Bassista, tecnico e manipolatore del suono, arrangiatore, divulgatore didattico, compositore, produttore artistico, discografico. Prima con i Litfiba di Piero Pelù, poi con i CCCP, CSI e PGR di Giovanni Lindo Ferretti e i Marlene Kuntz di Cristiano Godano (questa intervista è stata realizzata prima della morte di Luca Bergia, ndr), Gianni Maroccolo ha attraversato gli ultimi quattro decenni di musica italiana diventando uno dei protagonisti della scena indipendente in un’epoca in cui questo aggettivo aveva un senso profondo e condiviso. Ma le band citate sopra sono solo alcune tra le decine di gruppi con cui il musicista maremmano ha collaborato in varie forme, senza dimenticare il progetto Deproducers e i suoi dischi solisti o «multisolisti», come dice lui, incisi con complici quali Franco Battiato, Carmen Consoli, Cristina Donà, Manuel Agnelli, Edda, Federico Fiumani.
Esempi di una produzione vastissima ed eterogenea, ora catalogata ne Il Maroccolario, archivio enciclopedico in uscita in aprile per Libri Aparte, che riunisce tutte le produzioni firmate da Marok nei suoi primi 43 anni di attività. «880 brani in studio, 224 brani live, 132 album suonati e/o prodotti, 56 brani demo, 4 cofanetti, 31 raccolte, 33 singoli, 12 EP, 26 videoclip e altro ancora, per un totale di 1654 voci», spiega Giuseppe Pionca, il curatore del volume di quasi 500 pagine. Non un giornalista, né un critico musicale, ma un fan accanito che nel compilare quest’opera ambiziosa e pure un po’ matta ha maturato la certezza, come scrive nell’introduzione, che dentro e dietro i penetranti giri di basso, le composizioni e gli arrangiamenti di Maroccolo «non c’è soltanto un musicista col suo strumento», c’è la storia di chi lo ascolta». E il diretto interessato che ne pensa?
«Non sono ancora riuscito a leggere l’intero archivio, un po’ per pigrizia, un po’ perché mi spaventa», dice Maroccolo, classe 1960. «Di sicuro provo stupore per l’impegno che ci ha messo questo amico fan che ho incontrato più volte ai concerti e con cui ho la Sardegna in comune – lui è di Cagliari e io ho vissuto sull’isola tra i 4 e i 16 anni. Più volte gli ho detto “ma chi te lo fa fare, a chi può interessare?”. Ma è andato avanti lo stesso e visto che sono già finiti i pre-order ho dovuto ricredermi. Parliamo di una produzione dal basso, portata avanti solo per istinto e passione come piace a me. Benché io sia uno che vive nel presente».
Partiamo da qui, la dici spesso questa cosa: perché non ti piace rimestare nel passato?
Non c’è una ragione precisa. C’entrano i primi anni con i Litfiba, perché l’energia e la tensione emotiva che esprimevamo dal vivo, anche in maniera grezza e animalesca in senso buono, nei dischi non rendevano come avrei voluto, veniva fuori tutto più inquadrato, smussato. È lì, da dopo Desaparecido, che ho smesso di riascoltare le mie produzioni una volta chiuse. Per non stare male sentendo qualcosa che si era manifestato solo in parte. Ci ho riflettuto, su questo, e ho metabolizzato il fatto che dal momento della genesi di una composizione, che assieme al live è il più bello per chi fa musica, seguono una serie di passaggi, dall’arrangiamento alla produzione al mastering, di cui mi sono occupato, che non ti danno le stesse sensazioni. Come dire, ciò che accade dopo che un pezzo si manifesta m’interessa meno, e questo nonostante i dischi siano fotografie di momenti precisi della tua vita che ogni tanto ti ritrovi a riguardare sorridendo o emozionandoti. Per il resto guardo sempre avanti.
Hai l’esigenza di suonare nel qui e ora? O forse non riesci a darti pace?
In effetti molti che mi conoscono da vicino mi hanno spesso criticato di non avere pace. Ho sempre avuto il bisogno di suonare quotidianamente. Specie nei primi anni dei Litfiba si faceva musica senza un motivo preciso, andavamo tutti i giorni a improvvisare e suonare nella cantina di via dei Bardi per il piacere di farlo. Spesso anche di notte, per quanto si era affamati di sperimentare coi suoni. Poi, andando avanti, tutto si è inserito in una dimensione più schematica, dove tiri fuori il basso e vai in sala prove perché sai che devi scrivere un disco, o perché hai un concerto e devi riarrangiare i pezzi e buttar giù la scaletta, e finiti i concerti metti via il basso e aspetti la prossima scadenza. Per fortuna io sono riuscito a riacquistare la mia vera natura: oggi suono e produco musica non per forza con un fine, senza chiudermi in nessuna routine e godendomi quegli istanti in cui un’idea musicale affiora, pazienza se resta in un cassetto. Sarò idealista, ma ho il privilegio di vivacchiare dignitosamente con la musica, dunque più che non riuscire a stare fermo, sento proprio il dovere di dedicarmici tutti i giorni. Ma ho anche altri interessi nella vita.
Sei cresciuto in Sardegna, dove ti sei trasferito dalla Toscana con i tuoi genitori all’età di 4 anni. E lì sognavi di diventare un marinaio…
Da ragazzino, oltre a collezionare francobolli e a giocare a calcio come portiere, mi piaceva andare in barca con amici più grandi di me e mentre loro pescavano m’immergevo, adoravo stare sott’acqua. La musica è sempre stata parte della mia vita, sin dai 5 anni. Però, sì, quando i miei dovettero tornare in Toscana io stavo facendo la scuola nautica e volevo finire il prima possibile per imbarcarmi con la marina mercantile, non militare, e andare in giro per il mondo. Il mare è un’altra passione imprescindibile per me. È nella seconda metà degli anni ’80, con 17 re, secondo album dei Litfiba, che la musica è diventata qualcosa di più serio, prima non avevo mai pensato potesse diventare un mestiere: era tra le cose che mi piaceva coltivare perché mi faceva stare bene. Anche quando ho lasciato il nautico e siamo andati a vivere a Firenze ricordo di aver passato mesi di tentennamenti, e di crisi per certi aspetti, perché da toscano credevo che mi sarei ritrovato nel mio habitat naturale, invece non è andata così. Tant’è che decisi di iscrivermi all’alberghiero, per poter tornare in Sardegna a lavorare nei ristoranti in estate. In pratica, fino a 17 re ho alternato ristoranti e musica, ma tutto sommato questa cosa ha fatto in modo che, vivendo ancora in famiglia e tirando su qualche soldino, si siano create le condizioni per provare – a quel punto sì – a vivere davvero di musica.
Da che genere di ascolti arrivavi?
Eterogenei. Tra i 5 e i 7 anni ascoltavo musica di notte. Avevo un vecchio transistor, lo mettevo sotto al cuscino, e mi sentivo le onde medie e le onde lunghe, quindi la musica del mondo. Senza capirci nulla, ma mi affascinava. Poi arrivò in casa una chitarra acustica, era di mia sorella, ma me ne appropriai: suonicchiavo mettendo i 45 giri nel giradischi, dal beat alla musica leggera. Trascorrevo anche serate a guardarmi varietà tipo Canzonissima, ovunque ci fosse qualcuno che suonava o cantava ero in ascolto. Dopodiché i primi dischi che ho comprato con i miei soldi sono stati Paranoid dei Black Sabbath e un live dei Grand Funk Railroad, gruppo che non conoscevo minimamente, ero rimasto conquistato dalla copertina. Senza dimenticare la radio, che mi ha fatto conoscere i nostri cantautori, oltre ad artisti e band internazionali come David Bowie, Rolling Stones, Led Zeppelin. Questo quando ancora non avevo un pelo di barba. In seguito ho cominciato a leggermi le riviste specializzate e quando sono arrivato a Firenze avevo una specie di rigetto, ormai, nei confronti della musica italiana.
Come mai?
Ma perché negli anni ’70 sembrava di stare sotto a una cappa, era tutto politicizzato, tutti i gruppi, tutti i cantautori. E non è che come sound il progressive, il jazz-rock, la fusion, generi che all’epoca vantavano un discreto pubblico, mi entusiasmassero granché. Per cui mi misi alla ricerca di roba straniera e finì che poco prima della nascita dei Litfiba ciò che ascoltavo era musica lontana non solo dal ’77, ma anche da ciò che andava di più negli anni ’80. Dunque Tangerine Dream, Soft Machine, Frank Zappa… Moltissimo Zappa. Anche quando mi sono avvicinato alla new wave, al punk, al dark, sono rimasto un po’ ai margini di ciò che andava in quegli ambiti: apprezzavo i Residents, i Tuxedomoon, il primo Philip Glass. Nel frattempo avevamo fondato i Litfiba e a quel punto la voglia di capirci qualcosa di più mi ha preso. Così ho studiato al conservatorio un po’ di contrabbasso, più che altro perché avere dimestichezza con uno strumento era la condizione per accedere a un corso triennale allora sperimentale, fonologia e musica elettronica, che mi interessava perché mi intrigava l’elettronica e volevo capire come si crea l’alchimia d’insieme che fa sì che la musica abbia un impatto emotivo sull’ascoltatore. Ossia come agiscono l’arrangiamento, le scale, l’armonia, i vari strumenti, il contrappunto e al tempo stesso come funzionano le frequenze, le registrazioni con i microfoni e così via.
Hai contributo a forgiare un suono, quello della new wave, del punk, del rock alternativo, che in Italia a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 mancava…
Già. Credo che il fatto di essere inserito in un meccanismo estetico – non vorrei sminuire nulla, non mi viene un termine migliore – ma a partire da presupposti diversi abbia contribuito a creare un insieme che non marcasse in maniera evidente quello stesso lato estetico. C’era la presunzione di sperimentare, di provare ad andare al di là di ciò che già c’era. Tant’è che per anni, il che mi riempie di orgoglio, si è tentato di catalogare i Litfiba come rock mediterraneo o latino, come dark, new wave, spaghetti rock, ma alla fine non si riusciva a rinchiuderli in un’etichetta: eravamo come saponette. Successivamente la sublimazione di questo sono stati i CSI, progetto unico e non catalogabile.
Mi chiedo spesso cosa rimarrà in futuro di certa musica che ho amato. Tu che dici?
Alcune cose resteranno sempre e comunque. Certo, serve far sedimentare un po’. Oggi si vive più freneticamente di un tempo, si macinano i cambiamenti in maniera veloce, quasi nevrotica, per cui si assimila poco. Però a un certo punto l’essere umano, per natura, si guarda immancabilmente indietro per vedere cosa c’è stato prima. E secondo me, se tra qualche secolo i marziani approderanno in Italia, nel grande libro della musica troveranno sia i Litfiba, sia i CSI, è fuori discussione. Hanno significato entrambi, per motivi diversi, qualcosa di molto importante per la musica nel nostro Paese, magari non in termini assoluti di popolarità e di vendite, ma contribuendo a migliorare la cultura. E chi riesce in questo non si dimentica. Non è nemmeno una speranza di rivalutazione futura, la mia: sono consapevole che in questo mio breve passaggio di vita terrena un mio segno l’ho lasciato, e sono già felice così.
Tutto questo l’hai ottenuto nel segno di un’indipendenza che sembra quasi un tuo destino naturale, basti dire che hai mollato i Litfiba e poco dopo sono esplosi. Questione di indole o altro?
Sono da sempre insofferente alle regole, alle leggi, ai soprusi, alle disuguaglianze, a tutto ciò che per me non ha una logica. Ho sempre cercato di capire i contesti in cui vivevo per cercare di non rimanere ai margini della società, ma di starci dentro in direzione ostinata e contraria. In questo sono simile a Ferretti, ma non per partito preso, bensì per la sete di vivere i miei giorni non dico in assoluta libertà, ma avendo la possibilità reale – non quella che ci viene venduta come tale e che non lo è – di scegliere in questa vita. La scelta è qualcosa che ai più fa paura, mentre per me è un diritto inalienabile: non mi puoi togliere la libertà di scegliere; è l’unica cosa che ci rimane, quella di poter scegliere come scriversi la propria vita, ovviamente nel rispetto delle vite altrui.
Ed è necessario muoversi in maniera un po’ defilata, per non farsi inghiottire dal “sistema” senza nemmeno rendersene conto, o no?
Non saprei, ma so che per me l’essere indipendente è stata una scelta individuale, non ideologica. Se ho occupato certi spazi è stato per avere l’opportunità di portare avanti i miei pensieri, ideali e progetti mantenendo l’indipendenza totale sulle mie scelte. Il che significa che quando è stato possibile praticare questa autonomia a livello individuale mi sono mosso da solo, se serviva collaborare con etichette indipendenti lo facevo, né mi sono tirato indietro quando è stato il momento di creare un’etichetta indipendente come Sonica, parte del Consorzio Produttori Indipendenti, o di avere a che fare, come CSI, con una multinazionale come la PolyGram, ben conscio che quel passo mi era utile per fare qualcosa in cui credevo senza condizionamenti. Ricordo ancora quando con Ferretti andai da Stefano Senardi, allora presidente della PolyGram. Gli dicemmo «abbiamo un gruppo, si chiamerà CSI, non ti facciamo sentire niente perché non abbiamo niente, ma vogliamo fare dei dischi; se ci date dei soldi per realizzarne tre ve li consegniamo, ma senza scadenze, quando ci pare, tutti e tre in un anno o chissà, e senza vincoli promozionali». E aggiungemmo che ci servivano dei soldi per andare in Bretagna a scrivere il primo album, perché all’epoca avevano la fissa di fare i dischi in case e simili, lontani dagli studi di registrazione.
Avete posto le condizioni, insomma.
Esatto, c’è stata un’interazione intelligente, costruttiva, da parte di entrambe le identità, senza che nessuna delle due dovesse snaturare la propria. Poi ovvio che il sistema di cui parlavi esiste e deve tollerarti. Sarebbe potuto diventare pericoloso anche per i CSI firmare con una major, non a caso a un certo punto si sono sciolti: probabilmente, dato quanto era cresciuta la band, non c’era più modo di uscire da determinati meccanismi. Ripeto, sono scelte, ed è chi le compie che ne è responsabile. Quando sento dire che le case discografiche rovinano gli artisti… No, sono gli artisti che si rovinano con le loro mani, attraverso le loro scelte; nessuno li obbliga a fare ciò che non vogliono fare.
Concordo. Sotto questo aspetto oggi vedo meno coraggio nel compiere certe scelte, ma nemmeno io credo che la causa siano i fattori esterni, i social o chissà cos’altro.
Oggi c’è un’attenuante, forse. Potrebbe essere più difficile rendersi conto che ci sono delle alternative a quello che ti viene spiattellato come una regola di mercato. Di conseguenza potrebbe anche esserci una pigrizia nel verificare se esistono, quelle alternative, rispetto alla musica che ti propone il mercato, che sarà il 10% della musica prodotta e suonata nel mondo. Ciò detto, non direi che ai miei tempi si stava meglio, anche ai miei tempi non si stava granché bene, però come dicevi tu la velocità, la musica liquida… sono tutte menate. La musica continuerà a circolare al di là dei metodi, delle regole di mercato del momento, del supporto su cui gira. Un fenomeno che rispetto per la creatività, anche se magari non nei contenuti o nella proposta musicale, è la piccola rivoluzione compiuta dai tanti ragazzi che bazzicano la trap nelle sue diverse varianti nel momento in cui hanno detto, in sostanza, «a noi del mercato non ce ne frega un cazzo, siete vecchi, sorpassati», per poi crearsi il loro, di mercato, partendo da YouTube, dalle visualizzazioni, creandosi un loro modo di far circolare la loro musica. Nessuno all’inizio li considerava, poi, come al solito… Possono piacere o meno, ma questo gli va riconosciuto.
Ma tu hai mai pensato di pubblicare un disco con la tua voce, oltre che con la tua musica?
A parte che non so cantare, no e nemmeno ci ho provato. Non sopporto la mia voce. E poi è come per il ballo: nella mia vita ho fatto ballare o ballonzolare un sacco di persone sotto al palco, ma di mio avrò ballato cinque o sei volte al massimo, credo perché ubriaco, fumato o fuori di me (ride). Per il canto c’è un pudore di fondo che non sono mai riuscito a superare.
In compenso a un certo punto ti è venuta voglia di pubblicare dischi a tuo nome, da A.C.A.U. La nostra meraviglia ad Alone. Com’è nata questa esigenza?
Nel periodo in cui sono nati i PGR ho lavorato per un anno da solo per colmare un gap relativo alla registrazione digitale, che ai tempi stava prendendo piede. Mi ero ritrovato a dipendere da un tecnico del suono che a seconda delle idee mi diceva se erano concretizzabili o meno, e da produttore non mi sentivo a posto: questione di serietà, non puoi dire a un artista che produci «non lo so». A.C.A.U. è nato così, come risultato dei miei primi esperimenti con un programmino digitale gratuito. Tra l’altro avevo fatto sentire quegli stessi esperimenti a Hector Zazou, produttore di Per grazia ricevuta, il primo disco dei PGR, e lui se ne innamorò al punto che almeno tre finirono in quell’album. Lui sosteneva che il mio doveva essere un disco cantato, ma decisi di farlo strumentale e di chiedere ad amici e artisti che stimavo di partecipare al microfono. Fu quello il primo tentativo di immaginarmi in una formula solitaria alla quale ancora non sono arrivato del tutto. Ma è un processo lungo: credo sarà l’ultimo tassello, quello di fare un disco solo col basso e di andare sul palco solo col basso. Ma cantare e scrivere testi… no.
Però posso chiederti quanto contano per te i testi nelle canzoni?
Nei primi due o tre anni con i Litfiba la voce mi piaceva usata come uno strumento, i testi erano per me solo qualcosa di ritmico e di melodico all’interno di un brano, ero quasi disinteressato alle parole. Furono i testi di 17 re a colpirmi al punto da spingermi a rileggere anche quelli del precedente Desaparecido. Da lì, oltre a cogliere meglio lo spessore artistico di Piero, ho iniziato a interagire di più con le liriche. Quindi, di fronte a un testo, a pensare che non andava bene qualsiasi musica, qualsiasi suono, qualsiasi contrappunto, e che le parole hanno bisogno di essere spinte, di rarefazione o di potenza, quasi di una sonorizzazione. In seguito ho avuto la fortuna di ritrovarmi a suonare con i CCCP di Ferretti in un momento in cui volevano mettere la musica al centro; Epica Etica Etnica Pathos nacque con quell’intento. E quando hai uno come Giovanni che scrive aprendoti la mente non c’è modo di distrarsi, non puoi che cercare di valorizzare il più possibile le parole. Anche dopo, però, ho incrociato artisti che mi hanno aiutato a crescere in questo senso, a capire che valgono moltissimo sia la musica strumentale che ti offre suoni, visioni e un non detto che magari non metabolizzi a livello viscerale e che però arriva, sia l’uso della parola, che specie in Italia assume un’importanza rilevante. Per questo nel prosieguo del mio percorso ho avuto problemi a mettere su altre band: Pelù, Ferretti, Rocchi, ma anche Godano, mi hanno abituato troppo bene.
Quanto quei testi hanno influito sulla tua visione della vita e del mondo? Te lo chiedo perché non credo si possa restare indifferenti di fronte all’immaginario ferrettiano, ma anche perché hai fatto un disco con Claudio Rocchi e collaborato in più modi con Edda, entrambi Hare Krishna, nel corso della tua carriera hai incrociato Battiato, di cui era nota la spiritualità, e in qualche intervista hai dichiarato di credere, come loro, nella reincarnazione.
Innanzitutto ho sempre scartato un sacco di cose, quando si trattava di scegliere con chi collaborare, e a furia di scartare forse tendi a volerti confrontare con qualcuno che ti costringa ad alzare l’asticella. Per me la musica è sempre stata un mezzo, come anche il basso, per condividere con altri dei pezzi di vita. Perché sono una sorta di cane solitario, di quelli che vagano la notte alla ricerca di qualcosa nei posti più strambi e poi d’un tratto trovano un branco e ci passano insieme un pezzo di vita, per poi ritornare a vagare di notte da soli. È così che nel mio percorso musicale ho finito per annusarmi con chi era più affine a me, ai miei pensieri e desideri: gli incontri di cui parli non penso siano avvenuti per caso, erano scritti. Se ho incrociato chi ho incrociato è probabilmente perché avevo la necessità di chiarire alcune cose della mia vita e queste persone mi hanno aiutato.
A cosa ti riferisci?
Al fatto che anche a 30 anni annusavo certe cose, ma non avevo ben capito il contesto in cui vivevo, poi arriva Ferretti ed è come se mi avesse dato uno scappellotto sul collo dicendomi «sveglia, non è tutto bello come sembra». Gli devo molto a livello sia mentale, sia spirituale. Mi ha aiutato, sotto il profilo del ragionamento, dell’analisi pura, a non avere paura. E mi ha insegnato il senso della responsabilità, perché Giovanni a molti può sembrare un punkettone sconclusionato, mentre quando si tratta di dimostrare con i fatti che in questa vita si hanno diritti, ma anche doveri, è di una serietà incredibile. Ma ci ho messo un paio di anni a capire nel profondo, a parte le cose più evidenti, di cosa si stesse parlando in Epica Etica Etnica Pathos, e ora posso dire che Ferretti aveva previsto tutto. Però anche Rocchi mi ha insegnato a non avere timore di perdere qualcosa o qualcuno e che nei confronti degli altri bisogna essere tolleranti e ascoltare, ma fino a un certo punto.
In che senso?
Nel senso che quando vedi che gli altri ti portano verso il baratro e che l’unico modo di comunicarci è a tua volta finire là dentro, devi dire di no. Possono sembrare insegnamenti elementari, ma per me sono stati non tanto la scoperta di qualcosa, ma la conferma che il mio modo di vivere, di pensare e di agire non era così strano. Io e Claudio abbiamo parlato poco di religione, ma tutto ciò che aveva a che fare con la sfera spirituale era insito nel nostro rapporto. E a posteriori osservo che anche la collaborazione con Edda si lega a tutto questo, hai ragione. Figurati che lui l’ho riscoperto col secondo disco solista, nemmeno sapevo avesse fatto il primo, lo credevo perso in una comune in India. Avevo amato i Ritmo Tribale e lui, Stefano, ha una vocalità miracolosa. Poi quando l’ho conosciuto di persona sono venute fuori queste coincidenze strane: conosceva Claudio, era anche lui Hare Krishna… Le cose devono succedere, il nostro talento di esseri umani non è tanto di ricercare a testa bassa qualcosa, ma di saperlo riconoscere quando passa. E meno fai per raggiungere qualcosa e più ti metti a sedere un attimo – metaforicamente intendo – le cose che possono arricchirti umanamente ti passano davanti: devi solo saperle cogliere.