Ibrahimovic, il Milan, ‘lo schifaffo’ dei cugini nerazzurri, come dice Ghali, rossonero – «non seguo molto il calcio, ma quelle poche partite che vedo me le vorrei godere». In completo denim rosa, sul retro della giacca, in piccolo, c’è una scritta latina crescit in immensum, motto per certi versi adottabile dalla sua squadra del cuore. Una grande ora caduta? Potrà rialzarsi, chissà. Il giorno fissato per l’intervista è il 14 febbraio, pochi giorni dopo il derby di Milano, ma di nobili sentimenti, almeno con i giornalisti presenti – il caso vuole tutti amici del diavolo pallonaro – c’è poco, pochissimo, spazio. Rispetto alle voci rimbalzate tra gli scribacchini della stampa – “parla poco, è molto chiuso” – Ghali sembra il gemello buono del rapper schivo di cui si parlava in passato: non riesce a stare fermo, continua a rollare sigarette senza fumarle, a girarsi sulla sedia dello studio di registrazione nella sede Warner, ha voglia di parlare.
Venerdì 21 febbraio esce DNA, il disco prova del nove dopo Album, debutto al fulmicotone tra Ninna Nanna, Happy Days o Habibi. Chi è oggi Ghali? Che cosa è rimasto del fenomeno che travolse l’Italia appena due anni fa? Da una parte strattonato da chi voleva gettarlo nel calderone dell’impegno, dall’altra chi lo incoronava alfiere di un pop – comunque politicizzato – del “nuovo che avanza”, delle seconde generazioni, e tutti i girotondi di piazza che suonano Cara Italia. «Dopo quella canzone il pubblico si era fatto di me una certa immagine», racconta il diretto interessato, «un’immagine che sentivo il bisogno di sporcare, per ritrovare il mio volto più arrabbiato, quello che grida “Maledetta Italia”». Se l’avesse detto un paio d’anni fa le sue parole sarebbero diventate una boa su cui edificare piattaforme per appigli elettorali di cartapesta – chi si ricorda il surrealismo Salvini vs Mahmood? –, ora non sono nient’altro che frasi di una pop star che vuole solo fare la sua musica, stanca di dover presentare la carta d’identità prima delle canzoni, peraltro a nessuno interessa più.
Eppure, si chiede il pubblico cui Cara Italia aveva detto tanto, può esistere una popstar le cui canzoni non lascino alcuno strascico nella società? Che cos’è la musica oggi se ignora completamente il discorso politico? Sono domande legittime. Nella grande scatola del chiacchiericcio online, un artista degno di questo nome esiste e allo stesso tempo cade, dipende da quanto riesca a galleggiare nell’onda dell’inutile tumulto. Ecco, inutile. Ghali per fortuna ha capito il colore del filo con cui è stato legato negli ultimi anni da questa cara Italia, grazie a dio liberandosene solo nel mestiere che ha scelto, quello del cantante. Tuttavia pulirsi dal fango costa caro, la polemica è una tentazione facile, la polemica smuove. “Non c’è gloria senza figli di puttana”, canta Ghali in Giù x terra, traccia con cui si apre il nuovo album DNA; “Gli altri mi danno del fallito”, riprende nel brano con cui si chiude il disco, “mostro come sparisce una star, alla gente piacerà”.
Lontano dall’odio, lontano dal cuore: oggi se non hai hater non sei nulla, senza nessuno che ti detesta cadi. Le origini tunisine non fanno più scandalo, i riflettori non hanno più nulla da illuminare, resta la musica, ma quella a chi importa?. “Nell’ultimo anno ho passato forse uno dei momenti più vuoti della mia vita nonostante avessi tutto” scriveva Ghali sui social proprio dopo la caduta inscenata all’Ariston.
Ripartiamo da lì, da quella frase dopo la caduta inscenata a Sanremo
Con il tour nei palazzetti avevo chiuso un cerchio, avevo messo il punto su un lavoro estenuante, di cui anche solo la preparazione era durata mesi. Non sapevo che fare, non volevo stare fermo, mi chiedevo se avessi ancora qualcosa da dire. In DNA ci sono diversi momenti oscuri, figli dei momenti bui che ho vissuto quest’anno. La caduta che ho simulato a Sanremo rappresenta la caduta che tutti noi almeno una volta nella vita proviamo, chiunque tu sia, qualunque cosa faccia. In quel post ho spiegato che quanto andato in onda non era solo una messa in scena, ma una metafora per raccontare una sensazione che ho avuto. Sono il mio primo critico e tutti i miei piccoli errori li ho visti come grandi passi falsi, come una caduta appunto. Mi sentivo caduto di fronte a me stesso.
Nell’ultimo anno, infatti, ti sei allontanato dalle prime pagine. Sentivi il bisogno di ritrovare il tuo spazio privato?
Mi sono voluto allontanare da tutto, allontanare dai meccanismi del successo, quelli che servono per scrivere musica che possa arrivare a tutti. Meccanismi che, allo stesso tempo, mi stavano allontanando dalle fonti che mi avevano spinto al punto in cui sono arrivato: la famiglia, gli amici, i miei valori e le mie abitudini. Ho deciso di stare più con me stesso per trovare un equilibrio.
E ne hai approfittato per fare ‘pulizia’: “infami a sonagli”, canti in Cuore a destra, “la festa è finita e guarda ora tutti se ne vanno via”, ripeti in Fallito.
In quelle canzoni racconto di tutte le persone che in questi tre anni si sono avvicinate a me, le stesse che, appena l’hype si è calmato, sono sparite spacciandomi per morto, andando da chi in quel momento stava avendo più successo di me. È una cosa che succede ovunque ma che a me fa arrabbiare molto.
Fa parte del lato oscuro della fama, altro tema centrale di DNA, tanto che nella title track dici “Il successo è come una droga, va sempre di moda”. Hai avuto paura della celebrità?
Si, ho sempre avuto paura del successo perché è una cosa che ho sempre voluto. È come credere in Babbo Natale per poi scoprire che non esiste: cerchiamo tutti di vivercela bene, di godercela, ma ci sono dinamiche che non puoi far finta di non vivere, cose che ti segnano, che ti influenzano. Dovevo raccontarle. L’amicizia, per esempio, cambia radicalmente con il successo, ti accorgi di chi è veramente lì per te o chi vuole solo avere qualcosa in cambio.
E oggi come convivi con il successo? Hai trovato l’equilibrio che cercavi?
Oggi sto bene, non ho più quelle necessità. Non lo nascondo, economicamente sono in una situazione di prestigio che prima mi sognavo, potrei fermarmi quando voglio, ma ho questo costante bisogno di creare, di continuare a dire la mia. Mi sono sempre chiesto se una volta raggiunto l’obiettivo avrei perso la fame, e mentre il cerchio si stava chiudendo sembrava stesse accadendo esattamente questo. È stato in quel momento che ho sentito la necessità di nuove ambizioni, ma sapevo di dover rimanere solo con me stesso per trovarle. I momenti lontani dai riflettori sono stati importanti, avevo bisogno di staccare da tutto, di tornare a vivere, avevo bisogno di viaggiare.
Ed è per questo che hai registrato DNA in giro per il mondo.
Dopo il tour ho deciso di partire, un viaggio durato quasi otto mesi: ho girato l’Europa, sono in andato in America, in Africa. Sono stato in studi leggendari, dove hanno registrato artisti come Beyoncé o Michael Jackson, affiancato da produttori prima per me inimmaginabili. Ogni paese mi ha dato una sensazione, stimoli diversi, mi sono sentito a casa ovunque ed è incredibile come sia riuscito a farmi capire senza bisogno di parlare la stessa lingua. Alla fine mi sono trovato a montare strumentali prodotte a Los Angeles con strofe registrate a Rio De Janeiro o a Parigi. DNA è un collage di tutto il viaggio, ma per chiuderlo avevo bisogno di tornare a casa.
Ritorno a casa che, inevitabilmente, significa tornare anche al proprio passato, grande protagonista del disco. Che rapporto hai oggi con la tua storia?
Il mio è un passato che non riesco a lasciarmi indietro, verso cui continuo a voltarmi. La mia storia mi ha segnato profondamente e non riesco a lasciarmela alle spalle, forse non è neanche il momento, soprattutto perché ho sempre più la consapevolezza che è proprio quello che ho vissuto che mi ha portato fin qui e che ancora mi aiuta a fare musica nel modo migliore, nel modo che ho sempre voluto.
Storia di cui una delle protagoniste è stata tua madre, con cui fino a qualche anno fa dormivi nella stessa stanza. Ora che le hai comprato casa, e che non vivete più insieme, com’è cambiato il vostro rapporto?
Sempre lo stesso, finalmente ha smesso di fare il suo vecchio lavoro e mi sta più accanto, lavora con me. Ora però mi chiedo se lavorando insieme a me sia davvero più tranquilla di prima, se l’ambiente della musica sia davvero più leggero dal lavoro che faceva prima. Nonostante ciò il rapporto con lei è sempre più forte.
In Flashback, poi, torna anche tuo padre, lontano da quando sei bambino. Vi siete risentiti dopo l’uscita di Album?
È una storia complicata. Lui ha tentato di riavvicinarsi, ma io non ero convinto perché mi ha cercato solo nel momento in cui le cose hanno iniziato a prendere una bella piega. Il rapporto con lui rimane sempre quello, non so se un giorno si sistemerà. In Flashback, appunto, parlo di immagini del passato, è un brano in cui mi guardo tanto indietro, ed era inevitabile che tornasse fuori anche lui. Non so se in un futuro ci ricongiungeremo, quando penso a lui non riesco a fare ragionamenti, non riesco a immaginarmi niente.
Sempre nella stessa canzone dici “intervistatori mi chiedono ius soli”. Sembri rivolgerti ai giornalisti che volevano farti partecipare a tutti i costi al discorso politico.
Partiamo dal presupposto che io di politica non me ne intendo, quello che dico nelle mie canzoni è solo un pensiero, un’idea che ho nel momento in cui vedo i politici che non vanno al centro del problema. Io mi chiedo se certe persone la pensino così veramente, se quando sono a casa, con i loro figli, raccontano le stesse cose di cui parlano in pubblico. Per questo nella mia musica, ogni tanto, ho cercato di toccare certi temi, ma senza mai voler parlare esplicitamente di politica. I miei sono discorsi più di civiltà, civiltà che dovrebbe essere alla base della politica, il passo prima.
Come in Cara Italia, che definivi una canzone rivolta “a chi ci comanda”, un brano con cui smuovere le coscienze ma che, tuttavia, “non è servito a niente”. Vedendo lo scenario in cui continuiamo a vivere oggi, ti è rimasta un po’ di delusione?
Un po’ si, ma era scontato. Lo sanno tutti, con la musica non si fanno rivoluzioni. Puoi cercare di far ragionare le persone, di influenzarle, ma credo sia meglio partire da chi ti sta accanto piuttosto che da chi ci guarda dall’alto e “non vuole scendere a giocare con noi”, come cantavo in I Love You.
Il tema dell’integrazione ritorna anche in DNA, ad esempio in Jennifer.
Quella canzone racconta della famiglia di una ragazza che non riesce ad accettare che la figlia frequenti un ragazzo di origini arabe, quel ragazzo sono io. Da ragazzino corteggiavo questa ragazza ‘occidentale’ e mi è capitato di essere discriminato, almeno all’inizio. Poi sono riuscito a far cambiare idea alla sua famiglia.
Senti ancora diffidenza nei tuoi confronti?
No, ora non la sento più. Almeno non nella musica.