È stato Bowie prima di Bowie, Zero prima di Zero, è uno che a livello di provocazione e look gli odierni trapper possono solo baciargli il posteriore, che ha imposto il proprio modo di essere con orgoglio, coraggio e determinazione, rischiando ogni giorno la pelle a causa di tali scelte. Ma ciò che lo rende ulteriormente diverso da ogni altro artista italiano è che questa immagine forte e trasgressiva l’ha messa in campo non mentre proponeva musichette bensì un vero delirio sonoro che mischiava prog crimsoniano, musica dodecafonica e jazz psichedelico. Il tutto per narrare di un ultimo sopravvissuto a una catastrofe mondiale che va incontro alla morte dopo che gli sono stati strappati occhi, orecchie e corde vocali.
Stiamo parlando di Gianni Leone, tastierista, cantante e leader del Balletto di Bronzo che con il loro storico album Ys hanno lasciato un marchio indelebile nella storia del prog italiano. Un prog dark fino al midollo, malato, ossessivo, fuori da ogni logica commerciale. Pubblicato nel 1972, l’album sarà nuovamente disponibile dal 27 novembre 2020 in una ristampa in vinile in varie versioni curate da Universal all’interno della collana Prog Rock Italia che prevedono remaster direttamente dai nastri originali da 1/4 di pollice, LP 180 grammi, gatefold sigillato in PVC e due OBI strip con la descrizione del disco (nel gennaio 2021 usciranno Felona e Sorona delle Orme e Forse le lucciole non si amano più della Locanda delle Fate).
Cogliendo l’occasione della ristampa abbiamo fatto quattro chiacchiere con Gianni Leone che è tutt’oggi in campo con il Balletto di Bronzo in una formazione che comprende Ivano Salvatori al basso e Riccardo Spilli alla batteria. Leone considera questa formazione la migliore fra tutte quelle che si sono succedute dal 1995 (anno della ripresa delle attività del gruppo) a oggi. Lo scorso settembre la band (che vanta un culto a livello mondiale) ha pubblicato il live Official Bootleg per l’etichetta specializzata Black Widow Records.
Nell’intervista Gianni non si è risparmiato, si è soffermato sulla storia del mitico Ys e ha raccontato senza peli sulla lingua del suo passato e del presente, della sua filosofia, dei suoi colleghi, del suo essere musicista e personaggio. Ne esce fuori uno spaccato di storia a base di musica fuori dagli schemi ed esistenze completamente votate all’eccesso, che se ne fregavano bellamente di ogni regola, da tutti i punti di vista. Se pensate che il prog sia un genere da parrucconi provate a leggere qui.
Come stai vivendo questo momento?
L’anno era partito alla grande e avevamo un bel po’ di date, poi siamo stati catapultati in quello che definisco un film fanta-horror ambientato nel 2020, ma pensato negli anni ’70. Adesso addirittura sembra che dovremmo chiuderci di nuovo a casa la sera, figurati, io che da decenni vivo solo di notte… Abbiamo perso tutti gli appuntamenti in giro per l’Italia e nel resto del mondo, a parte un bellissimo concerto realizzato la scorsa estate a Genova che pensavamo fosse il segno della rinascita. Poi invece…
Da almeno 25 anni il Balletto è un trio, come mai questa scelta?
Una persona in meno con cui litigare… Scherzo, però mica tanto. Il trio è stato il mio sogno fin da quando, da ragazzino, abbandonai i Città Frontale (band napoletana da cui sarebbero nati gli Osanna, nda). Avevo appena ricevuto da mio padre in regalo un organo Hammond ed ero rimasto estasiato dal disco omonimo dei Quatermass, che erano appunto un trio senza chitarra. In seguito ricevetti l’invito a entrare nel Balletto di Bronzo, che nel 1970 aveva già realizzato un album chiamato Sirio 2222. La formazione comprendeva Lino Ajello alla chitarra, Gianchi Stinga alla batteria, Marco Cecioni alla voce e Michele Cupaiuolo al basso. Io mi unii a loro per una serie di concerti in tutta Italia nei quali suonavamo i brani di Sirio 2222 integrati da miei lunghi assolo all’organo. Dopo qualche mese Cecioni e Cupaiuolo lasciarono il gruppo – come noi speravamo, a dire il vero – e quindi restammo io, Stinga, Ajello e un nuovo bassista che si chiamava Vito Manzari. Ecco la formazione di Ys. Il desiderio del gruppo alla Quatermass mi è però rimasto nel cuore, fino a quando, nel 1995, ho rifondato la band che da quel momento ha l’assetto di un trio.
Cosa conservi del Gianni Leone degli esordi?
Tutto e nulla. Cerco di guardare sempre al presente. Non è che nel 2020 io suono, canto e vivo come nel 1972, non mi interessa, sono cambiato moltissimo, secondo me in meglio. Amo le sfide, addirittura quella di sfidare il me stesso di decenni fa e… vincere su tutti i fronti. Sennò è meglio stare a casa a fare la proverbiale calzetta.
Cosa che ti vedo ben lungi dal fare.
Anche volendo non potrei. La vera natura viene sempre a galla perché è una forza primordiale. Se hai talento e passione puoi reprimerla quanto vuoi ma alla fine uscirà fuori. È come reprimere la propria sessualità. Si è mai visto al mondo un sano, normale e naturale omosessuale che sia diventato eterosessuale? Questo lo immaginano solo quei poveri mentecatti, delinquenti invasati, marci dentro e fuori, che pensano che l’omosessualità sia qualcosa da curare.
Negli anni ’80 però hai avuto un momento in cui sembrava ti fossi stancato della musica…
Ero stufo marcio, me l’avevano fatta odiare gli incontri sbagliati, i produttori truffaldini e buoni a nulla, gente che mi aveva fregato dei soldi, i molestatori… Mi è capitato di tutto con dei vecchiacci orribili. Allora a un certo punto ho preso e ho mollato tutto, sono andato a Stoccolma dove si erano già trasferiti gli altri componenti del Balletto di Bronzo aprendo uno studio di registrazione. Lì ho fatto per un periodo il make-up artist, la sola idea di vedermi vicino a una tastiera mi faceva stare male. Presto però la passione per la musica, per il mio strumento e, soprattutto, per il canto ha ripreso il sopravvento.
Un balzo indietro a Ys: mi ha sempre incuriosito, in quello che reputo l’album più tenebroso della musica italiana, la scelta della foto di copertina.
È l’attrice teatrale Maria Nencioni. Le quattro foto risalgono al 1903 e sono tratte da una rappresentazione del balletto Messalina. Quelli della PolyGram all’epoca mi fecero vedere una cartolina che colpì la mia fantasia: c’erano questi quattro scatti con al centro il nome dell’attrice. Quando si definì la copertina sul davanti ci finì la Mencioni e il titolo dell’album mentre le foto e il nome della band le misero sul retro. Una cosa che a livello di marketing ritengo sbagliatissima, ma che forse ha aiutato ad alimentare il mistero attorno al gruppo.
Il titolo Ys deriva dalla leggendaria isola bretone?
Sì, all’epoca a Roma, in Via Merulana, c’era una piccola libreria esoterica, un luogo incredibile, piena di libri di magia, parapsicologia, occultismo, cose stranissime… Lì trovai un volume con la leggenda di Ys, isola al largo della Bretagna che scomparve sotto il mare, come Atlantide.
Il concept del disco però non è incentrato su questa leggenda.
Esatto, i testi parlano di una specie di apocalisse e di un sopravvissuto al quale un’entità divina ordina di andare a raccontare “la vera realtà”. Nei tre incontri in cui è suddiviso Ys il protagonista viene però privato prima dell’udito, poi della vista e infine della voce. Alla fine, l’incomunicabilità totale. E pensa che questi testi all’inizio non li avrei nemmeno voluti cantare. In una prima versione di Ys che eseguivamo dal vivo prima di registrarla i testi erano in inglese ed erano scritti dal dj e giornalista Raffaele Cascone. La casa discografica però a un certo punto decise che l’album doveva essere cantato in italiano.
Io andai in crisi, per me all’epoca l’italiano era la lingua di Peppino Gagliardi e Orietta Berti… Così mi rifiutai e scegliemmo come vocalist una delle ragazzine che avevamo assoldato per i cori femminili. Lei era appena arrivata dalla Sicilia e si chiamava Giusy Romeo. Alla fine però la sua performance (da qualche parte esiste ancora testimonianza di questa registrazione) non ci piacque, l’impostazione era troppo liricheggiante, operistica. Così dovetti per forza di cose mettere da parte le mie ritrosie e cantare, improvvisando addirittura alcune parti direttamente in studio, come ad esempio quel punto bellissimo che dice “Un viso di vecchio / già vicino alla morte / la fede non c’era / adesso è già forte, oppure Ha visto la notte il giorno finire / e donne nel buio / già pronte a tradire”. In tutto questo Giusy tornò a essere relegata ai cori (insieme alle sorelle Rosanna e Flavia Baldassari, che formavano il duo La Metamorfosi) e qualche anno più tardi trovò grande successo con lo pseudonimo di Giuni Russo.
La componente dark deriva dalla tua passione per l’occultismo?
Certo, la mia camera era l’antro degli orrori, parenti e famigliari erano costantemente preoccupati, c’era dentro di tutto: bambole sgozzate, teschi, simboli magici ed esoterici…
Nei crediti di copertina testi e musiche risultano firmate da tale N. Mazzocchi.
Nora Mazzocchi, la zia di Marco Cecioni, ex cantante del Balletto. Io avevo composto tutte le musiche, ma all’epoca non mi interessava iscrivermi alla SIAE ed entrare dentro certi ingranaggi borghesi (come si diceva allora), inoltre ero troppo giovane per poterlo fare. Così lasciai che firmasse tutto la signora Mazzocchi, che aveva depositato in vita sua due soli brani dai titoli che erano tutto un programma: Twist del gatto e Stringimi forte a te. La cosa fu riportata nella copertina ed è tutt’ora presente nelle ristampe originali di Ys. Solo dal 1995 sono riuscito a rientrare in possesso dei diritti d’autore delle mie musiche, lasciando generosamente alla Mazzocchi tutti i diritti retroattivi.
E i testi?
Se ne occupò Daina Dini, all’epoca fidanzata del nostro batterista Gianchi Stinga, e furono poi rivisti da Cristiano “Popy” Minellono, paroliere in seno alla PolyGram che dopo avere lavorato al disco più dark del gruppo più dark che potesse esistere diventò il paroliere di Toto Cutugno, Pupo e Ricchi e Poveri…
All’epoca tu (come oggi del resto) non eri solo un musicista, ma un vero personaggio all’avanguardia per l’Italia
Ricordo di avere visto sulla mitica rivista Ciao 2001 nel 1972 una foto di Davd Bowie in tenuta Ziggy Stardust. Io non ne sapevo nulla, mi vestivo in modo simile già da molto tempo…
Il tuo look era unico, androgino, provocatorio.
Oggi qualsiasi coglione esce di casa, trova la merceria aperta e compra il travestimento da Ziggy Stardust o da Marilyn Manson, anche le orsoline fra un po’ si faranno tatuaggi trucidi su tutto il corpo… Quella che era vera trasgressione e rivoluzione non esiste più. Qualunque pirla oggi può avere i capelli verdi, gli sciocchi e odiosi tatuaggi, il piercing sul prepuzio, ma non è questa la trasgressione. Chi faceva queste cose all’epoca, negli anni ’70, in un’Italia ottusa e bigotta, era un vero rivoluzionario. E io non sbagliavo quando ero molto “razzista” (se posso usare tale termine) nei confronti di chi non era come me. Perché all’epoca non era come oggi in cui magari uno si traveste da freak e invece dentro è uno squallido borghese bigotto. All’epoca se vedevi uno con i capelli lunghi come te, vestito in un certo modo, tu sapevi che anche lui lottava in prima persona, col sangue. Perché era molto più facile adattarsi alla porca società repressiva e perbenista e stare rintanato invece di vivere tutta una serie di esperienze. Quelli come me erano dei veri combattenti.
Oggi non mi piace niente di quello che vedo…. io immaginavo il 2000 con tutti con la tutina spaziale d’argento e le antennine verdi, invece mi accorgo che ancora siamo molto lontani, anzi, è peggio. Quanti ne ricordo di fermi della polizia, di percosse, aggressioni perché magari uscivo fuori da locali gay conciato in modo da risultare ai loro occhi troppo “provocatorio”, non ti dico… Negli anni ’70 io avevo un solo guardaroba: il “guardaroba palco”, giravo con calzamaglia, tacchi a spillo, pancia scoperta, paillette, bracciali a quintali.. e non avevo altro, andai a fare la visita militare così, per dirti. Andavo sulla spiaggia, quelle rarissime volte perché odiavo e odio tuttora, il sole, con i tacchi da 15 centimetri, le borchie – che via via diventavano sempre più arroventate – il collare da cane al collo. Cose scomode, ma mi andava di farlo, di provocare, di scioccare.
Al giorno d’oggi io passo davanti al bar dello sport e vedo il normotipo 2020: capelli rasati o lunghissimi con cerchietto da educanda, orecchini a go-go, sopracciglia depilate da fare invidia a Marlene Dietrich, corpo ben modellato, culetto arrapante, vestiti sgargianti, pantaloni a vita bassa, pelle curata, unghie ben limate, maschere di bellezza, sbiancamento dei denti… Mentre io passo, vestito in maniera normale, magari con pantalonacci militari, scarpe basse – poiché oggi penso innanzitutto alla mia comodità e al mio benessere, lasciando gli abiti più eccentrici e scomodi al palco – e questi con il loro linguaggio da subumani giù a dirmi, chessò, “frocio”. Il mio primo istinto sarebbe fare come Maciste quando nei film mitologici degli anni ’60 sgominava intere legioni. Massacrarli tutti con le sole mani nude. Ma siccome non ho questo talento mi fermerei semplicemente e direi: «Signori, se voi oggi potete tranquillamente sfoggiare i vostri culetti arrapanti modellati in palestra, se potete guardarvi allo specchio con i i vostri orecchini, i vostri cerchietti, i vostri capelli e le vostre chiome ossigenate, se potete indossare qualunque colore, anelli e cose trasparenti è perché qualche decennio fa qualche “frocio”, in questo lurido Paese, ha fatto una rivoluzione per permettere a voi di fare queste cose, che oggi sono del tutto inoffensive!».
Ci è voluto e ci vuole coraggio, non ti sei mai fatto fermare da nessuno…
All’epoca venivo preso di mira dai poliziotti e carabinieri che mi fermavano, mi offendevano, mi dicevano che sembravo una prostituta. Io ero efebico, non avevo ancora la barba, con i capelli lunghi ossigenati, la pelliccia di leopardo, poi sono diventato animalista e cose del genere non mi sogno più nemmeno di farle. Non ti dico i miei famigliari, le riunioni per affrontare il problema di questo figlio, cose allucinanti. E io però imperterrito, perché ho sempre avuto la testa dura, dovevo fare a modo mio e quindi sono andato avanti.
Oggi mi sono rilassato, le cose eccentriche le uso quando sono sul palco, vado alle feste o dove mi va… In questa porca società è inutile che mi metta i tacchi a spillo, la pelliccia o la tuta di vinile borchiato al pomeriggio per magari farmi aggredire come già è accaduto fin troppe volte, anche in tempi recenti, non più da poliziotti bensì, tanto per gradire, da stranieri ed extracomunitari. In ogni caso, se volessi, potrei farlo sempre e in ogni occasione, ma, come dicevo prima, oggi penso principalmente alla mia comodità poiché non devo dimostrare più niente a nessuno, nemmeno a me stesso. La cosa buffa è che dal 1995 al 1998 nel Balletto ha militato il bassista Romolo Amici, di professione poliziotto, e dal 2004 al 2007 il bassista Marco Capozi, agente della Polizia Municipale (oggi col Banco del Mutuo Soccorso). Surreale, no? Purtroppo non ho un bazooka e non posso mandare al pronto soccorso venti persone al giorno. Peccato.
Tu che hai inventato questo stile in Italia come hai visto il successo di uno come Renato Zero?
Nel ’74-’75 in piazza Navona c’eravamo soltanto io e lui vestiti in quel modo. Infatti ci frequentavamo, passavamo le serate sulle panchine a parlare, facevamo il confronto di chi era più magro, lui aveva il polso addirittura più piccolo del mio, era uno scheletro ambulante. Quando sei magro così, qualsiasi cosa indossi ti sta da favola. Io all’epoca lo apprezzavo molto come personaggio, adesso invece lo disprezzo, perché è un pusillanime. Poi esteticamente è diventato inguardabile. Mi ricordo perfettamente com’era, non può andare a Domenica in e dire a tutta l’Italia che lui è uno regolare, che finse di essere gay solo per evitare il militare… In un porco mondo come questo, per certi versi ancora fermo al Medioevo, uno come lui dovrebbe dire, come hanno fatto molti altri che io apprezzo moltissimo, “Sono gay, ebbè?”. Ha paura che le serve e i servi se sanno che è gay non comprino più i suoi dischi? Se tutti si nascondono vuol dire che la gente comune continuerà a pensare che il gay è sempre solo quello con le piume sul culo che va a fare lo sgallettato al Gay Pride. Mentre invece la gente deve capire una volta per tutte che i gay sono il pompiere, il poliziotto, il verduraio, il loro zio, il loro fratello, il loro padre, loro stessi!
Nessuno di noi è obbligato a dire «sono gay, sono non gay, mi piacciono le donne o i canarini», no, però in una società come questa in cui ci sono continuamente aggressioni omofobe, e io ne so qualcosa, se uno, dieci, cento, un milione vengono fuori, il non-omosessuale si renderà conto che gay è semplicemente una variante della natura umana, sana, normale. E quindi non si accanirà più, e accetterà la propria sana, normale, naturale, addirittura banale componente omosessuale che è dentro tutti gli esseri umani, perché per colpa delle maledette religioni c’è gente che non accettando la propria omosessualità vede il nemico nell’altro.
Per concludere il discorso su Renato Zero, questa è la definizione che io do di lui, oggi: raccapricciante quanto innocuo ibrido tra Raffaella Carrà, la Sora Lella e il mago Otelma. Perché lui va in televisione, parla di Gesù, della Madonna – io sono un ateo irriducibile, capirai! – fa il buonista, rinnega la sua natura, si nasconde, gioca sull’ambiguità… chissà se lo è o se non lo è… Ma dì che ti rimorchiavi i ragazzotti di mezza Roma sotto ai miei occhi, e io non ero certo da meno! Tutti lo sapevano, tutti lo vedevano e non c’è niente di male, a farlo e a dirlo.
Tornando al Balletto cosa mi dici della vostra esperienza al Casale di Rimini?
Dopo l’uscita di Ys, prendemmo questo casale in campagna, fuori Rimini. Scegliemmo Rimini perché era al centro dell’Italia ed era molto comodo per noi, per gli spostamenti dei concerti. In quel casale vivevamo in maniera molto estrema, l’unica regola era che non ci dovessero essere regole. Tu pensa, una volta arrivarono quelli del Banco del Mutuo Soccorso, che provavano con i nostri strumenti e non erano certo un gruppo di educande. Beh, li scandalizzammo! Ricordo che un giorno mi arrivò un pacco di vettovaglie mandatomi dalla mia povera madre perché altrimenti non avremmo mangiato, lì si pensava solo a fare sesso, droga e rock’n’roll. In questo pacco c’era una piccola statua di una madonnina e un bigliettino che diceva «Conserva questa madonnina». Io con fare sprezzante la presi e la buttai tra le sterpaglie davanti a Francesco di Giacomo che mi guardava esterrefatto. Altre volte, mentre il Banco provava, io mi presentavo con la mia solita mise da casa: stivali sadomaso, collare, pailettes e mutandine da donna di nylon trasparente. Anche il batterista Gianchi non era da meno, lui aveva questo feticismo di indossare le mutandine delle sue amanti. Li scioccammo.
Poi che cosa accadde?
Purtroppo a un certo punto cominciammo ad avere dei problemi, il fatto che non ci fossero regole non andava sempre bene. Al casale arrivarono prima gli amici, poi gli amici degli amici, in seguito gli amici degli amici degli amici e così all’infinito. A noi piaceva la compagnia e la confusione ma quelli facevano qualsiasi cosa, tipo prendere di nascosto il nostro furgone, avere degli incidenti e far finta di niente. Un’altra volta invece fecero passare sempre lo stesso furgone da un ponte troppo basso e lo deformarono. Ci distrussero sia la nostra Mercedes che un’altra macchina più piccola. Ci fecero trovare una testa di cavallo mozzata in bella vista sul tavolo… ci rubarono anche gli strumenti. Poi non ti dico la droga che girava, tutta la droga del mondo… Gianchi rimase invischiato nell’eroina, cominciò a bucarsi e per molti anni non ne uscì.
Gli eccessi cominciarono a portare divergenze tra di noi in ogni campo. Vivevamo come in una comune con gli amici e le varie donne. Il bassista Vito Manzari e il chitarrista Lino Ajello vivevano con le loro ragazze, cominciarono a nascere varie tensioni. La ragazza di Caio contro l’amico di Tizio, Tizio contro la ragazza di Caio e così via. La ragazza di Lino, che era svedese, divenne la sua prima moglie. Difatti Lino si trasferì in Svezia, dove fu raggiunto da Gianchi, che una volta uscito dal tunnel dell’eroina, disintossicandosi da solo, diventò ingegnere informatico. Siamo tuttora in ottimi rapporti.
Abbandonato il casale tu e Gianchi, prima della sua partenza, avete continuato a suonare ancora insieme per qualche mese, giusto?
Sì, quando abbandonammo il casale il Balletto era praticamente sciolto, ma con Gianchi suonammo ancora un po’ di tempo in due, facendo addirittura dei concerti e realizzando un 45 giri (La tua casa comoda / Donna Vittoria) nel quale io suonai tutti gli strumenti tranne la batteria (che comunque sapevo suonare poiché è uno strumento che adoro), ma il momento d’oro era finito. Lui partì e io cominciai a dedicarmi al mio progetto solista LeoNero (con il quale Gianni ha inciso due album tra il prog e la new wave, nda).
Per concludere qual è secondo te il futuro del progressive? Negli ultimi anni c’è stato un certo ritorno del prog italiano, con molte band giovani e meno giovani. Tanti gruppi dei ’70 si sono riformati…
Noi italiani non abbiamo inventato il rock, ma abbiamo creato un genere denominato progressive italiano che è stimato e riconosciuto in tutto il mondo. Quelli che suonano prog oggi però non mi convincono se si limitano a rifare gli anni ’70, la parola progressive dovrebbe essere sinonimo di evoluzione. Se sei un gruppo degli anni ’70 che decide di riformarsi già torni in scena con tutti vecchi e barbuti che sembrano mastro Geppetto, almeno cerca di rinnovarti sennò che senso ha rifare esattamente quello che facevi nel 1971? Mi annoio mortalmente, non ci sono nemmeno dei bei fighi da ammirare, sono dei vecchiacci che fanno tristezza. Poi magari il cantante ha perso la voce, il batterista si è rammollito, quindi meglio stare a casa a fare la solita calzetta.
Quando invece a fare il progressive sono ragazzi di 20 anni, che non erano nemmeno nati all’epoca, secondo me sbagliano clamorosamente se prendono dai dischi prog anni ’70 quelli che io considero difetti e li ripropongono pedissequamente. Certo, so che c’è un pubblico che vuole proprio quelle cose rifatte in quel determinato modo, con quelle sonorità. Ma io dico no! Perché chi non era neanche nato all’epoca dovrebbe cercare di prendere l’essenza di quel genere musicale e traslarla nel 2020, senza per questo trasformarla in un’altra cosa. È difficile, lo capisco, però quando vedo dei ventenni camuffati da fricchettoni 1971, con i capelli lunghi e i baffoni, che vogliono rifare i Genesis o usare il Moog tipo Rick Wakeman, dico no, non ha senso. Al massimo uno potrebbe dire: come siete stati bravi a ricreare quel sound degli anni ’70. È un talento anche quello, ma non ha niente a che fare con il concetto di progressive.