Si definisce un chitarrista fallito e un cantante per caso. Lui è Paul Mazzolini, ma tutti lo conoscono come Gazebo, annoverato tra le star dell’Italo disco anni ’80 grazie alle hit Masterpiece e I Like Chopin, che l’anno scorso ha pubblicato in una Coronaversion come ringraziamento a medici e sanitari in prima linea per l’emergenza sanitaria da Covid-19. Ha partecipato anche a un progetto, legato all’esploratore Giovanni Battista Belzoni, partito dal libro di Marco Zatterin Il gigante del Nilo e proseguito con l’album Banda Belzoni e l’EP En Voyage. «Zatterin, che era il mio batterista in un gruppo progressive alla fine degli anni ’70, mi ha chiamato per fare una rock opera sul libro che aveva scritto. Non avevo mai cantato in italiano».
Che tempi erano quelli, gli anni ’70?
Si andava verso il punk-rock, si stavano mescolando le carte. Da lì ho fatto un miscuglio di new wave, new romantic inglese e atmosfere più italiane, melodiche e ballabili da cui nacque Masterpiece, il primo singolo che mi fece andare per la mia strada.
Masterpiece nasce come produzione indipendente e poi diventa un caso planetario.
Il pezzo è nato dopo un periodo passato a Londra, puntavo alla new wave: volevo assolutamente fare una cosa del genere, sfruttando batterie elettroniche di un certo livello e sintetizzatori polifonici. Si era aperto un mondo pionieristico dal punto di vista delle sonorità: la musica di oggi ha suoni che nascono negli anni ’80. Scrissi con Pierluigi Giombini questo pezzo, ma mi accorsi che in Italia non era capito da nessuno.
Cioè?
Troppo avanti per l’epoca. Mi dicevano di farlo in italiano, di cambiarlo.
E tu?
Contattai Paolo Micioni, un dj molto famoso a Roma, con il quale avevo partecipato a produzioni disco music. Gli proposi di produrre questa canzone da indipendente, visto che le major non erano assolutamente interessate. Nacque Masterpiece, un esperimento semplificato, reso più ballabile. E pubblicato da una white label di un grossista romano che aveva un negozio per dj. Considerato che, a quei tempi, c’era un pregiudizio sulla disco nostrana, essendo io di madrelingua inglese, nessuno avrebbe capito che ero italiano. Bluffammo dicendo che era un pezzo di importazione.
E che successe?
La radio ci cascarono e brano esplose senza promozione. Dopodiché è subentrata la Baby Records. Freddy Naggiar aveva ascoltato Masterpiece mentre andava in Svizzera. Lui cercava noi e noi sognavamo di andare con un’etichetta come la Baby Records.
Perché?
Era dinamica, l’unica alternativa alle major per potere promozionale. Alla fine incontrammo Naggiar e nacque Masterpiece nella sua versione televisiva, determinante per farlo andare un po’ ovunque.
Cosa ha rappresentato Naggiar per te?
Era il numero uno in Italia, lavorare con lui era interessante e ascoltava molto le mie idee dal punto di vista estetico e promozionale. Mi ha dato carta bianca. Anche per il video di I Like Chopin mi fece andare a Londra, spendendo tanti soldi. Cosa che un tempo non si faceva: il discorso dei videoclip doveva ancora esplodere. Quello di I Like Chopin fu fatto in 16mm, in pellicola, e ci permise di promuoverlo in giro per il mondo quando stavano uscendo i canali monotematici come Mtv e Videomusic.
Quando hai scritto I Like Chopin eri consapevole che funzionava parecchio?
La nostra intenzione era di fare una ballad. All’epoca, dopo qualche disco tirato, si optava per un lento. Noi avevamo fatto una versione con gli archi, ma l’intuizione di Naggiar ci impose di mettere l’elettronica in maniera molto pesante.
E tu cosa ne pensavi?
Ero insicuro. Non vedevo in I Like Chopin il follow up di Masterpiece, ci vedevo più Dolce Vita, perché ne riprendeva il tema cinematografico. Ma Naggiar era impazzito per I Like Chopin e, devo dire, che molto del successo del brano lo devo a lui. Infatti, ascoltandolo in studio, ci rendemmo conto che era fluido, aveva un suo flow. È stato emozionante, comprendemmo che poteva essere un successo. Non ci aspettavamo, però, facesse quello che ha fatto.
Ti sei sentito ingabbiato da questa hit?
Chiaramente è stata una trappola, per due anni ho girato le tv del mondo con questo pezzo. Tant’è vero che Telephone Mama, l’album che seguì Gazebo, dove c’erano Masterpiece e I Like Chopin, fu completamente diverso, per scelta. E fu un errore dal punto di vista commerciale, lo devo ammettere.
Come mai facesti quella scelta?
Con un successo così grande, lo step successivo sarebbe stato affidarsi a un produttore inglese o americano che avesse esperienza su come confezionare hit mondiali. Noi siamo partiti da Roma e ci siamo ritrovati a competere con grossissime produzioni planetarie. Questo significava affidarsi a persone che sapevano gestire quel tipo di lavoro. Forse l’errore di Naggiar è stato proprio quello.
Quale?
Pensare che bastasse la qualità delle canzoni, ma non è facile tirare fuori una I Like Chopin ogni anno.
Con Freddy Naggiar com’è finita?
Con Telephone Mama sono iniziati i primi problemi: A lui non piaceva assolutamente quel disco. Era anche molto meno presente, aveva fretta per motivi di piazzamento commerciale e io volevo aspettare. Si è accontentato di un album che non lo convinceva, non avevo l’esperienza di capire che, dopo un boom come I Like Chopin, ci voleva un po’ di riflessione. Tra l’altro a metà della promozione di Telephone Mama mi chiamarono a fare il militare.
Cosa comportò?
Non potevo fare promozione per un anno e, contemporaneamente, si rovinò il rapporto con Naggiar perché mi proponeva alternative che non mi interessavano.
Tipo?
Voleva lavorassi con il team di Den Harrow o con Dario Farina che collaborava per Pupo e i Ricchi e Poveri. Per carità, erano ottimi musicisti, ma non era il mio mondo musicale, ero abituato a cantare brani che fossero miei. Per lui non è stato facile accettare questa cosa. Dopo Telephone Mama proposi un altro progetto, Univision, che a Freddy non piacque per niente. Decidemmo di separarci. Pagai anche una penale per liberarmi dal contratto.
E Univision come lo definisci?
Ero molto confuso, quindi credo fosse un progetto con bei brani, ma senza capo né coda. C’era addirittura un pezzo jazz. Fu un disco di rottura, per chiudere i rapporti di Naggiar.
Prima parlavi di Dolce Vita. Perché hai ceduto una hit come quella a Ryan Paris?
Con Giombini c’era la convinzione che, se inserita nel primo album, potesse essere un po’ sacrificata. A Dolce Vita tenevo tantissimo, ma si preferì darla a un altro cantante e arrivò addirittura seconda in Inghilterra. Fu un errore di valutazione che a Naggiar non andò giù.
Ah sì?
Be’, se lo avesse caldeggiato di più lo avremmo tenuto nell’album Gazebo e lo avrei cantato io. Invece lo bocciò come singolo.
Come te li ricordi gli anni ’80?
Ho vissuto un momento in cui non stavo mai a casa. Per due anni sono stato in giro per il mondo e non avevo neanche il tempo di spendere i soldi che guadagnavo. Un periodo divertente per me, un ragazzo di 23 anni che si ritrovava primo in Germania, in Giappone. Ero pieno di soddisfazioni. Tutto sommato, alla fine, mi appariva normale e sembrava quasi strano, a un certo punto, non essere al primo posto nelle chart. Ho vissuto tutto con molta onestà intellettuale perché credevo, pur facendo musica commerciale, di dare qualcosa in più. Un aspetto che veniva dal mio passato progressive. I Like Chopin ha tanti risvolti armonici e una produzione ben curata e non convenzionale, con riferimenti a Boudelarie, a Renoir. Come in Mastepiece ci sono nessi con Viale del tramonto e Gloria Swanson.
Nessuna rivalità con i colleghi?
No, sono rimasto in contatto con artisti tedeschi e inglesi come Holly Johnson. Magari c’era qualcuno che da metà anni ’80 ha avuto comportamenti strani, ma il problema era loro. Non faccio nomi.
Ti sei sentito messo da parte negli anni ’90?
Anche prima. Già ai tempi di Trotsky Burger, primo singolo del terzo album, che credo sia il primo brano techno della storia, a 135 bpm, velocissimo. C’era l’idea geniale di questa hamburgeria russa stile McDonald’s. Ma non fu capita dalle radio italiane che stavano diventando network e non erano più libere come prima nella scelta delle playlist. Per me è stato molto difficile lavorare. Gli anni ’90 sono stati catastrofici: chi, come me, ha fatto musica anni ’80 è stato messo da parte con un certo snobismo.
Perché secondo te?
Il rock è andato verso il grunge e sono venute fuori le crisi politiche, le guerre… sembrava di essere tornati al clima anni ’70. E poi è arrivata la musica house fatta a casa dai dj. Era tutto molto codificato dalle radio e dai dj di tendenza.
Cosa hai fatto allora?
Per fortuna avevo uno studio di registrazione che mi ha permesso di vivere e supportare mia moglie e la mia famiglia. Sono ripartito da zero, facendo la gavetta che non avevo fatto prima.
Che musica ascolti tra le nuove leve?
Sono molto pigro, non ascolto cose che non mi piacciono. Tendo a ricercare musica del passato, come il rock anni ’70. Mi è difficile trovare interesse nella musica dei ragazzi di oggi, ma è un problema mio: i temi della nuova generazione non mi appartengono. Non ne sono attratto e non mi sembra ci sia qualcosa di veramente innovativo. Nella musica progressive trovo, ad esempio, ancora molte cose inesplorate.
Dei talent show che ne pensi?
È l’unico meccanismo per sfondare. O si suona nei pub o si fa un talent show. Sono convinto però, che dai talent non sarebbero usciti artisti come Franco Battiato, Amy Winehouse o Lucio Dalla: si viene giudicati per come si appare e dall’appeal televisivo, per quante mascelle cascano quando si è on stage. Non è quello il modo per trovare talenti nuovi. Così il talento si uniforma, mettendolo in dei paletti.
Ti hanno mai chiesto di partecipare a show, talent o reality come Ora o mai più?
Mi hanno chiamato in svariati reality, ma ho sempre detto di no. Credo che gli artisti debbano essere visti sognando, non mentre bestemmiano perché hanno fame o freddo come vediamo nelle isole dei più o meno famosi. L’artista deve fare arte. Sicuramente ho guadagnato meno soldi, like e follower, ma voglio avere rispetto di me stesso. La mia è una visione di un altro secolo, ma la penso così.
Probabilmente alcuni colleghi cantanti pensavano di essere rilanciati dopo il passaggio tv, ma poi mi sembra che nessun album abbia scalato le classifiche.
Il piccolo schermo ha fagocitato tutto, compreso Sanremo, che è diventato un meccanismo tv. Ibrahimovic o Gorbaciov al festival non hanno a che fare con la musica, per questo non lo vedo. Mi irrita da morire, non mi interessa che Ibra mi insegni come vedere le cose. Lo facessero nei talk show. Al festival della canzone italiana vorrei sentire musica, anche slegata dalle logiche delle major, della Rai e dei politici che devono piazzare i loro amici. La kermesse aveva senso quando c’era Ravera.
Come mai?
Era un padre padrone, ma lavorava a quello tutto l’anno e cercava la canzone bella, curava i pezzi. Sono anni che non sento un brano uscito da Sanremo che rimane del tempo.
Quest’anno, discograficamente parlando, Sanremo ha funzionato molto.
Hanno scelto gli artisti in base ai loro follower. E mi sembra un’assurdità. Ho visto la lista dei big e l’unica big mi sembrava Orietta Berti. Hanno voluto svecchiare con nomi che piacciono ai giovani che usano Spotify.
Hai mai provato ad andare a Sanremo?
Confesso di sì. E l’ho fatto quando a dirigerlo c’erano musicisti e non televisivi. La prima volta con Morandi e la seconda volta con Baglioni. Proposi due canzoni da indipendente. Possibilità, già così, una su mille. Giusto Morandi mi ha risposto che la canzone Wet Wings non l’avrebbe presa. Ho pensato che morirò senza aver fatto Sanremo.
Stai preparando qualcosa?
Un disco nuovo, più rock, molto diverso da Italo by Numbers, in cui c’era La Divina, il brano scartato da Baglioni per il festival.