Gigi D’Agostino, c’è solo un capitano | Rolling Stone Italia
Cover Story

Gigi D’Agostino
C’è solo un capitano

Nel panorama italiano Gigi Dag è un alieno che per «non diventare quello che volevano gli altri» ha fatto una vita da indipendente. Timido visionario o egocentrico mestierante, come ama definirsi, in 40 anni ha scritto pezzi di storia come dj e come produttore. Lo abbiamo intervistato per il suo ritorno sulle scene (il 21 giugno a Milano, poi sarà turno del Cocoricò) dopo quattro anni di stop forzato causa pandemia e malattia («avevo il terrore di non farcela»). Odiato, amato, rispettato, disprezzato: il Capitano è pronto a rimettersi in viaggio

Foto: Edoardo Anastasio

Tra un anno e mezzo Gigi D’Agostino festeggerà i quarant’anni di carriera. Quando li contiamo assieme, si spaventa. Io che di anni ne ho 35 ripenso invece alla mia prima giovinezza, quando per me la musica doveva essere quella impegnata, quella del rap e del cantautorato. Ripenso alla divisione – culturale e musicale – che c’era tra loro, i tamarri, e noi, gli alternativi, così come probabilmente stava accadendo e continuava ad accadere in gran parte della penisola. Ricordo gli amici del paese con le cassette e i primi CD piratati con le compilation di Gigi Dag. I ragazzi più grandi fermi fuori dal Bar Sport a spingere Bla Bla Bla dagli impianti delle auto tuning. Le feste di paese, quelli dei coscritti, le discoteche mobili, luoghi dove il verbo di Gigi era il centro gravitazionale di quelle generazioni. Ripenso a quando mi ero detto, e mi era stato detto, di non diventare mai così. Come loro. Poi le rigidità sono crollate, la società si è liquefatta e la normalità è diventata una sola, un enorme continuum mainstream in cui ogni precedente lotta tra fazioni si è ridotta a revival, retromania. Ecco la nuova contemporaneità senza tempo o posizione.

Mi chiama un numero, prefisso +41, la Svizzera. Dall’altra parte del telefono c’è Gigi D’Agostino.

Torino, inizio anni ’80. Luigino Celestino Di Agostino ha iniziato le superiori. Vive nella città piemontese coi suoi genitori, Rosa e Nicola, di origine salernitana. Passa le giornate ad ascoltare le cassettine coi mixati dei dj locali o ad ascoltare la radio nella sua stanza irradiata dalle luci psichedeliche che ha progettato in maniera amatoriale con le nozioni imparate al primo anno di elettrotecnica. In quei pomeriggi scopre qualcosa che gli cambierà la vita: il ballo, a cui dedicherà il simbolo che lo rappresenta da inizio carriera, l’ideogramma giapponese della danza. «Io ho un problema, ma che è anche una cosa bella: sento tutto amplificato. È l’unico modo che conosco di vivere le sensazioni e le emozioni. Mi sconvolgono fisicamente. Da ragazzino non capivo, mi toglieva la normalità del respiro. E in tutto quel bene e male c’era una cosa che mi faceva impazzire, come se avessi scoperto la libertà. Quella cosa era ballare».

I pomeriggi e le serate, quando può, le trascorre in discoteca, all’epoca aperte tutti i giorni: «Ero un ragazzino solitario, non dialogavo granché con gli altri. Entravo nel locale appena apriva e ballavo per ore. Ma ero timido e mi mettevo nel punto meno in vista della pista. L’immaginazione volava, pensavo a cosa avrei potuto suonare io. La discoteca mi ha travolto la vita, per me è stato come entrare in un altro universo».

Per chi conosce anche solo un po’ il personaggio Gigi D’Agostino, in queste parole è già possibile ritrovare il seme di quelle che saranno caratteristiche fondamentali della sua carriera. Un personaggio schivo nel pubblico come nel privato, circondato da un’aura quasi sacrale, che alle interviste («non è che non mi piaccia farle, e che spesso non ci vedo la motivazione, o il clima giusto») ha sempre preferito rispondere con la musica, che fosse su disco o dietro una consolle, ieri come oggi – che ha finalmente ripreso a suonare dopo quattro anni di pausa e una grave malattia – la vera casa di Gigi.

Sono cresciuto negli anni ’90 nella provincia torinese, e più precisamente nel Canavese, dove Gigi D’Agostino era ed è ancora la figura musicale più conosciuta e apprezzata tra quelle in circolazione, un mito transgenerazionale. In queste terre sono nate alcune delle sue prime tracce (come gli EP Experiments Vol. 1 e Creative Nature Vol. 1 con il producer e dj locale Daniele Gas), qui ha sempre avuto le porte dei locali aperte e le piste piene per suonare prima la sua house progressiva e le sue hit da classifica (Gigi’s Violin, The Riddle, L’amour toujours, giusto per citarne alcune) poi il suo celebre Lento Violento (Tu vivi nell’aria è un inno di zona), un genere basato su ritmi pestanti e rallentati. Parlando con Marco Foresta, dj ed ex proprietario di una delle discoteche (oramai chiusa) in cui Gigi soleva esibirsi a fine anni 2000 nell’area, il Sugho di Ivrea, l’aneddoto che viene ripetuto è la stesso che ritorna nei racconti dei suoi fan: «Quando aprivamo le porte, Gigi era già in consolle che stava suonando. Iniziava con il locale vuoto. Per lui è sempre stata una forma d’amore, di rispetto per chi lavorava alla serata». Un rispetto tra mestieranti, come lo stesso Gigi Dag si definisce quando parla della sua carriera da dj.

Attorno alla figura di D’Agostino si crea presto un’adorazione, una mitologia, un culto. Il Capitano che conduce il suo pubblico nel viaggio, dentro il flusso («sono rimasto folgorato quando ho capito come un dj poteva indirizzare il flusso del ritmo»), dove a regnare sono la musica, l’amore, la danza, parole che ritornano costantemente nei titoli dei suoi brani, dei suoi dischi, ma anche nel vocabolario dei suoi fan che dal 2002 a oggi si riuniscono ancora in un forum, Casa Dag, a raccontare e narrare le gesta del loro idolo. «Ho sempre detto che quel forum, finché ci saranno anche solo due persone, resterà aperto. È un luogo molto diverso dai social, dove ognuno può sparare la propria cazzata. In un forum devi iscriverti, entri in un contesto, in una conversazione. Difficilmente ci trovi l’hater. Conosco di persona molti degli utenti del forum perché è sempre stato un luogo in cui si poteva parlare, a differenza dei social che sono solo promozionali. Ho sempre avuto un rapporto strettissimo coi miei fan. Ci giocavo pure a calcetto».

Torino, 1986. La prima volta di Gigi in consolle. «Il mio primo impiego? In pratica pulivo la consolle. Ma stavo lì tutto il tempo, non mi fermavo nemmeno per mangiare o bere: era l’unico modo per fare esperienza. Così qualcuno ha capito che avevo un certo fuoco dentro e pian piano ho cominciato a suonare qualche brano a fine serata, poi sempre di più, fino a quando ho potuto iniziare a creare la mia onda, a pilotare il flusso. Quell’esperienza mi ha insegnato ad avere una visione del tutto, delle varie esigenze di una serata».

Tutto però cambia il 17 dicembre 1990. C’entrano una ragazza, delle cravatte, una fiera. «La mia compagna dell’epoca aveva un negozio di abbigliamento. Durante una fiera al Palazzo del Lavoro di Torino nel periodo natalizio mi chiede di aiutarla: devo vendere cravatte. Sono stufo. Così decido di chiedere a una piccola discoteca di Torino di darmi la sua serata di chiusura, il lunedì, figurati se me la davano in un altro giorno ai tempi. Preparo dei volantini e li distribuisco alla fiera tra le migliaia di persone presenti. È un successo, una magia. Finalmente ho una mia serata in cui non devo cedere a compromessi su che musica mettere, in cui poter realizzare i desideri che mi giravano in testa. È finita che il locale mi ha chiesto di diventare un suo resident».

A Torino il nome di Gigi D’Agostino inizia a girare. Fa serate al Sistina, al Palace, all’Area (si dice che qui era celebre per i look arricchiti da cappelli esagerati). Crea un suo staff, organizza feste di cui segue ogni aspetto, dall’allestimento alla grafica, iniziando a mettere a fuoco il suo suono (in seguito battezzato Mediterranean progressive, un misto di house, techno, afro), che inizia a girare tra i seguaci delle discoteche grazie al mezzo di propaganda per eccellenza dell’epoca: la cassettina mixata.

Foto: Edoardo Anastasio

Airasca, alle porte di Torino, tra il ’94 e il ’95. D’Agostino viene chiamato per rilanciare il sabato sera di un locale piuttosto giovane. Il club si chiama l’Ultimo Impero e negli anni diventerà il duomo della discoteca italiana. «A fine ’94 vado a prendere accordi con l’Ultimo Impero per gestire il sabato sera. Il locale è molto grande. Vogliono fare numeri, numeri che non posso garantire perché in quel momento arrivo da realtà decisamente più piccole. Ma questa cosa di puntare sempre in grande è tipica di un egoista, presuntuoso, egocentrico come me. In fondo è stato per egoismo che ho iniziato a suonare».

Termini come egoista ed egocentrico ritorneranno ciclicamente nelle nostre due ore di cortesi chiacchiere, come a volermi sottolineare quel rapporto molto intenso tra Gigi, sé stesso e il mondo circostante. Se avete vagamente idea del mondo della discoteca, saprete già che quelle serate scriveranno un pezzo di storia della nightlife del nord Italia. «Alla nostra serata d’apertura ho provato una roba che non so nemmeno io come chiamarla perché non so come si può dire di qualcosa più grande della gioia, una gioia più più più. Abbiamo fatto numeri giganteschi. Nei giorni prima i nostri PR erano andati in giro a distribuire flyer e cassette, un modo fondamentale per divulgare in maniera diretta quello che avevamo in mente. Ho una foto di quella serata in cui c’è un’altalena. Avevo fatto montare un’altalena nel locale, capisci che intendo?».

Nel nord-ovest comincia così a crearsi un certo buzz attorno a D’Agostino, ma il salto prima nazionale e poi internazionale sarebbe arrivato poco dopo con l’altra faccia della sua carriera, quella della produzione. Scindere il Gigi Dag dj dal Gigi Dag producer diventa così ben presto impossibile. «Era tutto bello, ma mi mancava qualcosa, mi mancava la mia di musica», sottolinea quando gli chiedo degli esordi discografici. «Gli studi di registrazione costavano un rene e io andavo alla ricerca delle sale prove coi prezzi migliori come un mendicante, affittandoli nelle ore notturne dove erano inutilizzati. Erano ben altri tempi, lo capirai meglio così: producevo con un Atari. Sembra la preistoria, no?».

Negli anni ’90 c’erano solo due modi per suonare in pista la propria musica, le proprie tracce inedite non ancora pubblicate: o si andava a farsi stampare una copia in vinile unica, un acetato («a Milano costava 90 mila lire, mi sono fatto i debiti»), oppure si ritornava sempre da lei, la cassettina. Il rapporto coi discografici? «Potrei farti nomi e cognomi di chi mi ha rifiutato dicendomi “chi ti credi di essere”, ma non ne vale la pena ora». A credere in lui ci sono però la Media Records di Brescia e la Subway Records a Milano. Ma presto anche qui Gigi preferirà mantenere una propria indipendenza con la BXR, che esordirà con uno dei sui primi successi, Fly, che riprende il celebre giro de Il tempo passa, colonna sonora di Mediterraneo, il film di Salvatores che qualche anno prima si era aggiudicato un Oscar.

«Che ne sapevo io della discografia? Nulla. Io mi limitavo a fare cose che mi piacevano e che potevo poi suonare», spiega divertito prima di farsi nuovamente serio, «e mi ringrazierò per sempre di aver preso accordi per rimanere indipendente, perché se no questi brani – filtrati dai discografici – non sarebbero mai usciti». Ad esempio? «L’amour toujours su tutte: la prima versione durava 7 minuti e mi dicevano “non c’è l’inciso”. Non capivano che il pezzo emotivamente era lì». E ancora: «Volevano farmi diventare il produttore di qualche altro artista. Sarebbe servita una certa mediazione in tutto ciò e mi sembrava una cosa distante da me. Io so solo seguire il mio cervello e andare dove mi porta»

Soprattutto a vedere il panorama discografico di oggi, immaginare un giovane artista in grado di prendersi le responsabilità del proprio percorso in modo così forte mi trasmette una certa idea di sicurezza, una sensazione che ritorna sin dalle prime battute di questa lunga conversazione. «Tu la chiami sicurezza, per me è molto di più. La mia testa è oltremodo presuntuosa, ho un’autostima esagerata. È una spinta forte, direi fisica, che mi ha sempre fatto pensare e sognare di poter arrivare a certe cose. Sapevo cosa serviva ai miei set, alle mie serate. Nessun altro avrebbe potuto capirmi, sarebbe stato inutile». A spuntarla, infatti, è di nuovo lui. Nelle sue tracce inizia a introdurre le voci («è che sono un amante dell’hip hop e del funk, e i primi esperimenti li ho potuti fare con gli acappella di certi dischi») e i suoi brani iniziano ad affacciarsi in classifica. Your Love Elisir («il mio groove perfetto, me lo sono portato dietro per anni»), Cuba Libre, e poi una serie di brani che diventano instant classic: Bla Bla Bla («dedicata a quelle persone che parlano ma sono il nulla cosmico. Per me era come dire: tu mi rompi i coglioni e io prendo le tue parole, ci faccio un groove e ci ballo sopra»), The Riddle, La passion (prima in classifica in Belgio e Austria), Super (1, 2, 3) con Albertino (che gli vale il secondo posto nella chart italiana, la sua migliore prestazione di sempre) e naturalmente L’amour toujours («All’inizio fu un flop, ma per me era un pezzo fondamentale. Per quello chiamai così l’album»).

Così arrivano le proposte. Televisione, collaborazioni, featuring. «La mia risposta era sempre la stessa: “Ma cosa c’entra con quello che sono io, cosa c’entro con quello che mi state proponendo?”. Io non ero quella cosa lì, infatti non ho mai accettato niente». Perché in fondo Gigi D’Agostino nel panorama italiano è sempre stato un alieno. Lo è e lo è stato nelle scelte, quella di rimanere indipendente a tutti i costi, quello di rifiutare tutto ciò che non fosse in armonia con lui («per me l’armonia è tutto, senza non mi fermo nemmeno ad ascoltarti»), pure in uno stile di vita lontano dai centri gravitazionali della musica italiana e internazionale. Non a caso lascerà presto l’Italia per la Svizzera, dove ancora oggi risiede. «La mia testardaggine ha sempre vinto», mi ripete fiero. «Non sono diventato la cosa che volevano farmi diventare».

GIGI D'AGOSTINO - L'AMOUR TOUJOURS ( OFFICIAL VIDEO )

Gigi D’Agostino è ancora oggi quel ragazzino che alle luci della ribalta preferisce le strobo artigianali della propria stanza o la zona più scura del dancefloor dove potersi sentire libero lontano dagli occhi estranei. Quel ragazzino che nella sua camera prima, e nelle discoteche dopo, ha costruito un mondo a sua immagine e somiglianza.

«Potevo limitarmi a farmi ingaggiare alle serate e rendermi tutto più semplice, ma ho sempre voluto trasmettere l’idea della festa, mandare in giro questo messaggio della danza dall’amore, così ho continuato a organizzare, a incasinarmi la vita. Ma avevo bisogno che la gente mi capisse, che potesse entrare in questo altro pianeta». Un pianeta esteticamente molto naïf, come dimostrano le sue grafiche e copertine – su tutte quelle de L’amour toujours o de Il grande viaggio di Gigi D’Agostino Vol. 1 (uscito l’anno successivo e che a guardarlo ora sembra quasi un artwork vaporwave o da post-internet) – in cui, quasi per paradosso, è la parola ad avere un ruolo centrale nella sua filosofia sonora. Certo, cresciuto con alle spalle un passato da dj con microfono (come da tradizione nelle discoteche anni ’80) e dj e speaker radiofonico (Radio Italia Network, M2O), la tridimensionalità emotiva del progetto ha avuto la necessità di evolversi all’interno di una serie di brevi parole-concetti che ne hanno scandito la carriera. Solo così è riuscito a coinvolgere un popolo a credere nel Grande Viaggio, nel Lento Violento, nell’Entropia Sonora, nell’Uomo Suono, nella Danza dell’Amore, nell’Amour Toujours.

Un capopopolo del dancefloor, polarizzante e divisivo come gli stessi anni ’90, un momento storico in cui le sottoculture erano anche e soprattutto politicizzate. Come evidenziato da Aureliano Tonet su Le Monde, il mondo della discoteca italiana (dai proprietari ai frequentatori, spesso passando anche per gli artisti) era spostato a destra, in contrapposizione alla musica “alta” come il jazz, il cantautorato, il folk e l’alternative rock, da sempre legati alla sinistra. Non è un caso, infatti, che proprio nell’ultimo periodo certe frange dell’estrema destra tedesca abbiano pescato dalla cultura della discoteca italiana scegliendo proprio L’amour toujours come loro inno, tanto che all’ultimo Oktorberfest ne sarà vietata la riproduzione. La motivazione? La traccia, stando alle dichiarazioni del direttore del festival riportate dall’agenzia Deutsche Presse-Agentur, ha assunto una «chiara connotazione di estrema destra».

D’Agostino ne prende le distanze: «Visto quello che è successo in Germania nell’ultimo periodo ci tengo a dire la mia. Naturalmente la mia traccia non c’entra nulla con tutto quello. Le parole de L’amour toujours sono parte di quell’espressione dell’amore che volevo trasmettere nel brano. Io mi riferisco a un’idea d’amore che dura per sempre, non un amore con un timer, ma quella spinta e quell’accelerazione costante che nessuno ti può togliere, né una persona, né un male, e che vive e muore con noi. Con il titolo volevo dare un’impronta forte in questa direzione».

Quando D’Agostino emerge, le linee tra mainstream e underground, tra commerciale e alternativo, sono ancora nette e ben chiare. In questo clima di fazioni la musica di Gigi Dag è quella dei tamarri, delle classi più basse, delle fasce spesso non acculturate legate alla discoteca, ma ha in sé una capacità intrinseca – come dimostrano i posizionamenti in classifica – di far breccia nel mainstream e nella cultura pop del Paese. Un consenso popolare che nessun produttore e dj italiano può vantare. Nonostante questo, però, la critica e la stampa la relegano a musica di serie B. Ma Gigi come ha vissuto questo scarto? «Credo che il più delle volte si ricerchino motivi per poter in qualche modo sminuire», mi spiega facendosi per la prima volta davvero serio e iniziando a colorare il proprio linguaggio. «Mi davano del commerciale come se fosse un commento dispregiativo. Commerciale è un termine con un significato buono. È un complimento. È una parola colma di vittoria. Non ha niente a che fare con l’assenza di qualità e contenuto». E aggiunge: «Ti dirò una banalità: è più facile criticare un brano commerciale che farlo. Poi per far funzionare una cosa non basta la bravura, serve anche il culo, un allineamento di pianeti. Ma per avere la chance di essere ascoltata e gradita, una cosa deve arrivare a più persone possibile». Queste critiche lo hanno quindi mai ferito o condizionato? «No, mai. E sai perché? Perché se mi dicono che ho fatto un disco di merda, lo accetto. Ma quando mi dicono che è commerciale, onestamente non si capisce che cazzo intendono. Se una cosa piace a molti, qualcuno mi deve spiegare dove cazzo è il problema».

Le nostre case, febbraio 2020. Le discoteche e gli eventi si fermano a causa della pandemia e per la prima volta in 35 anni di carriera Gigi D’Agostino rimane lontano dalla consolle. La sua assenza, nell’anormalità della situazione, è normale. Quando finalmente i locali tentano le prime aperture, Gigi però rimane in silenzio. Nel dicembre del 2021, dopo che alcuni rumor parlano di una malattia, il dj condivide poche parole sui suoi social: «Purtroppo da alcuni mesi sto combattendo contro un grave male che mi ha colpito in modo aggressivo. È un dolore costante, non mi dà pace. La sofferenza mi consuma, mi ha reso molto debole, ma continuo a lottare. Spero di trovare un pochino di sollievo». Si parla di tumore, anche se lui in prima persona non entrerà mai nei dettagli della malattia. «È stato un forte trauma e purtroppo i traumi sono cose che devi imparare e attraversare da solo. Nessuno ti spiega che quando vivi con un dolore molto forte hai terrore di non farcela. Non sai cosa succederà il giorno dopo e nel tuo cervello cambia tutto. Vivevo nell’oscurità, e non potevo stare in nessuna posizione. È stata una roba invivibile, è stato orribile».

A gennaio 2022 posta una foto con un deambulatore – la prima e unica da malato sui propri social – seguita dalla caption: «Spero che questo nuovo anno mi doni un po’ di forza». E questa forza, alla fine, pian piano torna. «Appena ho avuto dei leggeri miglioramenti sono tornato a fare musica. Ho lo studio nella zona dove dormo perché ho bisogno sia sempre a portata di mano. Così nel mio laboratorio ho iniziato a comporre i miei elisir di benessere. Quando si inizia a creare la mente riceve delle forze, mette in moto meccanismi magici. Poter far musica è stata una distensione nel dolore».

Foto: Edoardo Anastasio

Sanremo, febbraio 2024. Gigi è di nuovo in consolle. È la prima apparizione pubblica dalla pandemia. Sono passati quattro anni. Il ritorno è col botto: il Festival di Sanremo. Lui si presenta nel suo celebre look da capitano a bordo della Costa Crociere e in diretta televisiva. Quando schiaccia play in tutta Italia risuona L’amour toujours. «Sognavo di tornare alla realtà e mi è arrivata questa proposta eccellente da Amadeus. È stato tutto strepitoso, penso di aver pianto tutto il tempo, ma per fortuna ero ben coperto dagli occhiali!». Si ferma per ridere e aggiunge: «È stata un’emozione indomabile, non si può descrivere a parole». Ma perché dopo tutti i no di questa carriera, il ritorno proprio alla kermesse della canzone italiana? «Ho accettato la proposta di Sanremo perché mi hanno inviato per fare quello che faccio nella vita, il dj. È il mio elemento. Che problema c’era?».

A 56 anni Gigi Dag è pronto a ripartire. Ora che le fazioni sono cadute e il suo personaggio ha fatto – come si suol dire – il giro anche grazie all’estero e a omaggi come Uncut Gems (Diamanti grezzi), film dei fratelli Safdie, che hanno inserito in colonna sonora L’amour toujours, o a citazioni e campionamenti da parte di, tra i tanti, Lupe Fiasco, Paul Kalkbrenner, Dynoro, Martin Solveig, la carriera di Gigi D’Agostino sembra aprirsi a un nuovo capitolo. Lo farà in grande: prima con una megafesta all’aperto alla Fiera Milano Live di Rho, alle porte di Milano, il prossimo 21 giugno (a cui faranno seguito altre date: il 14 agosto al Red Valley di Olbia e il 24 a Paestum), e poi in una «dimensione più club» (come ci tiene a precisare), diventando resident dei venerdì del Cocoricò a Riccione dal 5 luglio al 23 agosto con un disclaimer che tanto ricorda la sua storia «per tutta la notte». «Ritornare a suonare? Ho una certa ansia, dal 1986 non mi ero mai fermato. Sarà emozionante. Ho scelto due realtà differenti, un club e un grande spazio all’aperto, così da avere due vibrazioni, due magie totalmente differenti». Ma oggi cosa significa festa per il più (ri)conosciuto dj italiano? «È come se tutti assieme stessimo pensando alla stessa parola».

Ho come l’impressione che, se non lo fermassi, Gigi potrebbe parlare per ore. I ricordi si mischiano a filosofie personali e la nomea di silenzioso artista che rigetta la stampa sembra più una diceria che un fatto. Ma la vita, si sa, ci cambia. E quella di Gigi D’Agostino è cambiata parecchie volte in questi quasi quarant’anni di carriera. Prima di congedarci, gli faccio un’ultima domanda. Come sarebbe andata se avesse seguito i consigli di quei discografici? «Non voglio nemmeno pensarci a come sarebbe andata se fosse andata male. Con tutto quello che ci ho investito per riuscire a fare quello che avevo in testa, ora sarei pieno di debiti». Lasciati i bla bla bla alle spalle, il viaggio di Gigi D’Agostino continua.

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