni. Facevo tutto da sola. Avevo totale fiducia nelle persone che mi circondavano, nei contratti che firmavo, ero… reckless. Come si dice in italiano?
Avventata. Spericolata. Quali sono state le conseguenze?
Ho firmato un accordo pessimo, che non mi tutelava per niente. Ne sono uscita, ma poi mi sono trovata a terra senza manager, senza etichetta, senza assistenza. Ho firmato poi con un’altra casa discografica, che mi ha dato un anticipo per poi congelarmi per cinque anni in cui non ho fatto un disco né uno spettacolo, niente. Quando finalmente sono riuscita a liberarmi anche da questa situazione, mi sono rimessa in piedi da sola anche grazie a MySpace, che era appena partito. Poi ho fondato la Matriarchy Records. Con un pezzo, Faraway, ho fatto di nuovo il botto. Numero uno in Grecia, cover popolarissima cantata dalla vincitrice di un talent greco. Ho ripreso le serate e tutto il resto, facendo sempre tutto da sola, compresi i booking degli eventi.
Nel sistema novecentesco delle case discografiche, campare di musica era molto difficile. Oggi si può produrre e distribuire da soli. Le cose sono cambiate.
Non proprio. Non siamo in un mondo libero. Un tempo le case discografiche comandavano sulle radio, adesso comandano anche sulle playlist di Spotify. L’ascoltatore medio ascolta quello che gli viene proposto, e gli vengono proposte sempre le stesse cose.
Hai mai pensato di cambiare lavoro, magari tornare a fare la fotografa?
Ci penso tutti i giorni, ma non lo faccio. Insisto perché non voglio darla vinta a un sistema che vuole che io smetta. Possono dirmi che non sono più di moda, che non sono più giovane, ma non possono dirmi di non creare più la mia musica.
Perché ti fa arrabbiare quando un articolo come questo rischia di avere un titolo che dice “il grande ritorno di Gala”?
Perché io non sono mai andata via.