Ma certo che me lo fa vedere. Toglie la giacca, distende il braccio destro e mostra un tatuaggio. È una scritta, dice: “Ricordati di volerti bene”. Se l’è fatta sette anni fa. Chi gliel’ha tatuata e in quali circostanze non lo vuol dire. Si capisce che dietro c’è una storia tormentata, forse molto brutta. Gianluca Grignani mi spiegherà poi che il tatuaggio ha a che fare con la tendenza a curarsi più degli altri che di sé, ma “ricordati di volerti bene” è anche un’esortazione perfetta per uno come lui che ha vissuto tanto e ha pagato molto: il successo poco più che ventenne, il desiderio di seguire un ideale di purezza molto rock, cazzate ed errori, alti e bassi che ne hanno fatalmente definito l’immagine pubblica. Nel frattempo, e lo spiega in quest’intervista, è finito in un brutto giro da cui è fortunatamente uscito. Dice d’essere «mezzo astemio» e ridimensiona l’uso di droga che ha fatto. E soprattutto non vuole essere definito da tutto ciò. Sono anni che cerca di far capire che c’è una cosa più importante: la musica come vocazione.
Prima di rischiare d’essere martirizzato dall’industria del disco e trasformato ai tempi del primo album in un teen idol innocuo, Grignani ha compiuto un folle e magnifico atto d’insubordinazione ed è fuggito dalla fabbrica di plastica, fregandosene delle conseguenze e anche un po’ fregandosi da sé, una delle cose più rock che abbia fatto un cantante italiano popolare negli ultimi trent’anni. Ha seguito caparbiamente la sua vocazione scrivendo canzoni grandi e minori, alcune somiglianti ad apologie e altre a confessioni. In quel che ha fatto ci ha messo passione e follia, che guarda caso è la parola scritta sulla felpa che indossa oggi. È stato ed è molto amato, ma anche trasformato in una specie di meme su internet e spesso giudicato. Mentre altri seguivano docilmente il copione che veniva loro fornito, lui improvvisava e straviveva e imparava lezioni a sue spese, anche volendosi male. È stato esagerato, sopra le righe, fragile, fuori dai protocolli, ma anche determinato nel far le cose a modo suo.
Fra pochi giorni sarà a Sanremo con una canzone, Quando ti manca il fiato, che parla del rapporto col padre, ma anche di noi, dei momenti in cui capiamo la natura terrena e spietata della vita, forse anche del nostro desiderio di pacificarci con tutto. Chi l’ha amato ne riconoscerà lo stile, calato però in un contesto sonoro differente. Sul set di Rolling offre suggerimenti alla fotografa Ana Marti in un misto d’italiano, inglese e spagnolo. Si dà con generosità. A un certo punto si gira e mi dice che «ho imparato che se m’impegno al massimo riesco a finire le cose velocemente. Non i concerti, quelli ogni tanto non li finisco proprio».
È con questo spirito ironico (e autoironico, una dote che raramente gli viene riconosciuta e che è invece importante per capirlo) che l’abbiamo immaginato, anzi che lo dichiariamo qui santo protettore del rock’n’roll. Nel nome di Hendrix che gli è apparso in sogno offrendogli una canna, di Kurt Cobain che gli ha trasmesso il disdegno dei compromessi e di Fabrizio De André che ha insegnato a lui e a tutti noi a non giudicare il prossimo e a stare alla larga dai moralismi, perché c’è ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore.
Quando ti manca il fiato parte da una telefonata. Tuo padre, che non vedi da anni, ti chiama e ti chiede: «ma tu ci verrai al mio funerale, Gianluca»?
È successo una decina d’anni fa. La canzone l’ho buttata giù di getto a quell’epoca e l’ho poi rivisitata dal punto di vista armonico. Ho rivisto anche il testo. Non mi bastava più raccontare la storia di mio padre, volevo parlare di me e delle volte in cui ci rendiamo conto di cos’è veramente la vita.
Sono quelli i momenti in cui ti manca il fiato?
Sì, a me è successo a 5 anni, quando mio padre m’ha spiegato cos’è la morte.
È una canzone che parte dal particolare e va verso l’universale, e musicalmente continua a crescere.
È anzitutto una canzone che non ha una morale. Volevamo, io ed Enrico Melozzi, fare in modo che non ti desse il tempo di pensare, ma solo di provare emozioni. Facci caso, cambia anche di velocità, per creare tensione. La prima versione era da opera rock e spero di metterla nel disco che uscirà. Però non mi convinceva, era drammatizzata, sembrava pucciniana, io con la chitarra e lui con gli archi avevamo esagerato.
L’hai fatta sentire a tuo padre?
Non ancora. Vive in Ungheria e non lo vedo da una decina di anni. Ma gliela farò sentire prima di Sanremo. Secondo me sarà contento. Ho un bel rapporto con mio padre. È una canzone di redenzione.
Come ti sei trovato nei panni del santo rock’n’roll?
Bene. Mi auguro che venga fuori, oltre al fatto mi prendo in giro, anche questa dicotomia tra rock e santità.
Del resto quando facevi le elementari volevi diventare prete.
Forse mi aveva coinvolto la storia di Gesù. Non voglio essere blasfemo, ma è stata la più grande rockstar mai esistita. Mia nonna mi regalò una specie di kit per il bravo prete. Forse perché ero e sono ancora un buono.
Anche il rock del resto ha una sua vocazione.
Che è la coerenza.
Una volta m’hai detto che quando avevi 20, 25 anni ti saresti ammazzato pur di fare musica.
Forse ammazzato no, però l’idea di farla era un’ossessione. La mia grande paura era non essere accettato dalla gente, cosa che in parte è successa quando al posto di fare un altro Destinazione paradiso ho fatto La fabbrica di plastica. Ho faticato molto a superare il timore di salire sul palco e scoprire di non essere accettato. E perciò se a volte reagisco in modo forte è perché ho dovuto crearmi degli anticorpi verso chi non tollera quel che faccio. Come dice la canzone che porto a Sanremo, ho rispetto solo per chi giudica se stesso. È un concetto molto da strada. È una cosa che ho rivissuto quando ho superato i 30 anni e mi sono buttato di nuovo in mezzo alla strada da dove venivo quand’ero ragazzo.
In che senso ti sei buttato di nuovo in mezzo alla strada?
Non ti dico cos’è successo esattamente, diciamo che è successo di tutto nella mia vita, ti dico solo che a un certo punto mi chiamavano Highlander. Avrò avuto 35 anni. Non l’ho scelto, ma mi sono trovato per motivi che è meglio non dire a frequentare in maniera intensa gente che vive di quel che succede sulla strada. Parlo di cose che non sono sempre legali. Ti confronti con gente abbastanza tosta. Ci sono state situazioni in cui ho dovuto difendermi, anche fisicamente. Vivevo come uno che non aveva niente da perdere ed è una cosa che non si fa.
E quindi Gianluca Grignani, che era già andato a Sanremo, che era un cantante pop famoso, s’è messo a frequentare questa gente qua.
Ma io son pazzo infatti. E ti assicuro che farlo a 35 anni e chiamarsi Gianluca Grignani è stato durissimo. Quando mi rompevano i coglioni me li rompevano veramente e io non potevo lasciar perdere.
Come sei finito in quella situazione?
Quando avevo 14 anni, a Precotto, frequentavo gente più grande di me e quindi venivo bullizzato. Ed essere bullizzato in mezzo alla strada non è come essere bullizzato a scuola, è molto peggio. L’ho sofferta questa cosa. E quindi superati i 30 anni ho voluto vedere se ero in grado di reagire come non avevo reagito da ragazzo. Sono uno che ha bisogno di vincere, ma non con gli altri, con me stesso. E quindi mi sono messo alla prova con questa gente. Ho sbagliato, perché mi sono trovato in situazioni toste, però ne avevo bisogno. M’ha dato la possibilità di riscattare mentalmente me stesso e darmi la sicurezza che cercavo.
Quand’è finita?
Non repentinamente, ma piano piano, quando ho capito che oltre non potevo andare, che stavo andando in una direzione che non era la mia, che fingevo di essere quello che non ero, che non volevo più trovarmi in situazioni difficili. Che fosse un modo per mettermi alla prova l’ho capito verso i 45 anni, quando mi sono ritirato per fare i tre album che voglio pubblicare. Per certi aspetti ero tornato ragazzino. Ho vissuto. Andare oltre non sarebbe stata più una prova con me stesso, sarebbe stata stupidità. La fortuna m’ha aiutato. E poi avevo dei figli, delle responsabilità.
Tornando indietro al periodo del tuo successo, nel libro La mia storia tra le dita scrivi che l’immagine di problematico, ribelle, drogato, maledetto e selvaggio ti è stata disegnata addosso e tu in qualche modo l’hai abbracciata. Che cosa intendi dire?
Che l’ho fatto apposta. Ero incazzato e per distruggere l’immagine che mi era stata appiccicata addosso, quella del bel ragazzino che non bisognava prendere sul serio, ho esagerato. Volevo far capire che non ero uno dei Take That. È il periodo in cui ho fatto Fabbrica di plastica.
E l’immagine del ribelle maledetto?
Era credibile perché in parte ero effettivamente così. E oggi negli occhi di certi artisti amici che vanno primi in classifica, di cui non posso farti i nomi, leggo la stessa paura che avevo io. Non si sentono adatti, che è una cosa tipica degli artisti. Essere artista è un cazzo di problema. Lo diceva Lucio Dalla: la libertà è un lavoro.
A quell’epoca avevi il desiderio di provare tutto…
Quasi tutto. Ma avevo anche la paura di provare, sai. La mia grande fortuna è che sono sì uno sperimentatore, ma non sono mai andato oltre, da dove non torni più indietro. E mai lo farò.
Di quali droghe stiamo parlando?
Ad esempio la cocaina, ma ne ho provate tante. Non ho mai provato l’eroina in vena e non la proverò mai. Però non mi sono mai dedicato alla cultura della droga, è la droga che è entrata a far parte della mia vita. Io non ho mai nascosto niente, ma non mi piace neanche esprimermi pubblicamente a riguardo perché facendolo la pubblicizzerei. Non sono come quelli che ci costruiscono su un’immagine. Ognuno decida di fare quel che vuole, ma io questa roba non la pubblicizzo.
Non ne parli nemmeno in termini moralistici.
Non do alla droga tutta questa importanza. La conosco abbastanza da sapere che non è il caso di farle pubblicità. Rispetto chi la consuma e chi non la consuma. Non è un argomento che trovo interessante. Che si dica che mi drogo o non mi drogo, non me ne frega niente, perché sono un musicista e ho dimostrato col tempo chi sono.
E l’alcol?
La gente pensa che bevo tantissimo e invece bevo pochissimo perché mi ubriaco facilmente.
C’è stato però un periodo in cui hai esagerato, no?
Sì, non reggo tanto e non lo accettavo. Ma non sono mai stato succube della bottiglia, non esiste. Oggi sono mezzo astemio. Smettere di bere non è stato difficile, è stata una liberazione. Quando invece bevevo non lo reggevo. Quando sono andato in tv ubriaco ci ho messo tre giorni a tornare in me. L’anno dopo mi hanno chiesto di tornare a fare il capodanno il tv, ma ho detto di no.
Non pensi che questa immagine di cavallo pazzo, di tipo imprevedibile ti abbia molto danneggiato?
È vero, sono imprevedibile, potrei anche alzarmi adesso e abbandonare l’intervista se me lo dicesse la testa, ma non mi danneggia più niente. Ascolta: non me ne frega veramente un cazzo. So gestire la mia persona e quel che succede fuori e dentro di me, perché sono passato attraverso le gambe del diavolo. Mi hanno detto di tutto, ma io sono qua. Il sano menefreghismo è l’unica cosa che permette a un artista di andare avanti. Tu pensi che a Picasso fottesse qualcosa quando gli dicevano che Guernica era orribile?
Di nuovo sul set. Mentre la fotografa controlla sul portatile la resa delle immagini che ha appena scattato, Grignani inizia a suonare un blues alla chitarra elettrica. Sembra stia cazzeggiando per riempire la pausa, del resto la Fender non è attaccata a un ampli, ne esce un suono flebile. Nel giro di poche battute quel blues diventa La fabbrica di plastica, che Gianluca si mette a cantare con passione, manco fosse di fronte a migliaia di persone. «Devo qualcosa a Rolling Stone», dice. «Una decina d’anni fa Rolling fece un sondaggio chiedendo ai lettori qual era il miglior brano rock italiano di sempre. C’erano Vasco, i Litfiba e altri, ma vinse La fabbrica di plastica. È stata la prima volta in cui qualcuno che non fosse il pubblico ha riconosciuto la mia importanza».
Grignani tira fuori spesso questa cosa del valore che gli viene finalmente attribuito. A riconoscergli l’importanza che merita sono anche artisti più giovani che vedono in lui non solo l’autore di grandi canzoni, ma anche uno spirito affine, uno che ha avuto fame di vivere e conosce le leggi della strada. Tutte cose che Grignani porta sul corpo da cinquantenne (si vedano i dettagli in bianco e nero di questo servizio fotografico): non è più il ragazzo che nel 1995 cantava a Sanremo Giovani Destinazione paradiso e finiva, sotto forma di poster, sui muri delle camerette di mezza Italia.
Difende il suo lavoro come qualunque artista, ma credo che in cuor suo sappia che viene da anni di scarsa rilevanza. I suoni slabbrati di Fabbrica di plastica e i sogni psichedelici ad occhi aperti di Campi di popcorn si sono via via normalizzati prendendo la forma d’un romanticismo rock più ordinario, anche se l’ultimo disco, A volte esagero del 2014, raccontava bene la parabola di uno che ha fatto tante cazzate e se le trova “di fronte, come la mia storia fra le dita”. Le sue canzoni che fanno grandi numeri su Spotify sono quelle del primo album interpretate in spagnolo. Mi historia entre tus dedos (La mia storia tra le dita) conta oltre 250 milioni di stream, più di qualunque canzone di Pausini, Ramazzotti o Bocelli. La partecipazione a Sanremo 2023, dove nella serata delle cover canterà con Arisa Destinazione paradiso, rappresenta sia la continuazione di un percorso seguito con caparbietà, sia un’occasione di ripartenza. Da qualche tempo Grignani parla di tre album che messi assieme andranno a costituire un grande concept, un progetto ambizioso per uno che non pubblica una raccolta d’inediti da nove anni.
Mi sono fatto l’idea che tu sia stato per lo meno in passato un artista molto solo. È così?
Non lo so… all’inizio forse sì. Ai tempi di Fabbrica di plastica gridavo, ero come un bambino che non potendo farsi capire e non potendo parlare, urla. Ed era un urlo ispirato. La rivoluzione non si fa in un giorno. Questo me l’ha insegnato la mia amica Stefania, la bambina che è morta quando avevo 12 anni a cui sono dedicati i tre dischi che sto facendo. Me l’ha insegnato lei, è una frase che sarà contenuta nel terzo disco, me lo disse quando ci arrampicavamo sui peschi a mangiar ciliegie, che è un’altra frase del terzo disco. Voglio dire che quando fai qualcosa che non esiste, ne paghi lo scotto. Questo è un Paese conservatore, io ero una cosa che prima non esisteva, c’erano tante persone che non volevano che esistessi e l’ho pagata. Ma ora non sto più pagando, sto raccogliendo e quindi avevo ragione io. E poi la solitudine c’è per tutti, dal punto di vista esistenziale. Mia madre mi ha chiesto: ma sei felice? Le ho risposto: mamma, ma se fossi felice tutto il tempo io non sarei contento.
C’è un personaggio che da un quarto di secolo ricorre nel tuo immaginario, il Joker.
Mio nonno, che era un musicista e artista, mi fece un lavoro in legno, un arlecchino. L’ho avuto davanti alla culla da che son nato. Quando ho messo piede la prima volta in una casa discografica e ho visto le foto degli altri artisti coi dischi d’oro, ho detto: quando ne avrò uno anch’io, farò la foto da Joker. E l’ho fatta e ho dedicato al Joker una canzone di Campi di popcorn.
Che cos’è il Joker, il tuo alter ego folle e indisciplinato?
Non sono bipolare, eh, al massimo… quadrilocale (ride, nda). Sono uno che a volte parla con se stesso e allora ho dato un nome alla persona con cui parlo. È come se fossimo in due (mostra il tatuaggio della faccia del Joker che ha sulla spalla sinistra, nda). Ci parlo col Joker, è quello che mi fa fare bene i servizi fotografici, a volte mi aiuta ad andare nella direzione giusta, a volte lo uso per uscire da situazioni che mi stanno sul cazzo (imita una voce stridula del Joker che dice assurdità muovendo la spalla col tatuaggio, nda). Secondo me anche Lennon, Bowie e Battisti erano autoironici in questa maniera qui. Forse anche Bob Dylan, la cui musica mi ha aiutato nel periodo della separazione da mia moglie.
In che senso?
Ero solo d’estate, chiuso in studio a lavorare. Ci sono rimasto 15 giorni di fila, con l’aria condizionata che mi faceva male. Dormivo in studio, la stanza quadrata mi sembrava un ottagono, ma non per motivi strani, eh, è che non mangiavo. Ascoltavo Bob Dylan di continuo e la sua voce mi tranquillizzava, che è strano perché ha una voce di merda. Mi piace il fatto che Dylan ti faccia reagire alla sua musica senza darti una morale, che è quello che ho fatto io in Quando ti manca il fiato e in Destinazione paradiso.
A proposito di Destinazione paradiso, sei riuscito a far cantare a squarciagola a un’intera generazione una canzone che in fondo parla di suicidio, no?
Quando l’ho scritta ero un ragazzino, volevo essere un’icona, avevo in testa cose tipo Imagine e volevo anch’io una canzone-emblema, perciò ho scritto Destinazione paradiso. Tra l’altro se ci fai caso l’attacco è Through the Barricades degli Spandau Ballet: “Mother doesn’t know where love has gone…” (canticchia i primi versi del pezzo degli Spandau che effettivamente stanno bene sui primi versi di Destinazione, nda).
Senti, visto che la riporti a Sanremo e che vedo online un sacco di interpretazioni del testo, mi dai quella autentica?
L’idea del testo di Destinazione paradiso nasce da Stairway to Heaven. All’epoca non conoscevo bene l’inglese, non capivo tutte le parole del pezzo dei Led Zeppelin ed è stato un bene perché ho fatto lavorare la fantasia. La mia è una canzone con una visione di liberazione, era la mia scala per il paradiso. La cosa del suicidio è stata ingigantita quando, dopo Sanremo, sono andato dalla Dandini. Mi hanno chiesto perché l’avevo scritta e ho risposto che avevo pensato al suicidio. Sì, ci avevo pensato, come quasi tutti, ma da ragazzino e una sola volta, poi basta. Non conoscevo i media e le mie parole sono state strumentalizzate. Quindi no, non è dedicata al suicidio.
E la ragazza che nel testo è seduta al tuo fianco?
Non esisteva in realtà, semplicemente non potevo immaginarmi di fare quel viaggio da solo. Sono come Sean Connery, che immaginava il paradiso come un posto con tante donne e un bancone della birra (ride, nda).
Oggi ti senti capito come artista?
C’è stato un momento in cui la mia musica era in stallo. È stato bellissimo quello che ho fatto, parlo di Sdraiato su una nuvola, Il re del niente o A volte esagero, ma ero in stallo e lo stavo accettando. Fortunatamente l’affetto della gente mi ha smentito. Io prima ero convinto che sarei stato compreso musicalmente solo dopo la mia morte.
Oggi c’è il mito del successo fra chi fa musica, anche in Italia.
Per via della cultura rap, che viene dai neri d’America e dalla loro voglia di riscatto, di vittoria. Io invece ho la sfiga di venire dal grunge, da Kurt Cobain: il successo viene sempre dopo. Il successo semmai è il riconoscimento culturale. Mi piace Dylan, uno che si dissocia da se stesso per riuscire a diventare l’artista che vuole essere.
Perché ti sei fatto tatuare sul braccio “ricordati di volerti bene”?
Per ricordarmi che penso troppo agli altri e poco a me stesso. Magari sono un solitario, ma mi concedo tantissimo. E ogni volta che vedo il tatuaggio mi sento in colpa.
Perché?
Perché mi ricorda che non sono perfetto. Volevi un po’ di rock’n’roll? Eccolo qua: non sono perfetto.
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Foto: Ana Marti
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Direzione artistica: Alex Calcatelli per LeftLoft
Stylist: Marco De Lucia
Stylist Assistant: Micaela Tana
Fashion Editor: Francesca Piovano
Grooming: Maddalena Brando
Video Backstage: Federico Terradico
Total look: John Richmond