Gazzelle non sta fermo un attimo. Dopo la pubblicazione del secondo disco Punk a fine 2018, il cantautore romano ha vissuto il periodo di maggior successo della sua carriera arrivando a riempire i club di tutta Italia e soprattutto mettendosi in tasca, lo scorso marzo, due sold out al Mediolanum Forum di Milano e al Palazzo dello Sport di Roma. Ma si sa, nell’era dei social i ritmi della discografia sono serrati, i fan hanno tanta musica a disposizione, l’interesse del pubblico è volatile e allora meglio non sparire nemmeno per un secondo: lo scorso luglio Flavio Pardini alias Gazzelle ha dato alle stampe la raccolta di poesie Limbo, in giugno ha lanciato il singolo poi certificato oro Polynesia, un mese fa è stata la volta di Settembre e ora ha inserito questi inediti più altri due – Una canzone che non so e Vita paranoia – in Post Punk, riedizione arricchita dell’album Punk.
Che il genere musicale evocato nel titolo non c’entri nulla è evidente. Non solo i brani, ma anche gli ascolti di Gazzelle vanno in altre direzioni: Beatles, Oasis, Blur, Coldplay, De Gregori, Dalla, Battisti e il suo idolo Vasco Rossi. Interpellato sulle sue conoscenze in fatto di post punk, dice di non saperne granché e di essere stato, semmai, «un ragazzino preso dal punk di Sex Pistols, Clash, Ramones». Ora che fa il cantautore di mestiere e che è sulla soglia dei 30 anni (li compirà a dicembre) propone canzoni pop semplici, senza fronzoli, romantiche e lievemente malinconiche ma leggere, che tratteggiano scene di quotidianità non senza un tocco d’ironia. Canzoni stilisticamente vicine a Calcutta e a Tommaso Paradiso sotto il profilo dei temi (che si parli di amori o incontri sensuali, la presenza di un’interlocutrice è quasi costante), basti citare versi come “quando ti vedo attraverso un bicchiere / che assomigli a una rivoluzione / ad un segreto che non si può dire / ad un boato dopo un’esplosione / ad un reato senza punizione” (Vita paranoia) e “quando la luce si infrange / sopra le tue guance / mi ricordi il Messico / i tuoi occhi le spiagge / le tue gambe due piante / che vorrei annaffiare un po’” (Una canzone che non so).
«È il nostro linguaggio, lo abbiamo inventato noi», afferma Gazzelle. «Del resto abbiamo più o meno tutti la stessa età, viviamo la stessa epoca, facciamo parte di una generazione che è la nostra così come Venditti e Baglioni avevano la loro». A proposito delle associazioni tra sentimenti e luoghi sparsi per il mondo, ossia di quel modo di usare i luoghi come contenitori di significati, per dirla con Calcutta, afferma: «Citare mete lontane, talvolta esotiche, serve a fuggire dalla realtà che ci circonda, a non contestualizzarci troppo, a non legarci a niente». E continua: «Faccio molta attenzione al linguaggio, ne cerco uno che sia mio. A volte lasciandomi guidare dalle suggestioni che certi termini m’ispirano a livello di vibrazioni, seguendo il suono delle parole che si mischia con la musica diventando un tutt’uno. Altre creando cortocircuiti, accostando parole che non c’entrano l’una con l’altra o che possono apparire esagerate come ‘rivoluzione’, per non essere prevedibile o retorico».
Gli inediti di Post Punk sono nati nell’ultimo anno dalla collaborazione con il produttore Federico Nardelli. «Non volevo il sound che funziona in questo momento, se fai così rischi di ritrovarti dopo qualche anno con pezzi che ti fanno schifo. Preferisco i suoni classici, potenzialmente eterni: un pianoforte non smetterà mai di piacermi, al contrario del suono di un sintetizzatore di plastica che va adesso, ma domani chissà». Poi c’è quella sorta di fatalismo misto a insoddisfazione e noia che permea i pezzi. «È anche disillusione», precisa lui. «L’altro giorno Federico Zampaglione dei Tiromancino mi ha definito “un artista noir”: un po’ ci ha preso. Sono molto così, sono come canto, è il mio stato d’animo, sono cronicamente insoddisfatto. Ma se in passato mi sembrava una cosa negativa, col tempo mi sono reso conto che la mia insoddisfazione coincide con la fame, mi spinge a non accontentarmi. È benzina che mi permette di non stare lì seduto a dirmi quanto sono bello e bravo. E allora va bene».
Tra gennaio e febbraio 2020 Gazzelle sarà di nuovo nei palazzetti: dal Mandela Forum di Firenze approderà al Palapartenope di Napoli passando per Milano, Catania, Roma, Bari. «È una roba figa fare concerti in quei posti, quando vedi tutta quella gente che canta all’unisono e sta lì con te è incredibile, indescrivibile. Dopo torna il tormento di fondo, ma in quell’ora e mezza di live sono davvero, ma davvero felice». Di data in data sul palco gli è arrivato di tutto. «Reggiseni, mutande… Ma a me fa ridere, anche perché spesso le mutande sono proprio nuove, manco se le sono messe, per cui che senso ha? Mica me le posso mettere io. Allora meglio la busta con i soldi, come i parenti (ride, nda)».
Le canzoni le scrive sin dall’infanzia: «È sempre stato un mio modo di esprimermi. La prima volta fu a 6 anni, andavo alle elementari: mi misi alla tastiera, mio padre mi aveva insegnato un po’ a suonare e a orecchio buttai giù un brano per il mio compagno di banco. Così, senza pensarci, mi è venuto automatico. È come quando dai un pallone a un bambino e fa gol senza nemmeno sapere cosa sta facendo». La musica è una necessità, confida: «I miei pezzi non sono il mio diario, anzi, spesso scrivo per modificare la realtà, prendo dei ricordi e li ribalto, mi fa stare bene. Non potrei farne a meno, scriverei anche se nessuno mi ascoltasse». Prima di diventare il Gazzelle che è oggi lavorava in una pizzeria al taglio. «Per questo ora cerco di fare le cose inseguendo una coerenza. Non m’interessa scrivere la hit a tutti i costi, credo ne sarei capace, però non mi va di fare quello nella vita. Sono un cantautore, voglio mantenere questo profilo. Che non significa fare l’artista di nicchia, so di essere super pop, ma significa non fare il fenomeno, perché non voglio durare due anni per poi sparire, voglio fare musica il più a lungo possibile. Ho già dato con i lavori che non mi andava di fare ed è stato frustrante: ora che faccio quel che mi piace non intendo sporcarlo».