Oggi – finalmente! – inizia The Voice of Italy. Il talent show di Rai 2 (che sta facendo un battage mediatico degno del Super Bowl) gioca il tutto per tutto affidando la conduzione a Simona Ventura e facendo sedere sulle poltrone dei coach Elettra Lamborghini, Gué Pequeno, Morgan e Gigi D’Alessio.
E proprio il Gigi nazionale è una delle novità che incuriosisce di più. A lui l’onore e l’onere di rappresentare la musica pop italica. Nonostante molti (negli anni) lo snobbino, va detto che D’Alessio è un cantautore da record: in 25 anni di carriera ha venduto oltre 20 milioni di copie, ottenuto tre dischi di diamante e più di 100 dischi di platino. Non si è fatto mancare live in piazze a arene d’eccellenza come il mitico Radio City Music Hall di New York. A questo si aggiunge un dato importante: è stato il secondo italiano nella storia, dopo Modugno, ad aggiudicarsi la vetta della World Billboard Music Chart con l’album Ora.
Gigi, perché The Voice of Italy?
Ho sempre avuto tante richieste di partecipare a talent show. Prima si pensava che fare il coach levasse qualcosa alla musica, per me è un valore aggiunto. E poi mi sto divertendo tantissimo con i miei colleghi. È una squadra fortissima.
Quali altri talent ti volevano?
Mi hanno chiamato a Sanremo Young e Ora o mai più. Ma The Voice ha una luce particolare, non ho sbagliato ad accettare: con i colleghi coach, anche se sembriamo distanti, siamo molto vicini.
Perché gli altri talent li hai rifiutati?
Umanamente non mi piace molto giudicare una persona e averne il destino tra le mani. È stata una lotta tra mente e cuore. Poi, però, ho pensato che le carriere si fanno anche con i “NO”. E io ne sono l’esempio vivente.
Cioè?
Ho ricevuto solo “NO” nella mia vita. Quello che dico ai ragazzi è che, un “NO”, può non essere per sempre, può significare non mollare mai. Non siamo né il Vangelo né la Cassazione. È uno sprono a fare ancora meglio.
Il “NO” che ti ha fatto più male?
Al mio primo Sanremo avevo tutti i giornalisti contro. I voti delle pagelle erano tutti sottozero, sembravano le temperature del termometro. A dirmi “SÌ”, però, è stato il pubblico. Finito Sanremo, il giorno dopo ero disco di platino e primo in classifica. I “NO” erano anticipati da un pregiudizio. Era un “NO” senza nemmeno aver ascoltato il disco.
Perché secondo te?
Quando non sei un prodotto promosso dalla stampa, ma obblighi la stampa a parlare di te, perché il popolo decreta il successo, si vanno a cercare le cose sbagliate che uno fa. Poi magari non si trovano. Però, devo ammettere che finalmente, qualche giornalista inizia a capire la difficoltà armonica dei miei pezzi. Qualcuno sta avendo onestà intellettuale dopo le brutte parole che mi hanno buttato addosso.
Morgan ha dichiarato che fare The Voice, per lui, è una retrocessione, come se Maradona giocasse in serie B. Tu che dici?
Per me è la Coppa del Mondo. A Napoli si dice ‘O sazio nun crére ‘o dìuno (Chi è sazio non crede a chi è digiuno, ndr). Morgan è il senatore dei talent e ha una conoscenza musicale pazzesca. Sembriamo distanti, ci stimiamo reciprocamente e andiamo tecnicamente sui pezzi. C’è grossa sintonia.
E con Gué?
Lo considero un fratello più piccolo, sta addirittura nascendo una collaborazione.
Cosa sarà?
Farà un featuring in un mio brano inedito, il mio prossimo singolo. The Voice è anche questo, ci mette insieme. Sembriamo i quattro punti cardinali che creano sinergie.
Ora mi devi parlare di Elettra Lamborghini.
Rappresenta i giovani di oggi, che sembrano distratti, ma le cose non stanno così. È un personaggio pazzesco per i social e ha un suo perché. La sfida che stiamo cercando di portare avanti in questo talent è mischiare le nostre culture. Gué, nel suo team, ha un ragazzo che ho corteggiato tantissimo. Tutti pensavano che, visto il modo di cantare, avrebbe scelto me. Invece ha scelto Gué. È interessante vedere The Voice perché non è tutto scontato, non si capisce che cazzo succede. E poi ci sono le penitenze.
Le penitenze?
La penitenza la paga l’ultimo che chiude il cast della sua squadra. Se la chiudo io dovrò rappare un brano di Gué Pequeno. Aspe’, come cazzo si chiama il tuo brano? Ah, ecco: La tuta di felpa!
Scusa, ma a chi l’hai chiesto? C’è Gué Pequeno vicino a te?
Eh, certo.
Ah, ok. Torniamo sulle penitenze.
Se Gué chiude la squadra per ultimo deve cantare la mia Non dirgli mai, se l’ultimo è Morgan dovrà cantare Pem Pem di Elettra e se sarà Elettra a chiudere il cast dovrà cantare un brano di Morgan. E proprio la commistione è quello che vogliamo raggiungere. Ci piace mischiare le carte.
Elettra, però, ha avuto molte critiche, anche in conferenza stampa.
Qui si fanno le critiche prima di vedere. Prima bisogna vedere, poi si ha tutto il diritto di criticare.
Ok, ma di musica ne sa o no?
Lei ha un genere ben preciso, quello latino. E su queste cose è aggiornatissima. Il problema sono i leoni da tastiera.
Tu come coach che cosa cerchi?
La passione per la musica, una bella vocalità, non tecnica, ma personalità. Poi noi siamo qui apposta per lavorarci. I concorrenti devono essere i pilastri, noi li aiutiamo a costruire il muro.
Torniamo su Sanremo, che ti ha sempre trattato male.
La stampa di Sanremo mi ha trattato male, non Sanremo. Forse è stata la mia forza, se avessi ricevuto tanti complimenti, magari, mi sarei adagiato sugli allori. Invece è stata la mia sfida.
Ma a Sanremo ci torni?
Per noi artisti è un lusso partecipare al festival. Basta pensare a quanti sognano di salire su quel palco. Anche se c’è chi lo snobba, per me resta la più importante manifestazione italiana, anche per esportare la musica italiana all’estero. Io sono nato da Sanremo. Al Sud ero famoso, ma bastava arrivare a Caianello e non mi conosceva più nessuno. Grazie a Sanremo mi si sono aperte le porte del mondo e ho venduto 20 milioni di dischi.
Che mi dici del vincitore di quest’anno?
Mahmood mi piace tantissimo, sento il Sud nella sua voce. È anche un bravo autore. Dobbiamo dare tante chance a ragazzi come lui, dobbiamo dare loro la libertà di esprimersi. Ma dobbiamo essere più cauti e sereni: non si deve fare diventare famoso un cantante in mezz’ora e la mezz’ora successiva farlo cadere nell’oblio. Non dobbiamo distruggere, non mi piacciono, ad esempio, le accuse verso i trapper e i rapper.
Chi ti piace del mondo rap e trap?
Salmo, tantissimo. Poi mi piace Sfera Ebbasta. Anche perché, se qualcuno ha successo, un motivo c’è. Non bisogna avere la presunzione di giudicare in tre minuti una canzone. Dietro una canzone ci sono giorni e giorni di impegno.
Degli indie chi ti piace?
Sono tutti bravi. Calcutta e Coez mi piacciono da morire. E anche Tommaso Paradiso lo trovo bravissimo, mi piacerebbe tanto collaborare con lui. Ha anche postato tante canzoni mie. La musica è un incontro, bisogna solo darsi l’appuntamento.
Che mi dici, invece, dei ragazzi dei talent che, dopo un paio di stagioni, non se li ricorda più nessuno?
Perché c’è questo maledetto riciclo. The Voice non ha tirato fuori nessuno tranne la suora (Sister Cristina, ndr). Ma sai qual è il problema dei talent?
Qual è?
Che uno lo fa e si sente arrivato. Invece no, questo è un percorso. Una volta fatto il talent bisogna iniziare a lavorare. E questo dipende anche dalle case discografiche che dovrebbero fornire un team di persone che crescano il ragazzo uscito dal talent. Non si deve avere la mentalità usa e getta, anche perché è chiaro che il talent, essendo uno show tv, cercherà concorrenti per l’anno successivo.
Questa cosa perché succede?
Perché siamo nell’era del consumismo. A questo si deve il successo di marchi come H&M e Zara. Compriamo vestiti lì che costano poco, perché? Perché vogliamo cambiare la maglietta o il pantalone. Poi però se ti metti un vestito di Valentino e Giorgio Armani capisci la qualità. Ma non è che Valentino e Armani sono nati già Valentino e Armani. Diamogli il tempo.
Andiamo a Napoli. Non c’è un po’ di pregiudizio per gli artisti che arrivano da lì?
Succede ovunque. Napoli sforna un sacco di artisti e ha la sua lingua. Noi napoletani siamo bilingue dalla nascita. E quella lingua è circoscritta al Sud.
Ti riferisci ai famosi neomelodici?
Adesso mi devi spiegare che cosa vuol dire questa parola. Da una parte significa nuova melodia, ma significa pure ghettizzare dei cantanti, riferito a quelli dei matrimoni e delle feste di piazza. Bisogna prima capire che cazzo significa “neomelodico”, mi sono spiegato o no? Allora Liberato come lo vogliamo definire? Temo che la parola “neomelodico” sia un’etichetta da mettere.
Tu però sei riuscito ad avere il successo nazionale. Ad altri sembra non interessi quel riscontro lì, sembra stiano bene con il loro pubblico al Sud.
Tutti vogliono il successo nazionale. Indubbiamente ci vuole la fortuna, ma bisogna anche avere una mentalità differente. E una casa discografica, che ti supporti, alle spalle. Prima sembrava più difficile, ora con i social si arriva prima alla gente.
Restando in tema Napoli, mi ha colpito il post “Ti penso sempre” dedicato a Mario Merola. Cosa ha rappresentato per te?
Un grande esempio di vita. Non sono mai stato un cantante di sceneggiate, ma sono stato il suo pianista, sono stato in America con lui. Ho assistito a scene da panico, ho visto suoi film doppiati in africano. Merola è uno che ha cantato alla Casa Bianca, il New York Times mi ricordo che fece un titolo tipo “Merola o Sinatra? Non si sa, qualcuno ha cantato”. Mario Merola è come gli spaghetti al pomodoro fresco: molto semplici, ma difficilissimi da fare.
A proposito di icone. Il 21 giugno c’è la prima data di Figli di un Re minore, la tripletta di concerti-evento che terrai con Nino D’Angelo. Eppure girava voce vi foste antipatici.
Ci conosciamo da 25 anni. Sono stato anche uno dei suoi autori. Lui era già Nino D’Angelo e io nemmeno cantavo. Nino è stato il primo napoletano che ha rotto il muro e ha avuto successo a livello nazionale. Con questi concerti abbiamo spezzato una catena che andava avanti da anni e che non prevedeva due napoletani, pseudo rivali, esibirsi insieme. Abbiamo voluto distruggere questa catena contro tutti i pregiudizi.
Dopo The Voice of Italy, cosa vorresti fare in tv?
Ho fatto tante cose belle, con tanti ospiti, da Liza Minelli ai Manhattan Transfer, da Anastacia a Sylvester Stallone. Quel format mi piace sempre tantissimo. Un one-man show, con cui ci raccontiamo. Del resto abbiamo fatto solo una parte del percorso. Nel calcio, Quagliarella a parte, si finisce la carriera a 35 anni. Nella musica, a 70 anni, sei ancora giovane. Io ne ho ho 50 e tanta voglia di suonare, collaborare e imparare.
Passiamo a una ragazza a te molto cara, Anna Tatangelo. Non ti sembra sia stata riscoperta?
Siamo sempre lì. Mi sembra che la gente ci sta scoprendo oggi. Ho fatto tanti programmi tv, ma mi hanno scelto per The Voice dopo la partecipazione a Sanremo Young, come se quello che ho fatto prima fosse stato cancellato. Forse la gente dimentica troppo presto. Però ti assicuro che, prima di Sanremo Young, ho fatto tante cose. La stessa cosa vale per Anna. La differenza è che in Italia, se sai cantare, ballare e recitare vuoi fare troppe cose. Se in America sai cantare, ballare e recitare sei Jennifer Lopez.
In effetti…senti ma Anna te la sposi o no?
Certo, non ti preoccupa’!
Quando?
Adesso non ci stiamo vedendo, ma è nei progetti. Sta’ senza pensier.