Negli ultimi anni, se si è cultori del genere, è difficile sentire un disco di rap italiano tecnicamente brutto, perché gli standard si sono alzati di parecchio e così anche la qualità dei prodotti. È molto più difficile, però, sentire un disco davvero innovativo, perché l’originalità invece non va di pari passo con l’espansione del mercato. È proprio questo il motivo per cui un lavoro come Scatola Nera va salutato con grande gioia e con tutti gli onori: perché nonostante Gemitaiz e MadMan siano due tra i rapper più forti in circolazione, e quindi potessero permettersi di andare sul sicuro, hanno scelto di rischiare e osare con un album che allarga il loro orticello ben oltre quello del tradizionale sound hip hop, e non possiamo che essergliene grati. «Ora come ora la vera scommessa, per noi, non è acquisire nuovi fan, ma tenere stretti quelli che già abbiamo, riconquistare ogni volta chi ormai ci ascolta da dieci anni», riflette Gemitaiz. E allo stesso tempo, non perdere di vista l’autenticità, rincara la dose MadMan. «Il titolo richiama il tema del volo, dell’elevarsi nell’arte e della musica, ma si riferisce anche a qualcosa di inopinabile, sincero, onesto».
La prima cosa che colpisce di Scatola nera è che la componente musicale e melodica è molto accentuata, rispetto al tipo di disco rap che ci immaginiamo di solito…
GEMITAIZ: Penso che a livello mondiale il rap sia diventato un discorso così ampio, negli ultimi anni, che è impossibile rinchiudere il genere in una sola casella: c’è stata una contaminazione talmente larga che fare un album rap non significa più quello che pensavamo significasse anni fa. In più, per due come noi, che fanno dischi puramente rap da tanti anni, sarebbe stato un po’ limitante ripetere una formula già collaudata: volevamo fare qualcosa che suonasse ampio, massiccio, che avesse dentro tanti elementi e tanti strumenti musicali suonati.
MADMAN: Abbiamo lavorato molto in studio con i nostri produttori di fiducia, in due diverse tranche, in Italia e a Los Angeles. Non è stato facile trovare un equilibrio e riuscire a ottenere esattamente il suono che volevamo, ma il fatto di essere tutti insieme fa sì che si crei una bella alchimia e che si trovi un punto d’incontro tra i vari gusti e le influenze. Collaborare e sperimentare è l’unico modo per capire cosa funziona e cosa no.
Tra l’altro, il sound non deluderà neanche i puristi del rap: qua e là infilate delle vere e proprie chicche per cultori, dalle atmosfere dirty south dei primi anni ’00 ai rimandi G-Funk e west coast…
M: Ci fa assolutamente piacere che questo aspetto venga percepito, perché la nostra musica è sempre stata molto citazionista. Ad esempio Che ore sono, il pezzo con Venerus, richiama gli anni ’80 e delle sonorità che ormai fanno parte della golden age del rap; Karate, con il featuring di Mahmood, ha dentro le tendenze afro che vanno molto attualmente ed è super futuristico; altrove si sente l’influenza di Lil Wayne e dei suoi vari album della serie Tha Carter, che crescendo ci siamo divorati.
G: Ed è tutto molto spontaneo. Per come lavoriamo noi, questo è l’unico modo possibile: o le cose nascono naturalmente da un processo collettivo, o non nascono proprio. Parte un beat, se guardiamo, ci rendiamo conto che fa scattare qualcosa a tutti e ci mettiamo all’opera a integrare la produzione e scrivere le strofe.
A prescindere dal sound, comunque, non avete certo semplificato il vostro stile: restate due rapper estremamente tecnici e complessi, a differenza di molti dei trapper di oggi.
M: I rapper che piacciono a noi sono quelli che sanno rappare da dio: Lil Wayne, Eminem, Kendrick Lamar, Tory Lanez.
G: Esatto, quelli che riescono a portare la loro complessità anche nei pezzi più leggeri o in quelli introspettivi. Non puoi disimparare a fare il rap perché la moda del momento va in un’altra direzione. L’obbiettivo è quello di portare l’eccellenza di un certo tipo di rime anche su sound più innovativi e contemporanei.
È un periodo in cui molti rapper provano a fare un passo più in là, musicalmente parlando, ma spesso il pubblico lo percepisce come un modo per andare incontro al mercato del pop, più che come una legittima esigenza di evolversi. Avete mai temuto che un album come questo potesse non essere capito dai vostri fan?
G: Beh, il nostro singolo è Veleno 7: l’ultimo capitolo di una delle saghe più tecniche del rap italiano, in cui ci sono solo due strofe, barre serratissime in extrabeat, niente ritornello, beat ridondante… Provate un po’ a dire che io e MadMan andiamo incontro al mercato del pop! (ride)
M: E anche gli ospiti del disco che potrebbero apparire più pop, ovvero Giorgia e Mahmood, non sono stati scelti per questo motivo: sono davvero dei talenti cristallini, ed era per quello che ci tenevamo ad averli nell’album.
G: Quando la gente ha visto che Giorgia era presente nella tracklist, hanno pensato subito che volessimo fare il singolone pop smielato per andare in radio (abbastanza a caso, tra l’altro, perché non stiamo parlando di Laura Pausini che è famosa per le canzoni d’amore strappalacrime, ma di un’artista che ha fatto un sacco di cose diverse e musicalmente molto valide). Quando poi sentiranno il pezzo, però, capiranno che è tutto tranne che quello: Scatola nera è davvero minimal, con delle atmosfere complesse e molto forti, che devi riascoltare più volte prima di capire sul serio.
A proposito, com’è nata l’idea di coinvolgere proprio lei nella title track?
G: Ci ha mandato un messaggio su Instagram facendoci i complimenti e dicendo che era in fissa con la nostra musica. Scatola nera era già pronto, e ci è venuto in mente di chiederle di registrare il ritornello. Quando è venuta in studio da noi è stata bravissima e davvero alla mano, è nato un bel rapporto.
È un pezzo piuttosto malinconico e introspettivo, un mood che si percepisce in varie altre tracce del disco…
M: Abbiamo sempre fatto pezzi del genere, fin dall’inizio della nostra carriera. Fa parte della tradizione del rap, quella dei “pezzi struggle”, e negli anni è diventata un marchio di fabbrica per noi. Ci teniamo a fare in modo che la gente possa identificarsi con noi e con i nostri problemi, che poi sono un po’ quelli di tutti.
In questo periodo storico rap e tristezza vanno spesso a braccetto, ma spesso in maniera un po’ malata: la cosiddetta emo trap ha messo in luce la tendenza ad abusare di Xanax, benzodiazepine e altri calmanti come status symbol. Gemitaiz, in Fuori e dentro dici “Sì, ripeto sempre quello che penso / no, non prendo le benzo”…
G: In Italia la mania di calarsi Xanax e Fentanyl come caramelle non è ancora arrivata così forte come in America, ma comunque è un discorso molto serio, e credo che per molti (almeno qui da noi) sia un atteggiamento: non c’è nessun tipo di malinconia nella loro musica, anzi, se sono malinconici cercano di star male di nascosto, lontano dai riflettori, per non mostrarsi deboli e insicuri. In generale, comunque, sono un po’ spietato con i vari rapper che muoiono di overdose per questi farmaci, tipo Lil Peep o Mac Miller. Pace all’anima loro, per carità, probabilmente stavano cercando di placare la guerra che avevano in testa, però conosco gente che fa una vita molto più schifosa della loro e nonostante tutto è ancora in piedi. Non giustifico la venerazione di chi si ammazza con gli oppiacei, anche perché poi a me rompono il cazzo perché mi fumo le canne…
M: Sicuramente noi ci siamo passati, attraverso i periodi bui, ed è anche per quello che ci sentiamo di dire “Non prendo le benzo”: sappiamo che non è quella la risposta, almeno non in quei termini. Noi siamo per la libertà di fare ciò che si vuole, ma fumando le canne riusciamo a fare i dischi, con quella roba invece non riesci a fare un cazzo.
G: Anche se è legale, a differenza ad esempio delle canne, bisogna che passi il messaggio che non stiamo parlando della stessa cosa. Non c’è dubbio che entrambi abbiamo rischiato la vita con le droghe e non raccomandiamo di fare come noi, però c’è una differenza tra drogarsi per divertirsi e drogarsi per non sentire niente e rimanere un’ameba.
Sempre parlando di periodo storico, siete tra coloro che più spesso hanno lamentato l’atteggiamento troppo invadente di molti fan del rap. Che sta succedendo?
G: Come sanno tutti, io sono diventato scorbutico e cagagazzi e non voglio più fare le foto con la gente: a tutto c’è un limite, e il mio è stato superato. Non solo nelle situazioni più note (Si riferisce a un fan che qualche settimana fa ha inseguito lui e Venerus in autostrada, causando un incidente, ndr), ma anche nella vita di tutti i giorni. Siamo diventati dei profili di Instagram ambulanti: un sacco di gente non sa chi sono o cosa faccio, ma mi chiede comunque una foto, perché percepisce che sono famoso. Arrivano da dietro e si fanno un selfie, senza neanche dire ciao. Spesso, quando vedono qualcun altro che ti ferma per strada, ti fermano anche loro, solo per chiederti “Oh, scusa, ma tu sei famoso?”.
M: Magari sono a cena con la mia fidanzata e vedo qualcuno che mi sta filmando di nascosto, o che mi interrompe per chiedermi un selfie. Come se il semplice fatto che tu sei famoso ti desse diritto a una foto, indipendentemente dal momento o dal contesto. È pesante.
G: Peggio: non sei tu che hai il diritto a una foto con me, ma sono io che ho il dovere di fare una foto con te e di intrattenerti, perché nella vita ho scelto di fare questo nella vita. Ma noi non siamo comici o saltimbanchi, ci consideriamo degli artisti, e vogliamo essere trattati come tali. Se sei gentile ed educato con me, e dimostri di conoscere e rispettare quello che faccio, io lo sono con te.
Tornando alla musica, Scatola Nera precede anche i vostri primi concerti nei palazzetti: è un traguardo che vi mette ansia?
M: Sì, ma non per quanti biglietti venderemo. Più che altro, l’ansia deriva dal fatto che sono palchi molto importanti e noi ci teniamo tantissimo a fare degli ottimi live.
G: Per fortuna, da quando abbiamo annunciato le date, molti hanno acquistato il biglietto prima ancora di sentire il disco. Siamo felici che il nostro pubblico ci dia così tanta fiducia a scatola chiusa, letteralmente e in senso figurato: è una bellissima sensazione.