Quando si parla di rappresentanza femminile nella scena musicale italiana degli ultimi trent’anni viene spesso tirata in ballo Ginevra Di Marco, interprete vincitrice di tre Targhe Tenco e di un Premio Ciampi, alle spalle un lungo percorso trasversale che l’ha vista passare dall’esperienza con i C.S.I. e i PGR, band di cui la cantante fiorentina è stata seconda voce accanto a Giovanni Lindo Ferretti, a esplorazioni nel campo della world music, progetti speciali, omaggi a grandi come Mercedes Sosa e Domenico Modugno. E sodalizi, tra i quali vale la pena ricordare quelli con l’astrofisica Margherita Hack per lo spettacolo L’anima della terra vista dalle stelle, con lo scrittore Luis Sepúlveda, morto di Covid nel 2020, e sua moglie Carmen Yanez per il reading musicale Poesie senza patria, con la collega Cristina Donà, nel 2019, per un disco poi diventato un tour.
Il suo ultimo album è Quello che conta. Ginevra canta Luigi Tenco, uscito lo scorso novembre e al centro di una serie di date dal vivo in programma nelle prossime settimane. Ma non è l’unico format che Di Marco, classe 1970, sta portando in giro: il calendario dei suoi live è fittissimo e comprende anche la riproposizione di Stazioni lunari, concerto con protagonisti di volta in volta diversi, ideato dal marito musicista, già al suo fianco nei succitati C.S.I. e PGR, Francesco Magnelli, e Donne guerriere, performance di parole e note con l’attrice Gaia Nanni, dedicata alle gesta della siciliana Rosa Balistreri e di Caterina Bueno, l’etnomusicologa immortalata da Francesco De Gregori nella canzone Caterina. Come dire: indipendenza artistica, eclettismo, curiosità, capacità di mettersi in gioco, desiderio di condivisione e attenzione verso le figure femminili sono tra i punti di forza di Di Marco, artista che non ha mai amato le etichette.
Al punto che quando la contattiamo per un’intervista su donne e musica chiarisce subito di non sentirsi particolarmente vicina alla parola “femminismo”. Per un motivo preciso: «È un termine che si è logorato nel tempo, troppo spesso l’opinione pubblica lo associa a un movimento psicologico basato su una presunta superiorità della donna sull’uomo. Ed è un termine da cui, forse proprio per questo, tendo istintivamente ad allontanarmi. La società non dovrebbe mai dimenticare che il femminismo è un movimento che ha avuto un inizio preciso, due secoli di storia e soggetti in carne e ossa che hanno portato avanti lotte senza le quali non saremmo qua oggi. Forse nella testa delle giovani donne questa parola va ricostruita».
Anche a proposito di Donne guerriere hai dichiarato che «è uno spettacolo sulle donne, ma non per le donne, e non uno spettacolo femminista»: perché questa precisazione?
Perché in questo spettacolo nato da un’idea di Francesco Magnelli, in cui condivido il palco con lui, Andrea Salvadori e Gaia Nanni, raccontiamo storie di donne che con forza e coraggio hanno cambiato il loro futuro, donne del passato, donne di oggi. Donne che hanno deciso il loro destino. E da questi racconti arriviamo a parlare di noi, della vita, delle scelte, del senso di stare su un palco. Ci sono anche canzoni nuove che abbiamo scritto, c’è tanta musica, ma il punto è che l’intento è di offrire una carrellata di spunti di riflessione per tutti, uomini, donne, bambini. Desideriamo che gli spettatori tornino a casa con qualcosa dentro che rimanga e magari sedimenti e dia linfa nuova alle loro esistenze e ai loro pensieri. Il nostro compito è di sensibilizzare, l’arte agisce attraversando i sentimenti, il femminismo è un’altra storia.
Le donne guerriere in questione sono Rosa Balistreri e Caterina Bueno: perché loro?
Sono due tra le massime esponenti della canzone popolare del nostro Paese, fari che illuminano la nostra strada, personaggi da conoscere e da ricordare. Ed esempi di coraggio: due donne che hanno fatto del loro mestiere un grande atto politico – perché la politica più significativa si fa con le scelte – contribuendo a portare alla luce la voce del popolo, cantando canzoni che appartengono a tutti, che sono “comuni” sin dalla loro radice. Rosa lo ha fatto dalla Sicilia più nera e più povera, portando nella sua voce il dramma di un’esistenza di estrema povertà e fatica. Cantava la sua disperazione per salvarsi, un atto politico tanto quanto quello di Caterina, che da etnomusicologa, alla guida della sua 500, attraversava la sua terra, la Toscana, alla ricerca delle canzoni della cultura popolare, munita di registratore per imprimere le espressioni di un mondo antico e di taccuino per raccogliere le parole dei suoi conoscitori: loro cantavano, parlavano, narravano e lei registrava, decifrava i codici di linguaggio, ricomponeva e trascriveva il materiale sonoro in musica e lo interpretava, però non si è trattato semplicemente di recuperare un patrimonio orale altrimenti perduto, bensì di dar voce e ascolto a coloro che lo custodivano.
E fuor di metafora, chi è la donna guerriera?
Sono donne guerriere tutte coloro che senza distinzione di ceto, età e cultura si sono opposte a un destino prefissato da altri, che hanno creduto nel loro sogno e lo hanno inseguito, che sono riuscite a dire no alla disuguaglianza creata da secoli di predominio maschile.
Nel corso della tua carriera le donne le hai celebrate in più occasioni, ma vi hai anche collaborato: perché quest’urgenza di unire la tua voce ad altre voci femminili?
Mi piace fare squadra in generale, adoro da sempre collaborare con altri artisti e questo senza distinzioni di genere. Credo nella bellezza che genera la diversità, nell’armonia che affiora dai contrasti e crea opportunità e valore. Poi ci sono state quelle che definirei le mie maestre di vita, figure come Margherita Hack, con la quale ho trascorso quattro anni di spettacoli insieme, e Mercedes Sosa, omaggiata in un disco nel 2017.
Della Hack, che ci ha lasciati ormai 8 anni fa, nel 2022 si celebrerà il centenario della nascita: cosa ti ha insegnato?
Margherita era una donna molto spiritosa, amava scherzare e ridere delle situazioni, sapeva fare squadra, era fantastica. Il tempo che abbiamo trascorso insieme fuori dal palco è stato perlopiù giocoso, scherzoso, leggero e divertente. Quello che mi ha insegnato lo ha fatto con il suo esempio di donna libera, amante dello studio, seria, impegnata e che si è imposta in un mondo, quello dei suoi tempi, davvero fatto di soli uomini. Ma lei è andata dritta per la sua strada e nessuno ha potuto piegarla, nonostante le battute acide intorno non mancassero. Le nostre conversazioni mi riportavano alla mia famiglia, ai miei nonni, all’educazione e ai valori con cui sono cresciuta: la passione per lo studio, l’importanza di costruirsi una propria realizzazione, l’essere osservatori partecipi del mondo, l’amore per la libertà, che non è questione di quante cose possa o non possa fare un individuo, ma ha a che fare con il nutrire e costruire l’idea che si ha di se stessi e con l’imparare il dovere della fratellanza e sapersi accontentare di ciò che si ha.
In genere la solidarietà femminile è diffusa nel mondo della musica e dello spettacolo o prevalgono competizione e invidia?
Credo che non tutti i “mondi dello spettacolo” siano simili. Io faccio parte di un’area dove la musica vive a stretto contatto con la cultura, e dove c’è cultura c’è il valore delle persone. Ho sempre cercato di contornarmi di persone scelte, non ho mai messo in piedi collaborazioni a caso, né mai qualcuno mi ha detto con chi dovessi collaborare. La competizione in musica mi affatica alquanto, sono energie che disperdono la mia e che non mi fanno bene.
Ma sei d’accordo con le tue colleghe che dicono che l’ambito musicale è maschilista?
Io ho un ottimo rapporto con il genere maschile, fin dalla tenera età ho sempre avuto amici maschi e non ho mai vissuto, nel mondo della musica, alcuna sensazione urticante come donna. Ciò che ho sempre visto nel corso della mia esperienza personale è un universo di possibilità da poter cogliere o meno, un ventaglio di scelte che mi si paravano davanti e che non avevano nulla a che fare con il genere.
Come ti spieghi questa differenza di prospettiva rispetto alle tue colleghe che denunciano sessismo e disparità?
Ho sempre creduto che la vita rifletta la luce che hai e che ti presenti una serie di possibilità anche in relazione a ciò che sei. Come dicevo, è davvero molto importante nutrire e custodire l’idea che si ha di se stessi. È questo il conto che la vita ti chiede e va al di là dell’essere uomo o donna.
Eppure di recente molte musiciste e cantautrici hanno denunciato pubblicamente che nei cartelloni dei festival musicali estivi – ed è solo un esempio – c’è scarsità di nomi femminili. L’idea è che bisogna forzare la situazione per arrivare a una futura parità in termini di rappresentanza: che cosa ne pensi?
Non sono mai stata d’accordo riguardo all’idea che ci sia scarsa rappresentanza femminile nel mondo della musica e la ragione è che non mi è mai sembrato vero. Facciamoci qualche domanda ulteriore, se le cose non vanno come vorremmo, a volte la disparità di genere è un paravento dietro il quale nascondere altre insicurezze. Altro discorso merita la rappresentanza femminile in altri ambiti, e qui ci si riaggancia alle lotte femministe che tanti risultati hanno conseguito, sebbene ci sia ancora molto lavoro da fare. Siamo nel 2021, tutto è diverso e anche sempre uguale. Si ha sempre a che fare con la fatica di affermare la legittimità di una visione, qualunque essa sia, contro la falsa neutralità della dominanza maschile; si devono affrontare sempre gli stessi ostacoli: la violenza, il ridicolo, la delegittimazione. Sono lotte che a volte riescono a spiccare il volo, ma che troppo spesso sono ancora costrette a tornare a terra, alla quotidianità: a una donna con una chiave stretta nel pugno, che cammina in fretta sperando di arrivare a casa sana e salva.
Tra gli spettacoli che stai portando in tour, uno è dedicato a Luigi Tenco, che nella sua Giornali femminili cantava: “Leggendo certi giornali femminili verrebbe da pensare che alla donna interessino poco i problemi più grandi, trasformare la scuola, abolire il razzismo, proporre nuove leggi, mantenere la pace. Comunque, per fortuna esiste l’uomo che si preoccupa. Mi dovete scusare se mi scappa da ridere…”. Penso che questi versi spieghino bene come proprio le riviste femminili, anche quando dirette da donne, abbiano per decenni aderito a un’immagine della donna in linea con quella del patriarcato, al massimo sdoganando la libertà di essere vanitose e di seguire le mode. Cosa pensi di questa contraddizione tutt’oggi presente in tv e nei media?
Il mondo della tv e dei media è in mano al potere da sempre, parliamo di mezzi attraverso i quali si governa il gregge, di armi con cui il potere omologa l’opinione pubblica e cerca di affondare il pensiero autonomo e indipendente. Si tiene tutto sotto controllo e la società non è riuscita ad arginare la deriva culturale e sociale che poi ha travolto l’Italia: da un certo punto in avanti la figura della donna è stata di nuovo svalutata e la grande contraddizione da parte dei media è stata quella di restare a osservare questo processo che ha portato la figura della donna nuovamente indietro, riconducendo le tante lotte che hanno animato le donne per secoli in una risacca di oblio. E questo anche agli occhi delle donne stesse. Abbiamo le nostre belle responsabilità, nessuno può definirsi innocente.
E di certo il berlusconismo lo abbiamo avuto solo in Italia. Oggi molte ragazze sono convinte che libertà sia anche mostrare il proprio corpo senza essere per questo ridotte a donne oggetto: sei d’accordo?
Credo che come in ogni cosa ci sia un equilibrio da raggiungere. Sono totalmente d’accordo sul fatto che ogni donna si debba sentire libera, in ogni forma possibile, di decidere anche di mostrare il proprio corpo. Ma quando la necessità di mostrarsi diventa eccessiva o dominante nella propria esistenza e si costruisce la propria immagine sul culto del corpo, ecco che si può cadere nella contraddizione di diventare le artefici dell’immagine che si rifugge: quella di donna oggetto.
In tutto ciò com’è stato essere la voce femminile di C.S.I. e PGR e affiancare una figura maschile iconica come quella di Giovanni Lindo Ferretti?
Questa è una cosa che è capitata, Giovanni desiderava mescolare la sua voce con un’altra e io mi sono ritrovata nel posto giusto al momento giusto. Solo strada facendo ci siamo sorpresi di quanto le nostre due voci così diverse, quando unite e intrecciate, costituivano un valore aggiunto e conferivano bellezza e forza alle parole. Ciò detto, con Giovanni ho sempre avuto un rapporto di grande intesa, un’intesa istintiva, animale, di pancia. Sul palco ci siamo sempre detti poco e dati tanto.
Tra le altre donne che hai omaggiato, invece, c’è Mercedes Sosa, un simbolo della lotta alla dittatura in America Latina: cosa ti ha trasmesso la sua vicenda?
Di Mercedes si dice che nessuno mai ha dimenticato il suo abbraccio: aveva la capacità di abbracciare le persone come nessun altro al mondo e ti dava la sensazione di essere abbracciati da Madre Terra. Il suo canto meraviglioso e limpido era pura espressione della sua anima. Non c’è mai stato nulla di artificiale in questa donna forte e fragile al contempo, impavida, questa icona di coraggiosa resistenza alla dittatura militare. Come Sepulveda, lei faceva parte di quel mondo latino-americano che ha lottato per un mondo migliore e più giusto per tutti, senza risparmiarsi mai, anzi, compromettendo più e più volte la sua stessa esistenza. E poi irradiava la cosa più importante che rende grande un essere umano: la gentilezza.
Oggi si parla di empowerment femminile, espressione che per i più rimanda alla necessità che le donne imparino a credere maggiormente in se stesse, in modo da non avere pudore nel proporsi per posizioni di rilievo che nell’assetto societario sono solitamente occupate da uomini. Va in questa direzione anche il Recovery Plan del governo Draghi nel suo prevedere iniziative volte a sostenere le ragazze che decidano di seguire gli studi scientifici anziché umanistici. Per te cos’è l’empowerment?
Non uso frequentare questa parola, ma per me ha a che fare con la conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, sia nell’ambito delle relazioni personali, sia in quello della vita politica e sociale. Mi pare un concetto importante, per uomini e donne. È indubbio che la donna debba essere riconosciuta in tutte le sue qualità e capacità, ma mi piace desiderare un atteggiamento di cooperazione tra i due generi, per migliorare lo stato dell’esperienza vitale che entrambi affrontano e nel corso della quale si trovano a incontrarsi.
Ma a te che cosa fa più arrabbiare, in quanto donna, della società odierna?
Le ingiustizie e la politica che si allontana dai bisogni delle persone. Mentre mi sento orgogliosa quando vedo le donne ragionare con la propria testa e uscire dalle prigioni costruite da altri e talvolta alimentate da noi stesse, nel delicato confine tra passioni e ragione. Sì, sono orgogliosa delle persone che si vogliono libere.
Quindi cosa consiglieresti a una ragazza che volesse realizzare il sogno di vivere di musica e che pensa di poter essere discriminata in quanto donna?
Le direi che non si può partire dalla paura di essere discriminati. Le consiglierei di individuare la motivazione vera e profonda di ciò che fa e di partire da quella per costruirsi, farsi forte e poi esporsi fuori. Le consiglierei di affrontare ogni tappa con onestà intellettuale, di insistere e di non gettare la spugna dopo le cadute. E di contornarsi di buoni maestri.