Generic Animal è forse il migliore cantautore della sua generazione. Lo so, scrivere per assoluti è spesso soggettivo e poco utile nel giornalismo, ma mai come in questo caso penso sia necessario prendersi questa libertà. Benevolent, il quarto disco in cinque anni di Generic Animal, è l’ennesima conferma di quella sua capacità unica di accoltellarti l’anima e di aprirti il cuore come una scatoletta di tonno. Una formula magica. Sarà la malinconia delle scelte melodiche super-emo, i testi realisti e (auto)ironici, le chitarre scomposte e ricomposte. Sarà la capacità di essere gigantesco nell’universo minuscolo dei dettagli. Sarà talento, quello strambo e puro, che non ha bisogno di essere condito di sovrastrutture soical e strategie di marketing.
Luca ci ha aperto le porte di casa in un pomeriggio plumbeo a Milano est e ci ha offerto il caffè mentre i suoi gatti si rincorrevano capricciosi. È così che nasce questa conversazione umana e onesta, in puro stile Generic Animal.
Ciao Luca, grazie del caffè. Partiamo così: Benevolent arriva a due anni da Presto. In mezzo è quasi finito il mondo. Tutto bene?
Sono stati due anni, è vero, ma sembrano dieci. Ho scoperto che si può invecchiare anche a 25 anni. Però sti cazzi, sono stati due anni di libertà e povertà ed è andata bene così.
Presto ha avuto la sfortuna di uscire un attimo prima dello scoppio della pandemia. Hai rimpianti?
Avevo grandi aspettative e non ho problemi ad ammetterti che sono rimasto scottato dall’idea di non sapere cosa sarebbe potuto succedere in una situazione normale. Comunque andando avanti, facendo cose, ti dimentichi anche di questi lunghi limbi grigi.
Benevolent esce invece un attimo prima dello scoppio della Terza guerra mondiale.
Ho cominciato a scrivere Benevolent prima del covid, in coda a Presto, e l’ho concepito in tre blocchi: prima del covid, durante il covid, dopo il primo grande covid. E ora che lo pubblico qua accanto c’è una guerra e ho come un senso di colpo a gioire di questa uscita. Ma fare musica è anche un lavoro e quando lo inizi non puoi tirarti indietro. Devo dire che faccio comunque fatica ad espormi su cose di cui – fino a due minuti fa – non sapevo niente. Ovvio che ho una posizione chiara su questa guerra, ma non sono un soldato di cause che non conosco davvero. Sui social siamo tutti performer, ma nella vita reale abbiamo degli obblighi, anche semplicemente quelli di vivere, e sopravvivere.
Come ti relazioni – da musicista – alla performatività dei social?
Non sono un grande comunicatore. L’ansia dei social mi fa cacare, da sempre. Quella cosa che l’artista deve reinventarsi nei vari social mi sembra assurda. Mi sento uno young boomer; dovrei farmi TikTok, ma che cazzo ci farei su TikTok? Ne sono un fruitore, ma io cosa dovrei comunicarci? Ho sentimenti misti. Faccio parte di quei musicisti che preferiscono suonare dal vivo e i miei social non sono altro che dei reminder delle mie uscite, delle mie date; sono tristi, lo so, ma che dovrei fare di più? I social sono fast fashion; devi inghiottire tutto in 15 secondi, pubblicare in un determinato giorno, scegliere l’ora adatta. È tutto troppo farmaceutico.
In un universo di progetti musicali da Instagram, Generic Animal è un progetto credibile, reale, sincero, che fa dei live veri con delle persone vere venute appositamente per ascoltare della musica vera in spazi fisici. Si sente che volevo mettere dell’enfasi sulla realtà della tua musica?
Sai, dopo Presto, quando ho iniziato a dire no ai featuring e no alle marchette, ho notato di avere tutto un altro appeal sulle persone. Mi sembra che il progetto stia continuando a crescere gradualmente e spero continui. Non do di più di quello che posso permettermi e sono davvero grato a chi lo capisce. I numeri nella musica sono importanti per fare i calcoli, ma visto che non sono bravo con la matematica e non sono bravo con i soldi, forse non me ne fotte davvero un cazzo.
Non hai mai avuto quel momento – che credo attraversi quasi tutte le carriere artistiche – in cui hai pensato di cambiare il tuo approccio per farcela, per arrivare a un pubblico più grande, per puntare a quella cosa là che molti chiamano successo?
Vagamente, forse, ma alla fine ho capito che sono cose che devi proprio voler fare. Non dovrei far nomi, mi sa, ma se ti chiama Don Joe perché nel suo disco vuole fare un pezzo con J-Ax e te – anche se non ha idea di chi sei – magari ci pensi un’ora, un giorno, ma poi capisci che non te ne frega nulla. Se hai bisogno di così tante marchette, di così tanti featuring, di così tanti aiuti, perché non provi a cambiare come comunichi tu? Perché non provi a fare sempre meglio quello che stai facendo? Questo è quello che vorrei farei io. So che Benevolent è un disco per pochi stronzi, ma l’avevo messo in conto. Volevo farlo così. E va bene così. È un disco senza escamotage.
Infatti hai sempre collaborato con molte persone (su Presto c’erano, ad esempio, Massimo Pericolo e Franco126), ma in questo disco non hai featuring dichiarati, anche se nei crediti notiamo il nome di Clauscalmo.
Ho deciso di fare un disco in famiglia, tra amici. È molto intimo. Volevo parlare di argomenti che rappresentassero tutto questo e non ciò di cui si crede abbia bisogno il mondo della musica a livello funzionale, come il featuring. Oramai è scontato che qualcuno si trascini grazie a un featuring. È così scontato che stiamo parlando di una tecnica che non è nemmeno più divertente. L’ho fatto a mio tempo, mi sono divertito, e non ne è detto che non lo rifaccia, ma solo a modo mio, magari se capita qualcosa di strampalato, un accoppiamento assurdo.
Nelle tue parole, ma anche in brani del disco come Bastone e So si sentono alcuni sbuffi di malcontento verso un certo ambiente musicale tossico. Com’è il tuo rapporto con questo ambiente?
Bastone e So sono state scritte in momenti differenti ma parlano più o meno della stessa cosa: vivere la musica a Milano, anche se penso che ciò possa valere anche per le altre città. Siamo, e credo saremo ancora, una piccola lobby di poveri stronzi. Quando è uscito Presto, mi sono sentito dire «eh fra, hai fatto uscire il disco un mese prima della pandemia? Cazzi tuoi!». Il classismo della musica, il ceto di chi è stato sfigato e chi no. E quindi è normale che alcuni testi parlino di questo. Io tento di vivermi l’ambiente musicale con sportività, ma non è per un cazzo sportivo. La gente non è sportiva, non è nemmeno competitiva se è per quello, è semplicemente galvanizzata dal suo ego, dai cazzi suoi, da Instagram. E quindi, sai, quella cosa della pacca sulla spalla al festival, o del non presentarsi nemmeno quando ci si incontra, ecco, quelle cose mi hanno fatto venir voglia di dare un volto a tutto ciò e ci ho scritto questi brani.
Ci vuole un certo coraggio a dire pubblicamente «no, a me questo non va bene», soprattutto in un ambiente dove è sempre più vantaggioso stamparsi in faccia un sorriso e lasciar correre.
Spero di cambiare in futuro e di riuscire a dire una cosa bella prima di una brutta, ma per ora non è così. So che alcune cose che dico o canto sono degli sbuffi, dei piagnucolii, ma è la verità. Mi spiace eh, ma è la verità. Anzi, sai che ti dico? Non me ne dispiaccio nemmeno.
Uscendo dall’ambiente italiano, in questi due anni hai partecipato per ben due volte a A Colors Show, celebre format YouTube che scopre nuovi talenti in giro per il mondo. Hai avuto un ritorno di pubblico o di addetti ai lavori dall’estero? Hai sentito un’aria differente?
A Colors Show è stata un’esperienza che ha dato una svolta, almeno a livello mentale, al mio 2021. Ho conosciuto delle persone incredibili nel farlo, coetanei che amano quel che fanno e che ci tengono davvero a scoprire quello che succede nella musica, nel resto del mondo. Ho avuto un piccolo riscontro a livello internazionale, persone dal Brasile, Giappone e New York. In Italia il supporto di tanti amici, e i vari commenti con la fiamma e il pollice insù su Instagram.
Pensi che la musica italiana sia esportabile all’estero, non solo per la lingua, ma anche per come lavora l’industria?
Spero che la musica italiana diventi sempre di più esportabile, non mi sembra un miraggio in questo momento.
Torniamo a Benevolent. Ogni tuo disco è legato a un immaginario, spesso ad un personaggio preciso. Benevolent ha un mostro in copertina. Qual è il concept dietro a questa scelta? E da dove arriva questa fascinazione per mostri, weird, reietti?
Il mostro in copertina si chiama Benevolent, per l’appunto. Vive in un mondo abitato da altri mostri, anche del passato, tipo il mostro viola di Presto. Benevolent è come se fosse una versione dark di Dodo dell’albero azzurro e una versione felice di Godzilla, o del mostro della laguna. Il significato sta nel mezzo. La fascinazione è molto più legata alla fanciullezza dell’estetica e un po’ al grottesco mischiati insieme, con in sfondo sempre un paesaggio che aumenti e accentui la prospettiva che uno ha di questo pupazzo gigante.
Benevolent suona meno contemporaneo dei tuoi dischi precedenti, ci sento cose di inizio 2000, di quell’alternative che in Italia mi riporta ai primi Tre Allegri Ragazzi Morti. Sento anche una libertà di non andare per forza verso la formula del pop a tutti i costi. Come sei arrivato al suono e alla scrittura di questo disco?
Il suono del disco è molto legato ad uscite contemporanee come gli ultimi dischi prodotti da Andrew Sarlo, ma anche a cose chiaramente datate tipo Pinkerton degli Weezer. Volevo che suonasse come un disco del 1995, fatto da uno del 1995 ma che vive nel 2022. Mi spiego? (Ride)
Ti poni sempre degli obiettivi quando scrivi un album?
Vorrei qualcosa di più ad ogni disco, e non parlo solo di soldi perché su quel lato butta male! Parlo di una realizzazione personale, artistica, intellettuale. Una crescita personale, una riuscita in qualcosa. Ad ogni disco voglio fare un passo in avanti.
Quale passo in avanti pensi di aver fatto in Benevolent?
Per la prima volta mi sono sentito sicuro delle mie scelte a livello di produzione/composizione e di sviluppo del concept. Registrare questo disco è stata un’esperienza sparpagliata: mi ha fatto capire ancora di più quanto io ci tenga a far maturare le idee fino a che non cadano dall’albero da sole.
Nonostante la pandemia, eri riuscito a suonare parecchio già la scorsa estate. Ora finalmente riparti in tour, con le prime date annunciate a Torino, Bologna, Roma, Pisa, Milano. Tra l’altro, non sarai solo, ma con la band.
Ne sono felice, anche se mi hanno già cancellato una data! È sempre più difficile fare quello che si faceva una volta, prendere un van e farsi su e giù l’Italia tutti i weekend. Ora giro con una band di amici e collaboratori con cui dovevo partire per il tour che non ci fu di Presto. È la mia dimensione preferita. Sai, non volevo più star sul palco da solo.