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Gaznevada, il domani è già vecchio

Il docufilm di Lisa Bosi ‘Going Underground’ racconta la storia gloriosa e sballata della band bolognese. Ne parliamo con Ciro Pagano: il Movimento, il punk, Andrea Pazienza, l’eroina, la spinta al cambiamento, la reunion. «Mi sono immaginato noi vecchi con gli strumenti e ho pensato: vi prego, no»

Foto: Coppitz

Going Underground, il docufilm di Lisa Bosi che racconta la parabola dei Gaznevada rappresenta un cambio di paradigma per la band bolognese. Dopo anni passati alla ricerca compulsiva, forse anche ossessiva, dell’ennesima avanguardia da conquistare, il film – presentato in anteprima alla 64esima edizione del Festival dei Popoli di Firenze – rappresenta il momento in cui il gruppo sceglie di guardare, per una volta, indietro. Uno specchietto retrovisore di un’ora e 20 dove le immagini della Bologna di fine anni ’70 si alternano con quelle odierne dei sopravvissuti all’esperienza Gaznevada, che raccontano la propria storia senza remore o vergogna.

Al netto dell’aspetto volutamente onirico che contraddistingue la parte visiva del film, il pregio maggiore del documentario è quello di non provare a giudicare e apporre etichette a fatti o persone, tranne quelle che i Nevada appiccicano a se stessi o al loro ambiente. Che è un ambiente difficile, ostile, fatto di terrorismo, lotta armata, occupazioni ed eroina, tanta eroina. Ma anche un ambiente assolutamente vivo e creativo, che preannuncia il botto degli anni ’80 con l’edonismo a tutti i costi che ha contraddistinto quel decennio. I Gaznevada si sono formati in questo momento storico riuscendo a cogliere entrambi gli aspetti, quello del nichilismo e dell’autodistruzione, ma anche quello dei lustrini e del successo. Non senza conseguenze, non senza pagarne il prezzo. Ma l’ancora di salvezza della band è sempre stata questa, chiudersi a riccio in una bolla oppiacea nella continua ricerca della prossima avanguardia.

Rock demenziale, punk, new wave, Italo disco. Queste sono solo alcune delle etichette che i Gaznevada si portano addosso e quello che è paradossale è che sono tutte corrette o meglio, tutte hanno rappresentato una fase, un momento della band, subito pronta a voltare artisticamente pagina mentre i limiti di genere si avvicinavano pericolosamente: tenersi fuori da qualunque recinto artistico, sempre e comunque. L’unico recinto scelto sarà quello della Traumfabrik, la casa occupata al numero 20 di via Clavature che diverrà un rifugio artistico per scrittori, musicisti e disegnatori: è qui che si muove anche Andrea Pazienza – che si ispirerà a Robert Squibb (all’anagrafe Ciro Pagano) per il suo personaggio di Zanardi – ma anche il suo collega Stefano Tamburini, padre di un altro fumetto di culto, Ranxerox. Fuori dalla bolla, nel flusso dei ricordi che fa da colonna vertebrale al film ci sono il Convegno sulla Repressione e il concerto Gaznevada Sing Ramones (dove la band suona per ore solo cover di Joey e soci), l’arrivo del punk e quello dell’eroina («il giorno della strage di Bologna, noi eravamo tutti in ospedale con l’epatite»), la nascita delle radio libere e delle etichette indipendenti (come la Italian Records di Oderso Rubini, tra le prime a puntare su di loro) pronte a raccontare realtà “altre” rispetto al mainstream, le morti di Pazienza e di Nico Gamma, le cantine di un’intera città che diventano sale prove, il cui irresistibile richiamo porta i Gaz e tanti loro epigoni a spostarsi nel sottosuolo, letteralmente Going Underground.

Dall’altra parte del telefono, a dare la sua lettura dei fatti, c’è proprio Ciro Pagano, che negli anni ’90 ha avuto una grandissima intuizione abbandonando la chitarra e dando vita ai Datura, ensemble dance in grado di inanellare una serie di successi in quel decennio e nei primi 2000. Oggi è lui a detenere il brand Gaznevada assieme a Marco Bongiovanni (aka Chainsaw Sally aka Marco Nevada, bassista del gruppo): le ruote del meccanismo hanno ripreso a girare lo scorso anno, quando è uscita Synth Soundtrack, una rivisitazione in chiave elettronica di Sick Soundtrack, l’album più celebre della band. La reunion è destinata ad essere solo cinematografica, ma nel futuro c’è in uscita un nuovo lavoro, dai confini artistici ancora da definire e la voglia, mai sopita, di non smettere di guardare in avanti. Costi quel che costi.

Ciao Ciro, oggi che fai?
Continuo il mio percorso con i Datura, sono uno di quelli che ha fatto la scelta malsana di vivere di musica (ride). Ardua più che malsana. Scemati i Gaznevada, ho avuto un periodo di sbandamento poi ho trovato un ottimo compagno di viaggio e abbiamo fatto cose importanti nel mondo del dancefloor, della trance, della techno. La mia passione per l’elettronica era già viva negli anni ’80.

Di etichette ve ne hanno date tante in questi anni.
Hai voglia! Quella che abbiamo sempre stampata sul petto è quella dei traditori. Quella sempre.

Traditori di cosa? Di quello che facevate giusto cinque minuti prima?
È un’etichetta che ti danno quando la gente si aggrappa a una cosa che ama e perde la voglia di inoltrarsi in campi nuovi. Nel momento in cui qualcuno che faceva qualcosa che ti piaceva comincia a fare qualcosa di diverso…

Come vi permettete!
Esatto. Poi sai, noi arrivando da una situazione come quella di fine anni ’70, i movimenti, la lotta armata, le case occupate, nel momento in cui siamo usciti da quella roba lì siamo diventati dei traditori.

Ciro Pagano (Robert Squibb). Foto press

Ecco, cominciamo dal contesto. Com’era la Bologna di quegli anni?
Un posto che oggi è impossibile da immaginare. All’epoca si occupavano le case, non c’erano i centri sociali. Esisteva invece una massa enorme di giovani e di studenti che non aveva un posto dove andare, dove stare. Il centro di Bologna non era quello che è adesso, cioè turismo e b&b, c’erano interi palazzi abbandonati. Fra queste case non vissute e vuote ce n’era una in via Clavatore che fu occupata per motivi creativi: qui si scriveva, si suonava, si disegnava. E tutto questo avveniva in una situazione sociale complicatissima, quella degli scontri e delle università occupate. Poi sono arrivati anche i morti, penso a Francesco Lorusso (militante di Lotta Continua ucciso da un carabiniere durante una manifestazione a Bologna nel marzo del ’77, nda). Un mondo ruvido, ma noi eravamo rifugiati in una bolla, la Traumfabrik, questo il nome che demmo alla casa. Per noi era la succursale della Factory di Andy Warhol: qui avevamo Andrea Pazienza mentre i Gaznevada erano i Velvet, anche se poi ci innamorammo dei Ramones. Il nostro punk era quello, non i Pistols. Quando uscì il disco dei Ramones pensammo: ma che cazzo è ’sta roba!? Fine delle suite che duravano un’intera facciata di un vinile, penso a roba come Genesis o Yes: adesso i pezzi duravano meno di due minuti. Fu una rivoluzione, anche sociale, non solo musicale e arrivarono anche le etichette indipendenti, prima i dischi si facevano solo con le major. In questa casa noi creavamo e così ci siam salvati da tante situazioni peggiori. Ovviamente ci drogavamo, come racconta il film, ma questo è quello che vivevamo, eravamo fuori dal mood reale che si viveva in quel momento, noi vivevamo il nostro sogno chiudendoci dentro la Traumfabrik. Tante cose sono nate lì a livello creativo, il regista Renato de Maria, Andrea Pazienza, Pippo Scozzari, Stefano Tamburini.. non so perché, ma lì succedeva quello. Erano cose da galera, oggi le raccontiamo in maniera simpatica.

Oggi Bologna che città è?
Una città turistica. Il centro è invivibile nel weekend. Adesso Bologna è questo. Poi, sicuramente, ci sono situazioni underground che però non conosco e non frequento.

Alcune cose della tua Bologna sono sopravvissute, penso ai giardini Margherita o a Disco d’oro.
Ho lo studio accanto a Disco d’oro. Qui si parla di resistenza umana, l’unico posto che ha ancora i vinili in vetrina, è bello che ci sia ancora. All’epoca era un fulcro per noi, perché quando arrivavano i dischi si andava lì. C’era questo ragazzo che si chiamava Tiziano, mi pare, che si sbatteva tantissimo per trovare i dischi. È cambiata anche la fruizione della musica: prima andavi nei negozi, sentivi il disco, magari non era quello che ti aspettavi e pensavi «non l’ho capito» non è che dicevi «che merda». Adesso la musica è fatta per Spotify e deve piacerti subito.

Perché il punk americano invece di quello inglese? Perché i Ramones e non i Pistols?
Ci chiamammo Gaznevada da un racconto di Chandler, letteratura che all’epoca era di serie B e che poi è stata riscoperta. Eravamo appassionati di musica, io nasco come chitarrista perché mi piaceva Santana. Comunque ci piaceva di più perché avevano un suono granitico, il punk americano non era legato a una situazione sociale, ma a una musicale e a noi interessava quello, il suono.

Marco Bongiovanni e Giorgio Lavagna dei Gaznevada. Foto press

Cosa arriva prima per voi, il punk o l’eroina?
Allora, la storia è così. Noi usciamo fuori dal Convegno del ’77 a Bologna, all’epoca giravano droghe psichedeliche, sostanze leggere, diciamo. Dopo il Convegno quindi, e la riappacificazione con l’amministrazione cittadina, arriva il marzo del ’77, la morte di Lorusso e la città si incendia fino all’estate quando le cose si calmano un po’. Ci fu il Convegno, una roba formidabile, sembrava Woodstock con ospiti come Dario Fo, venne fatta una cassettina per raccogliere soldi per il movimento universitario, noi abbiamo solo Mamma dammi la benza che non c’entrava nulla col resto, all’epoca la musica della rivolta era quella dei cantautori o degli Area, il punk ancora non c’era. Quindi abbiamo questo brano, demenziale se vuoi, il cui testimone fu subito raccolto con maestria dal grande Freak Antoni, perché poi noi ci spostammo subito verso altre cose. Insomma, facciamo la nostra esibizione, una roba esilarante, perché noi eravamo incazzatissimi ma il pubblico che in testa aveva Guccini la prese male. La cosa si trasformò in una roba divertente, loro ci lanciavano la carta, noi cantavamo “pubblico di merda”, cose così.

Finito il convegno scomparvero tutte le altre droghe, c’era solo l’eroina. Non so se la cosa fu casuale, non sono un complottista, ma successe questo. Qual è il problema degli oppiacei? Che ti fanno star bene. Tu li assumi e tutto svanisce. Il grande pericolo è quello. La nostra salvezza è stata il fatto che l’eroina non era la priorità, prima venivano scrivere e suonare. Lo facevamo, invece che sotto l’effetto della marijuana, sotto effetto di eroina. Che però ha un casino di controindicazioni (ride). Malattie, casini, amici che abbiamo perso… però all’epoca c’era quello, non si trovava altro. Non dico che ci siamo drogati perché c’era solo quello, penso che ci saremmo arrivati comunque. Però era sempre qualcosa legato a quello che facevano, la droga ha sempre fatto parte della musica. Penso all’eroina e al jazz, per esempio.

Che cosa ha rappresentato per voi l’eroina?
Col senno di poi, tempo perso.

E col senno di allora?
Si stava bene. Avevi una brutta situazione? Ti facevi una pera e finiva lì. La risolvevi, è quella l’inculata. Non puoi dire che ti fa star male, ti fa star male quando finisce l’effetto, però è devastante. Un po’ quello che sta succedendo adesso in America col Fentanyl, un disastro. Noi lo facevamo con lo spirito dei Velvet, anche quello (ride).

Come ne sei uscito?
In maniera fiabesca. Quando ho conosciuto mia moglie, è stata tenace. È stata lei che ha creduto in me, abbiamo avuto anche una figlia. Una bella storia. Mi sono chiaramente dovuto allontanare dalla Traumfabrik… Tra l’altro approfitto di questo docufilm per far sapere a mia figlia che cazzo ha combinato suo padre…

Sei pronto?
Hai voglia, conosce la mia storia. Ma sai, ti racconto questo: io ho accettato di fare questo docufilm con Lisa perché me lo ha presentato nel modo giusto. Mi è stato chiesto tante volte di raccontare la nostra storia, però non mi piaceva mai il tono morboso, o politico o sociale che ogni volta veniva scelto. Sono usciti diversi documentari che raccontano anche solo semplicemente il contesto, ma mi sono sempre rifiutato perché non ero interessato al modo. Quando poi è arrivato il Covid, è tornato il bassista, adesso il brand Gaznevada è mio e suo, sai, siamo partiti in sette e siamo rimasti in due… Beh insomma c’è il Covid ed è il 40esimo anniversario di Sick Soundtrack nel 2020, che poi col Covid Sick Soundtrack fa anche ridere (ride di gusto).

Ahahah!
Fa molto Gaznevada. Quindi mi chiama Piefrancesco Pacoda, un tuo collega, per chiedermi se abbiamo voglia di fare un incontro al DAMS per parlare di quegli anni con un piccolo live annesso. Rifiutiamo il live, ma proponiamo un dj set. Facciamo questa cosa ed è stato divertente perché le robe che facevamo prima, se le raccontavamo finivamo in galera, mentre oggi ne parliamo all’università. Mi hanno chiamato dal Berghain di Berlino perché hanno visto il set in streaming su Internet e ci hanno chiesto di farlo anche da loro. Quindi mi ha chiamato Lisa e siamo entrati in contatto e la cosa poi è diventata questa reunion cinematografica. Fare il dj mi ha ridato entusiasmo, ero abituato a pensare alla musica in tre minuti, adesso la devo pensare in tre ore.

Questo film, così come il progetto Synth Soundtrack dello scorso anno, sono un segnale di ripartenza o la voglia di mettere una bella fine a una lunga storia?
Abbiamo già rimesso mano al progetto Gaznevada, io e il bassista. Onestamente, oggi, vedermi con la chitarra… i Rolling Stones lo possono fare ma io mi sentirei a disagio. Io la ripartenza la vedevo solo in chiave elettronica e il docufilm ci ha dato una mano in questo senso, perché abbiamo fatto tre inediti, di cui due in collaborazione col cantante Andy Nevada. Avevamo già rimesso mano ai brani la scorsa estate quando abbiamo suonato al Ferrara Summer Festival coi CCCP, con la Warner abbiamo rifatto la nuova versione di Mamma dammi la benza e messo assieme un progetto con altri tre inediti. Poi vediamo, è un work in progress. Un modo nuovo di essere Gaznevada, con anche l’intelligenza artificiale.

A proposito, è vera la storia che il brano non fu mai originariamente registrato perché il tipo a cui deste i soldi per farlo li spese in droga?
Beh, è chiaro (ride). Queste, del resto, sono le storie di Zanardi. Andrea era un personaggio incredibile, vedeva il mondo attorno a sé e lo trasformava in tavole. Però senza filtri. Lo ricordo con molto affetto, anche solo per esser stato il volto ispiratore di Zanardi.

Quindi sei proprio tu?
Certo. Litigai con lui quando vidi le prime tavole, perché Zanardi ero io. Lui ci rimase malissimo. Quindi no, Mamma dammi la benza non è mai stata registrata perché chi doveva farlo spese i soldi in altre cose.

Cosa succede quando arriva il punk in Italia?
Ora ti dirò una cosa che ti stupirà. Dopo il famoso concerto dove cantiamo i Ramones, abbandoniamo il punk. Non ci interessa più. Quando arriva il punk noi ne siamo già fuori. Il punk era questo, indifferenza totale, io faccio la mia storia, sei tu che non capisci. Quindi poi anche la storia del pubblico di merda… anche se poi in quel modo diventa demenziale. Ma noi eravamo seri, questa cosa della benzina, della benzedrina, ci credevamo veramente.

Oggi hai fatto pace con quel pezzo?
Beh, l’ho rifatto. L’ho completamente dimenticato fino al momento del docufilm, che poi ha rimesso in moto tanti ricordi.

Hai voglia di condividere un ricordo o un aneddoto su Andrea Pazienza e su Nico Gamma?
Con Andrea facemmo pace quando ci ritrovammo a un concerto dei Gaznevada, lui doveva farci un’intervista solo che era imbarazzante, sapeva già tutto di noi e quindi la cosa si trasformò in cazzeggio totale. Però alla fine lui ci fece questa tavola meravigliosa dove siamo noi su un asteroide in mezzo allo spazio con la scritta Gaznevada e una matita che la attraversa. Mi dispiace non aver l’originale, ne ho una copia che distribuirono con Il Male. Nico… con Gianluca siam cresciuti assieme. Poi lui si è perso purtroppo, ha preso altre vie e non siamo più riusciti a condividere il progetto. Sono molto dispiaciuto per quello che gli è successo.

Ti chiedo di commentare una frase del film: “Gli anni ’80 erano lì per fare soldi, non per fare arte. Non siamo mai riusciti a godere del presente, eravamo sempre da un’altra parte. Il futuro ci ha affaticato”.
Questo è Sandro che lo dice, non può che essere lui. È un modo di vivere quel periodo che io condivido solo in parte, perché poi tante cose, a livello culturale, sono uscite negli anni ’80, mica è stato solo quello. È una frase molto bella ma molto personale, non la condivido in pieno. Di facciata si, è molto di impatto, ma gli anni ’80 non son stati solo quello. La cultura, la musica, la moda non erano pensati solo per far soldi, poi se arrivavano tanto meglio. Quando vengono i soldi vuol dire che c’è fruibilità, che stai parlando a un pubblico vastissimo. Perché poi nel nostro lavoro, mettila come vuoi, alla fine il traguardo è arrivare al cuore della gente. Per cui rifugiarsi dietro al «non mi capisce nessuno» non va bene, sei tu che non riesci a capire gli altri. La musica è un linguaggio. Se faccio qualcosa che non ti piace, semplicemente non ho toccato le tue corde. Ma non significa che non capisci un cazzo, significa solo che io sono virato verso un altro mondo. Poi il successo non è che puoi capire come ottenerlo, non lo fai a tavolino o con l’algoritmo, per cui quando arriva ti appaga. È bello quando fai qualcosa e molte persone lo vogliono comprare. Per cui la frase è molto bella, ma io non la condivido del tutto.

Cosa rimane oggi del vostro progetto? Qual è l’eredità dei Gaznevada?
Se la intendi musicalmente, quello che stiamo facendo adesso assieme a Marco con la Warner. L’eredità, secondo me, è l’irrequietezza di avere sempre qualcosa di nuovo da fare, che è stato quello che in qualche modo ci ha sfilacciato. Ci interessava l’avanguardia. Avevi fatto il punk? Basta, ecco la new wave. Poi finiva anche quella e si faceva altro, si guardava sempre avanti avanti avanti avanti. L’eredità dei Gaznevada sta tutta nella musica, noi facevamo musica. Poi, in maniera trasversale, anche tante altre cose, eravamo insofferenti perché volevamo fare musica. Quindi la nostra eredità, musicalmente, è Nevada Gaz per chi ama il punk, Going Underground per chi ama la new wave, I. C. Love Affair per chi ama il clubbing e così via. Questo è.

Alessandro Raffini e Marco Dondini dei Gaznevada. Foto press

I tre inediti a cui state lavorando diventeranno un disco?
Sì. Non so se su vinile, perché ormai lo streaming è vincente.

Quando uscirà?
Penso per gennaio, in concomitanza con l’uscita del film.

Ma quindi sarà la colonna sonora del film o un nuovo disco con brani estratti dal documentario?
Allora, noi stiamo lavorando ad altri inediti. Adesso abbiam buttato fuori Mamma dammi la benza, poi non so.

Chi intendi quando dici noi?
Noi, io e Marco.

Ci sarà una reunion?
Pensare di rimettere assieme la band è una cosa che non mi appassiona, la vedo forzata. La reunion l’abbiam fatta per raccontare la nostra storia.

Era per capire se ci fossero stati dei tentativi in questo senso…
Io vado d’accordo con tutti nei Gaz, a livello personale. A livello creativo con Andy Nevada abbiamo interagito su due dei tre nuovi inediti, ma non ci sono altri progetti in porto oltre a quelli fatti con Marco. Mi spiace averti deluso sul fatto che non ci riformiamo. Mi sono immaginato la band, noi tutti vecchi con gli strumenti e ho pensato: vi prego, no (ride). Adesso c’è l’elettronica. Che poi è diventata già vecchia anche quella…

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