La fabbrica di plastica era uscito da poco quando Gianluca Grignani incrociò Dario Vergassola nello studio di un avvocato. Dopo il primo scambio ironico – «ti facevo più bello», «e io ti facevo più alto» – il comico disse una cosa che Grignani ancora ricorda con piacere e che in qualche modo esprime lo spirito che stava dietro a quelle canzoni: «Se quest’album avrà successo sarà una rivoluzione culturale».
È stata una rivoluzione mancata. Annunciato da una canzone in cui Grignani si descriveva in fuga dalla catena di montaggio del pop che l’aveva reso benestante e famoso, La fabbrica di plastica segnava una svolta improvvisa e violenta per uno che all’epoca era considerato un bello per ragazzine e invece era un musicista con tante idee per la testa, alcune dirompenti per lo standard del pop italiano del 1996. Lui pensava ai Beatles, ai Radiohead, l’industria lo voleva teen idol. Fabbrica era una rivendicazione di autonomia portata alle estreme conseguenze, fino ai limiti del masochismo. Era anche un album dal suono per certi versi sbagliato.
Fabbrica è stato un flop. Non artistico, ma commerciale se confrontato al boom di vendite dell’album precedente di Grignani, il debutto Destinazione paradiso. E però questo disco nervoso ed elettrico, a suo modo visionario e slabbrato, pieno di fantasia, scarti di lato e un gran senso per la melodia, con dentro un’idea di musica internazionale più che nostrana, s’è fatto nel corso degli anni la fama di capolavoro derelitto della musica italiana.
Ora che sono passati 25 anni dalla pubblicazione vale la pena ripercorrere con Grignani la storia bella e per certi versi dolorosa dell’album che è stato da poco ristampato in vinile, rientrando in classifica, e che il 29 gennaio 2022 il musicista suonerà per intero, dalla prima all’ultima traccia, al Forum di Assago. «Chi non mi ha mai visto dal vivo resterà scioccato dalla mia presenza scenica. Chi mi conosce sa che sarà un’esperienza forte e che porterò sul palco i miei personaggi, dal Joker all’omino di La fabbrica di plastica modellato su Arancia meccanica. Perché alla fine quel disco era un concept anche se all’epoca non me ne rendevo conto. È un grido contro la società, contro la cultura dominante, contro la religione. Anzi, non è contro: è la visione di un ragazzo».
Quand’è nata l’idea di rifare Plastica?
Te lo voglio raccontare bene perché è importante. Tre anni fa venivo da un momento particolare, avevo i miei cazzi, mi sentivo attaccato da tutti. Non sono un santo, tutt’altro, ma sono astemio e mi è capitato di bere e, come dirla, di cadere nell’oblio. Fatto sta che una mattina mi son svegliato e con la testa ancora sul cuscino ho aperto l’occhio sinistro e ho deciso di partire in tour. Da solo. Mi sono accorto che la gente mi seguiva da tante cose, anche dai due milioni e passa di ascoltatori mensili su Spotify.
Hai capito che avevi ancora un pubblico, insomma.
Da ragazzo non ero pronto per il pubblico oppure era il pubblico che non era pronto per me. Ma ho avuto la fortuna di averlo, quel pubblico, e ogni volta mi ha aiutato a tirarmi su. E allora mi sono detto: è il momento giusto per riprendere. Sono partito dalle spiagge e alla fine ho suonato di fronte a 3500 paganti venuti solo grazie a Facebook. È stato un risveglio.
Che ha portato all’idea di celebrare Fabbrica.
Mi sembra che in questi 25 anni quell’album abbia guadagnato un pubblico enorme, anche come stima… tant’è che sembra che non sia neanche mio questo disco (ride).
Tornando a venticinque anni fa, il tuo fu un vero atto di ribellione. È vero che hai capito che Destinazione paradiso non ti soddisfaceva del tutto durante un viaggio a Roma, sulla Seat di tua madre? Stavi andando a una puntata di Non è la Rai, hai risentito il disco e hai capito che non ti rappresentava.
In realtà stavo tornando da Ambra, avevo avuto un incontro con quelli di Non è la Rai. Era un album bellissimo, ma c’erano solo tre, quattro pezzi che mi piacevano: Primo treno per Marte, Falco a metà, Destinazione paradiso, Tanto tempo fa, forse anche Come fai?. E La mia storia tra le dita, che però era già una canzone di tutti, non era neanche più mia.
Eri giovane e avevi fatto l’album con poca consapevolezza?
Forse non accettavo nemmeno di essere un artista. Mi ricordo i primi segni della popolarità, la gente mi riconosceva al benzinaio e io pensavo «ma che cazzo vuoi?». E un po’ forse sono ancora così. Ero un ragazzino e tutte le persone che mi circondavano cercano di ricavare il massimo da me. Loro tiravano da una parte, io dall’altra. Volevano che a Sanremo portassi Una donna così. Mi impuntai e dissi che portavo Destinazione paradiso oppure non ci andavo proprio. I giornali scrivevano che ero di destra perché mio nonno era stato in Abissinia, cose così, assurde. Un giorno ho detto basta e il mio atteggiamento nei confronti della musica è diventato completamente diverso.
Sei uscito dalla fabbrica di plastica, appunto. Quando hai concepito questa svolta avevi dei complici, qualcuno con cui parlare, con cui condividere piani e pensieri?
Assolutamente no. Avevo detrattori anche dentro la casa discografica. Persino il produttore Massimo Luca non voleva fare La fabbrica di plastica ed è stato tutto il tempo a guardare, avrà fatto tipo una chitarra su Fanny e basta. Aveva trovato una fidanzata nuova. Sai com’è, no? L’artista ha successo: arrivano soldi e figa. Io avevo chiesto di lavorare con un produttore straniero. Volevo John Leckie che aveva prodotto The Bends che è ancora il mio disco preferito dei Radiohead e che mi aveva flashato per l’uso delle chitarre molto ritmico, quasi da batteria.
La tua casa discografica, la PolyGram, disse di no perché costava troppo?
Ma no, con tutti i soldi che aveva fatto Destinazione, non credo. Non l’hanno chiamato perché non volevano che facessi il disco come lo volevo io. Solo Naco, il percussionista che poi è morto in un incidente stradale, mi disse che stavo facendo un disco della madonna.
Le chitarre le hai fatte quasi tutte tu?
Dicevo io a Massimo Varini che fare. E lui che è un bravissimo chitarrista mi guardava male. Alla fine ho montato le mie chitarre con le sue. La mia conoscenza dello strumento è nata lì. Ero giovane e facevo cose per me difficili, oggi posso suonare come allora, però meglio. Contavano l’intenzione, il mondo sonoro. Che stavo facendo qualcosa di buono lo capii anche grazie a Lucio Dalla che mi disse: «Guarda che sei un chitarrista della madonna, vedrai che se ne accorgeranno tutti».
Che musica ascoltavi mentre facevi il disco?
Sentivo solo una cassetta. Avevo registrato pezzi del White Album dei Beatles. Non le canzoni intere, ma frammenti montati uno dietro l’altro skippando a caso da una canzone all’altra. Non ascoltavo altro, non chiedermi perché, non lo so.
La fabbrica di plastica aveva un suono assurdo, compresso, per certi versi sbagliato.
Non è sbagliato. Se lo ascolti in radio fa cagare, ma se lo ascolti su uno stereo è una bomba. Il problema è che è stato registrato in controfase. Significa che le frequenze dei vari strumenti si annullano. Immagina la frequenze come linee che si alzano e si abbassano. Quando queste linee si incontrano, la fase fa sì che le frequenze non si annullino. Per un errore tecnico, Plastica venne fatto in controfase. Fammi dire una cosa però…
Dilla.
Fabbrica era l’espressione totale di un ragazzo. Era il grido di un ragazzo che altrimenti nessuno avrebbe ascoltato. È un disco con una visione sonora molto precisa. Ho sempre avuto orecchio per il suono, solo che allora non sapevo molte cose e facevo tutto d’istinto. Questa cosa mi ha aiutato a creare un suono assoluto. La registrazione è sbagliata, ma il disco è innovativo. Se ce l’hai dentro, vai dritto per la tua strada e non te ne frega niente.
Poi lo avete masterizzato ad Abbey Road.
Sì, lo fece Chris Blair, che poverino è morto di leucemia. Lui aveva masterizzato tutta la musica inglese più importante, dai Beatles agli Oasis ai Radiohead. Un giorno ero in studio con lui e con Greg Walsh, con cui avevo registrato e che continuava a rompere i coglioni. E Chris, che forse era già malato e si poteva permettere di essere sincero al 100%, gli disse: «Bastardo del cazzo, il ragazzo sa quel che sta facendo, questo disco in Inghilterra sarebbe al numero uno». Finalmente qualcuno mi cagava. Mi aiutò a migliorare il disco che avevo mixato io. Nelle note di copertina c’è scritto che l’ha mixato Maks Lepore, che era un amico, ma l’ho fatto io e non ero granché capace. Poi sono partito per il Sud America a fare promozione un po’ a modo mio.
E intanto Fabbrica era lì.
Ai tempi c’era il DAT, la cassetta digitale. Lo ascoltavo continuamente, lo trovavo acido, difficile. Sapevo che non avrebbe avuto un successo immediato, ma non potevo farci niente: più lo ascoltavo e più mi piaceva.
Da quello che dici sembra la storia di un ragazzo solo contro tutti. Avevi 23, 24 anni, un mondo di suoni nella testa e intanto le persone che ti circondavano remavano contro. Non ti pesava questa solitudine?
Ho imparato a stare da solo fin da ragazzo. Ero un tipo che stava isolato, ma ogni tanto aveva degli exploit, un po’ come mi succede sul palco. O ero un leader o non ero nessuno. Di conseguenza non era un sacrificio stare da solo.
E non venivano in studio quelli della PolyGram?
No. Venne una volta Stefano Senardi (l’allora presidente dell’etichetta, nda), che è un amico. Gli feci ascoltare Rok Star con la chitarrina e basta. Il problema è che non facevano promozione. Allora andai una mattina presto in PolyGram, ricordo che c’erano ancora le donne delle pulizie, e misi gli adesivi di Fabbrica su tutti i vetri. Vicino all’ingresso scrissi sul muro “Gianluca” con la A cerchiata degli anarchici, in modo che lo vedessero tutti. E piazzai un cartonato di Fabbrica sulla scrivania di Andrea Rosi (oggi presidente di Sony Music Italia, ndr). Ero un ragazzino solo, non avevo aiuto dai miei genitori e quelli della casa discografia avevano un atteggiamento ipocrita. Se devo qualcosa lo devo al pubblico perché dagli altri non ho mai avuto un cazzo di niente. A volte mi chiedo: Gian, come hai fatto a fare tutto da solo?
Ci sarà stato un lato positivo a stare dentro la fabbrica di plastica, no?
C’era, ma non lo comprendevo. C’erano colleghi, che non voglio nominare perché non mi frega un cazzo e non sono rancoroso, che dicevano che sotto le 300 mila copie era un insuccesso. Fabbrica doveva uscire per un artista grosso internazionale. Mi disse che, visto che aveva venduto solo 80 mila copie, era un flop. Gli dissi: io faccio musica, tu fai saponette.
Eddai, col successo saranno arrivate le ragazze e i soldi.
Mai avuto problemi a cercare le donne e di diventare ricco non m’interessava.
Un po’ di soldi saranno arrivati col primo disco, no?
Il primo contratto che feci con la PolyGram era un contratto capestro, che poi difatti anni dopo è stato rivisto. Mi hanno dato un minimo garantito di 800 milioni di lire, che è una bella cifra, ma dal secondo disco. Dal primo non ho visto niente. Il primo assegno che vidi arrivò dalla Siae: 300 milioni di lire per il primo album, che era tantissimo.
Non hai perso la testa, a quell’età?
Ti giuro no. Usavo i soldi per viaggiare, ma intanto la commercialista faceva investimenti sbagliati coi quali è andata via metà dei soldi che avevo guadagnato. E poi le tasse: pagavo prima di incassare.
C’erano leccaculo e approfittatori che ti avvicinavano?
Erano quasi tutti così e per me era difficile distinguerli e perciò non mi fidavo di nessuno. L’errore che hanno fatto è stato pensare che fossi ingenuo per via della faccia carina e dell’età. Pensavano che a un certo punto avrei mollato, che non avrei insistito per diventare quel che volevo essere. Loro volevano fare i soldi sfruttandomi al massimo.
Ma non avevi un manager a proteggerti?
Macché, ero seguito da un avvocato, che lasciamo stare, guarda. Mi consigliò un amico suo che non faceva una mazza ed era al soldo della casa discografica. Se non altro era un appassionato di musica e mi fece conoscere certi dischi dei Cream o dei Grateful Dead. Ma era un continuo staccare assegni. Questa era la gente che mi girava attorno.
Una volta mi hai detto che non facevi concerti perché sapevi che dal vivo non eri all’altezza delle canzoni che avevo scritto.
Era un po’ una scusa. Avrei potuto fare un concerto acustico. Una volta andai a vedere Pino Daniele, c’era anche Eric Clapton quel giorno. Ero in tribuna e partì il coro che usava all’epoca: «sceeemo sceeemo!». C’erano due fazioni: chi diceva che ero Jim Morrison e chi diceva che non ero un cazzo. Io non mi sentivo né l’una, né l’altra cosa. Ci rimasi un po’ male, ma di apparire non mi fregava una mazza.
Ecco, apparire. Nel 1995 eri il ragazzo più figo della musica italiana. Fabbrica è stato anche un atto di autosabotaggio da quel punto di vista, no?
E la gente godeva.
Addirittura?
Non è stata fatta volutamente promozione. Volevano che fallissi, forse perché avevo tutto quello che non dovevo avere e che loro desideravano.
Potevi diventare il nuovo Vasco.
Lui il numero uno, ma non ho voluto. Avevo persino paura di muovermi sul palco per non essere paragonato a Vasco, perché mi muovo un po’ da orso come lui, per cui mi esibivo con la chitarra. Mi sono detto: un giorno diventerò quello che sono.
Ho qui il CD di Fabbrica: non c’è una tua foto in copertina e nemmeno dentro. La cover è tipo carta da pacchi e la si intravede sotto la plastica gialla fumé della confezione. Idea tua, immagino.
Volevo che la copertina di ogni copia fosse diversa dall’altra. La casa discografica diceva che non si poteva: «Basta Grignani, hai rotto i coglioni!». Ma da contratto potevo decidere io. Volevo capire come funzionava ed essendo da solo, ma solo davvero, andai io nella fabbrica dove si facevano i CD, non ricordo più esattamente dove, dalle parti di Vimercate. Vidi che le plastiche dei CD le facevano buttando dentro una macchina dei pallini. Ne presi un po’ di un colore e un po’ di un altro, mi pare azzurri e verdi, e vennero fuori queste plastiche gialle con striature nere, una diversa dall’altra, pezzi unici. Quelli della fabbrica dissero alla Universal che costavano di più, ma non era vero, era uguale. Fatto sta che non stamparono tutte le copie così, ma solo, si fa per dire, 60 mila.
Interessante che una storia di autodeterminazione come La fabbrica di plastica si chiuda con una canzone che dice che sei il peggior nemico di te stesso.
Qualcuno mi disse che ero un esistenzialista. Amavo leggere, ma non sapevo granché degli esistenzialisti. Col tempo ho capito che avevano ragione. La fabbrica di plastica è un disco un po’ esistenzialista e un po’ psichedelico che grida: il mondo non è come dite voi.
Ricordi quanto ha venduto Destinazione paradiso e quanto Fabbrica?
Ai tempi Destinazione paradiso un milione e mezzo credo e Fabbrica 80 mila, anche se poi ha continuato a vendere. Fu un insuccesso annunciato. Volevano che fallissi. Ricordo il modo in cui Gerry Scotti, che è un amico ed è un bel tipo, disse che il disco era sceso al dodicesimo posto della classifica. Era come se stesse dicendo: «Lo so che volete questo».
Riecco la solitudine.
La solitudine di un numero primo. Di uno che diceva cose che gli altri non dicevano ancora. Oggi questo tipo di mentalità indipendente verrebbe compresa, all’epoca no. Ai media poi piaceva raccontare il mio fallimento. Io lo so che non avevo trattato bene i media, ma solo perché ero timido. Non riuscivo a esprimermi come volevo e quindi prendevo e me ne andavo. Non lo facevo apposta, non volevo mancare di rispetto alle persone, quando l’ho capito mi è dispiaciuto.
Ma tu lo sapevi già prima che uscisse che Fabbrica non sarebbe andato bene?
Sapevo che in Italia le radio non l’avrebbero passato, eppure l’ho fatto lo stesso. Mi importava solo fare musica. Mi sarei ammazzato pur di fare musica, ma nonostante questo ho scelto di seguire la mia linea, diciamo così, la cultura. Ricordo un giorno mentre incidevo La fabbrica di plastica, in studio a luci spente solo col bagliore delle spie, mi sono detto: lo sai vero che se fai questo disco forse non potrai fare più questo lavoro? Mi sono risposto: lo devo fare lo stesso questo disco, perché ancora non c’è. Ho fatto una cosa che prima non esisteva. Mi chiedevo: perché all’estero fanno dischi così e in Italia no?
La cosa clamorosa è che l’ha fatto non uno che veniva dall’underground, ma dal mainstream.
Esatto, non l’hanno fatto i C.S.I. Ma io ero così, erano gli altri che mi vedevano in modo diverso. E allora mi infilai con la testa, coi piedi con l’anima nel rock, quello di cui avevo sentito parlare.
Dimmi di questa fase rock’n’roll.
È arrivata dopo Destinazione paradiso, quando ho voluto capire che cos’era il rock’n’roll. Mi sono buttato a capofitto in droghe, donne, viaggi, follie. Ma non con la Mercedes e l’autista, ma girando il mondo. Quello che veniva veniva. Sì, qualche volta mi trattavo bene, quando mi ricordavo che avevo i soldi in banca, ma l’unica cosa che mi importava era andare. Quando sono stato in Sud America a fare promozione quelle della casa discografica erano per lo più donne e si innamoravano di me. In ogni Paese la stessa cosa: Perù, Messico… Poi mi dicevano: «Cosa hai combinato? Quella adesso vuole venire a trovarti». E io: «Oh no, no…». In Argentina c’era questa tipa della casa discografica, non mi piaceva neanche tanto, ma mi piaceva l’idea di vita rock’n’roll e mi ci sono rotolato dentro, diciamo così. Ho toccato il fondo di alcune cose. Ma neanche troppo: il fondo non esiste se sai scavare bene (ride).
Diciamo che hai voluto, ehm, testare il personale delle filiali della PolyGram…
Ah, adesso ti dico una cosa seria. Andai a Londra per fare delle audizioni con dei batteristi. Il presidente di allora della PolyGram lì a Londra chiese di incontrami. Non mi aspettavo granché, ero scontroso perché tutti volevano qualcosa da me, il disco non stava andando bene in Italia: che voleva? Ricordo un ufficio enorme, tipo quello del megadirettore galattico di Fantozzi. Mi disse che sfondare in Europa era difficile e che non importava che non stesse andando in Italia, che era un bel disco. E soprattutto disse che Bono degli U2 aveva sentito La fabbrica di plastica e gli era piaciuto. E io che a volte mi chiedevo se avevo fatto la cosa giusta capii che sì, l’avevo fatta.
Dimmi della Giamaica.
Con la A&R dell’Argentina sono volato in Giamaica, poi in Australia. Così, su due piedi, non era programmato. Mi ero rotto le balle.
Ma stavi facendo promozione, no? E i discografici italiani che erano con te che dissero?
Erano sempre fuori come una mina. Erano talmente rincoglioniti che quella mattina neanche si sono accorti che ero andato via.
Ora come vedi La fabbrica di plastica?
Come una palla di neve che rotolando si è ingrossata. Oggi ci credo più di quanto ci abbia mai creduto. Sono una persona diversa, sono più sgamato, ma ho ancora voglia di fare quella musica lì. Non so cosa avesse il ragazzo che ha fatto La fabbrica di plastica, forse aveva poco nel cervello o forse troppo. So che merita il successo che il disco ha oggi, perché so che cosa ha passato quel ragazzo lì. Ho aspettato 25 anni perché venisse riconosciuta la forza di questo disco.
È restato.
Non solo è restato: ha dimostrato. Vuol dire che alla fine Vergassola aveva ragione.