«La mia vita è cambiata nel momento in cui ho deciso di cambiarla», racconta molto saggiamente Flavio mangiando dieci salatini al secondo, seduto in un bar di
Milano. Nel giorno stesso in cui il fenomeno itpop universitario di Gazzelle è uscito allo scoperto con Superbattito, Flavio ha mollato tutto, compreso il lavoro, e si è dedicato completamente ai synth e alle vocine.
Una prova di determinazione che ASICSTIGER ha appoggiato fin da subito, annettendolo alla cerchia dei propri #ChiusiFuori, cioè personaggi che dal nulla e da una dimensione decisamente introspettiva sono usciti allo scoperto, realizzando i propri sogni e scoprendo che non è poi così male, fuori.
Prima mi dicevi che in tour non ti porti molto, semmai ti porti a casa molto dal tour.
Vero, in generale mi regalano molte cose lanciandomele sul palco. Poi io mi riporto a casa tutto quello che riesco a conservare. Fra queste cose ci sono peluche, striscioni, foto, biglietti e un centinaio di paia di mutande e reggiseni.
Pulite, spero.
Sì, pulite e in molti casi proprio nuove. Mi hanno tirato anche un orso-pigiama. Tengo tutto come ricordo, ma un giorno potrei anche decidere di venderli. Una volta mi è arrivato un perizoma in faccia mentre cantavo.
E forse è per questo che all’inizio hai voluto restare anonimo, ma poi sei uscito allo scoperto.
Ma tuttora cerco di rimanere dietro alle cose che mi stanno succedendo, forse per carattere. All’inizio volevo apparire sfocato, per rimanere un po’ dietro, come attitudine. Ora le mie foto non sono più sfocate, ma io continuo a esserlo.
Adesso almeno ti riconoscono in giro.
Sì, ma non ho mai puntato a quello. Non ho mai puntato all’immagine, mi interesso più alla musica, alle parole. Su Facebook pubblico molte poesie brevi. Sono delle frasi, spesso provenienti da canzoni. Pubblico poche foto. Mi interessa l’estetica, non l’immagine.
Nei tuoi video però i personaggi sono sempre tutti giovani e bellissimi.
Sono caratteristici, hanno un senso perché non lascio mai niente al caso. Né io né la mia etichetta. Abbiamo un’idea di estetica, di cose che ci piacciono, che fa sì che poi il progetto sia esteticamente coerente. E anche io dal primo giorno a oggi non sono cambiato di una virgola. È una cosa stilosa.
Quindi il tuo pubblico è composto in generale da giovani.
Io mi rivolgo a chiunque voglia ascoltarmi. Non mi interessa l’età, è indifferente.
Però poi ai concerti vedi chiaramente chi c’è.
Nell’effettivo è gente che va dai 16 ai 35 anni. Giovani ma eterogenei, così come le mie canzoni. Non scrivo mai un pezzo pensando a chi lo ascolterà, anche perché se spero che qualcuno in particolare l’ascolti, alla fine non finisce mai così. Li scrivo per tutti, ma soprattutto per me.
Hai già trovato la tua dimensione artistica?
Spero proprio di non trovarla mai. Vorrei sempre stare oltre la dimensione. Per ogni disco cerco di tirare fuori qualcosa di diverso. E in ogni caso, per trova- re la dimensione che dici tu, credo ci vogliano anni e anni. Spesso magari è lei che ti trova. Io spero di non adagiarmi mai. Voglio che sia sempre tutto uno sconvolgimento.
Ed è così che descriveresti il tuo inizio di carriera?
Beh sì, in termini pratici la mia vita è stata sconvolta. Ma in termini mentali no: io voglio fare questo, nella mia testa lo stavo già facendo da prima del successo.
Chi eri prima?
La stessa persona di adesso, solo che tu non lo sapevi. Scrivevo, facevo le mie cose. A 23 anni ho messo su una band, ma suonavamo comunque le cose mie. E ora ho tenuto gli stessi ragazzi sul palco. Mi danno anche una grossa mano ad arrangiare. Ma rimane un progetto solista. Non siamo “I Gazzelle”.
Tu ti sei mai sentito “Chiuso fuori”?
Sì, ma pure chiuso dentro. La mia vita è cambiata nel momento in cui ho deciso di cambiarla. Non ho alle spalle una storia tormentata. Sono una persona normale come te e come tutti. Ma ero in una situazione scomoda, quindi ho cambiato le cose senza aspettare che lo facessero loro. Anche perché non cambiano da sole, è inutile aspettare.
È vero che sei cresciuto con la Dark Polo Gang?
FSì, li conosco bene. Sono stato bocciato diverse volte perché facevo troppe assenze. Che poi andavo anche bene, latino, matematica, italiano, i temi andavano benissimo. Però mi pesava troppo stare lì, facevo altro. Alla fine sono andato alla scuola privata, e lì ho incontrato Tony e Wayne. Avevamo 18-19 anni.
Delle mine vaganti.
Sì, è stato un bell’annetto. Facevamo cose divertenti ma che non si possono dire. Eravamo fuori di testa. Ma allora ci stava, il problema è quando fai le cazzate da adulto. Bisogna essere spensierati per fare certe cose, e da adulto non lo sei.
Come scrivi i pezzi?
Mi metto al piano e mi escono delle frasi che evidentemente devono uscire. Capisco il senso di una canzone solo dopo: lì per lì non capisco niente, è una sorta di trance. Per me è come un processo di auto-psicanalisi.
Quindi sono in errore quelli che dicono che scrivi per la tua generazione?
Sì, anche perché come fai? È presuntuoso, dirlo. Io ti racconto le cose mie, poi magari diventano di tutti. Non mi metterei mai a parlare a una generazione sapendo che lo sto facendo. Non credo che John Lennon, quando scriveva, si mettesse a pensare: “Ah, per i prossimi 60 anni la gente non ascolterà altro”.
Io credo che lui in particolare lo facesse, sì. Era parecchio convinto di sé, giustamente.
OK, magari su Imagine. Ma sul resto no, dai. Comunque ogni cantante dev’essere convinto, altrimenti vai a fare n’altro lavoro.
Eri teso al Concerto del Primo Maggio?
Sì, ma meno di altre volte. Il primo concerto che ho fatto in assoluto, lì sì che ero teso. Credevo de morì. Mi veniva da vomitare, e forse ho pure vomitato davvero. Due giorni prima lavoravo in una pizzeria, il disco era uscito il giorno stesso e il locale era pieno. Ma ero contento, mi ero stufato di lavorare in pizzeria.
Per quanto ci hai lavorato?
Poco, un anno. Ma ho lavorato tanto in un bar, poi ho fatto il postino, mille cose. Non ho intenzione di tornare a fare quelle cose, anche perché non le facevo neanche mentre le facevo, capisci? Andavo male pure al lavoro. Mezzo Superbattito l’ho scritto mentre facevo i caffè al bar.
Figuriamoci che caffè di merda che facevi.
Sì, però a fare i cappuccini ero il numero uno di Roma. Il trucco è tutto nella schiuma. Devi essere bravo a fare il movimento. Facevo anche i disegnini sopra, tipo i cuoricini. Purtroppo non mi lanciavano le mutande quando li facevo.