I primati (certificati e non) dei Cypress Hill, una delle band più solide e longeve del panorama hip hop americano, sono parecchi. Tanto per cominciare, sono il primo gruppo rap latino ad arrivare al disco di platino: Sen Dog (di origini cubane), B-Real (padre messicano, madre cubana) e dj Muggs (italo-cubano) si sono conosciuti da ragazzini a South Gate, in California, e da allora non hanno mai smesso di fare musica insieme, come solisti o nei loro side-project. L’ultimo, e forse il più celebre, è quello che vede B-Real impegnato nelle fila dei Prophets of Rage insieme a Chuck D dei Public Enemy e a buona parte dei Rage Against the Machine; li abbiamo visti in Italia quest’estate, in apertura al concerto milanese di Eminem.
Sono anche stati tra i primi a celebrare la cultura dell’erba nei loro dischi, che non a caso sono tra le colonne sonore preferite dai fumatori di tutto il mondo, e a cimentarsi con successo nel crossover con il rock. E sono anche stati tra i primi a differenziare la propria immagine dall’estetica del rap: le illustrazioni che utilizzano da sempre per le copertine dei loro album, un tripudio di scheletri, croci, colori cupi e caratteri gotici, ricordano più quelle di un gruppo death metal. Oggi si avvicinano alla cinquantina, ma non per questo hanno intenzione di mollare il colpo, sottolinea Sen Dog ridendo, mentre si gode una rara mattinata di relax nella sua Los Angeles in attesa di ripartire per la promozione del loro nuovo disco, lo psichedelico Elephants on Acid.
Come mai ci avete messo così tanto a decidere di pubblicare un nuovo album?
Dopo l’uscita del nostro disco precedente, Rise Up (2010), siamo stati in tour il doppio del tempo rispetto al solito. Non c’era un motivo preciso, semplicemente ci siamo adattati così bene alla vita on the road che non volevamo fermarci più! Avremmo voluto pubblicare un album molto prima, ma essendo sempre in giro non ci siamo riusciti. In ogni caso non cerchiamo scuse: ora siamo finalmente pronti, e molto soddisfatti.
È anche il primo disco dei Cypress Hill prodotto da dj Muggs in quasi 15 anni.
No, non credo, l’ultimo a cui ha lavorato anche Muggs è stato Till death do us part… Che in effetti è del 2004. Oddio, è già passato così tanto tempo?
Eh sì. Com’è stato ritrovarsi?
Sia chiaro, non è che avessimo smesso di parlarci o roba così: ci conosciamo da quando avevamo quindici anni, perciò siamo sempre stati molto uniti e non ci siamo mai davvero persi di vista. Negli ultimi anni magari ci frequentavamo meno, perché quando si cresce così è la vita, ma per lavorare a quest’album abbiamo ricominciato a vederci più spesso, ed è stato bellissimo.
Il titolo del disco, tra l’altro, è stata un’idea di dj Muggs: leggenda vuole che ve lo abbia proposto dopo aver sognato degli elefanti in acido…
Esatto. Ci piaceva un sacco il nome e l’idea, anche se per ciascuno di noi ha un significato diverso: per Muggs è quello del suo sogno, per me è solo un’immagine pazzesca, un trip folle, che si sposa perfettamente al sound dell’album. Da sempre ci piace differenziarci dagli altri gruppi rap per immaginario e grafiche, perciò scegliamo con molta cura i titoli e le copertine dei nostri dischi.
La tracklist dell’album è lunghissima, ma non – come di questi tempi capita spesso – per acchiappare più play su Spotify: avete inserito un sacco di skit e interlude da poche manciate di secondi, una cosa che facevate spesso nei vostri primissimi dischi. Cosa rappresentano per voi?
Nulla di particolare, in realtà: sono delle note di colore, dei piccoli groove inseriti qua e là che fa piacere ascoltare insieme alle tracce vere e proprie. È una mania di dj Muggs, e ora che è tornato a far parte in pianta stabile del gruppo ha ricominciato a darci dentro.
La traccia in assoluto più visionaria del disco probabilmente è Jesus was a stoner (letteralmente, “Gesù era un fattone”, ndr). Da dove salta fuori l’idea?
Quando siamo in studio a registrare abbiamo una lavagna su cui appuntiamo gli spunti per le varie canzoni: possibili titoli, idee, cazzate… Chiunque abbia un’illuminazione si alza, prende il pennarello e ci scrive sopra qualcosa. Non ricordo chi se ne sia uscito con la frase “Jesus was a stoner”, se B-Real o Muggs, ma un bel giorno sono entrato in studio e l’ho trovata scritta lì, nero su bianco. Era fighissima e assurda, perciò l’abbiamo usata, ovviamente.
Elephants on Acid è una specie di viaggio intorno al mondo attraverso il suono: dipende dagli ultimi anni di incessante tour in giro per i cinque continenti?
Su questo non saprei dirti, ma era proprio così che lo volevamo! Cerchiamo sempre di trovare un approccio nuovo e diverso per ogni album che facciamo. Abbiamo fatto cose prettamente hip hop, progetti crossover, dischi in cui mescolavamo il reggae o la musica latina con il rap… Ci divertiamo a sperimentare e a non ripeterci troppo, pur rimanendo sempre noi stessi. Elephant on Acid assomiglia molto ai nostri primi lavori, ma è aggiornato al 2018.
Quest’anno cadono i trent’anni dalla fondazione del gruppo. Avete in mente di festeggiarli in qualche maniera particolare?
È vero, artisticamente siamo nati nel 1988 – e a pensarci fa un po’ impressione, trent’anni di Cypress Hill! – ma il nostro primo album omonimo è uscito nel 1991, perciò credo che aspetteremo il 2021 per le celebrazioni ufficiali in grande stile. O forse cominceremo già a festeggiare l’anno prossimo, quando ci assegneranno una stella sulla Hollywood Walk of Fame.
Ti sei fatto un’idea di quale sia il segreto della vostra longevità come band?
Non mollare. Credere in se stessi. Non far passare troppo tempo senza rivedersi o rimettersi al lavoro: anche quando trascorrono anni tra un album e l’altro, cerchiamo di riempire le pause con i tour, perché se non vai in tour e non spacchi dal vivo, non puoi definirti parte di una vera band. E restare fedeli alla propria arte: ovviamente crescendo ci si evolve, quindi cambiare idea è lecito, ma non tradire i propri princìpi è fondamentale. Devi nutrire la tua creatività e la tua carriera, allevarla come se fosse una figlia, per essere sicuro che cresca e diventi grande e forte.