Rolling Stone Italia

Giò Sada, dal punk ai nuovi talent

«Anche Elio dice che sono una scorciatoia, ma poi devi essere tu a cavartela», dice il vincitore di X Factor
Giò Sada ha vinto la nona edizione di X Factor

Giò Sada ha vinto la nona edizione di X Factor

Giò Sada è il vincitore dell’ultima edizione di X Factor, il suo singolo Il Rimpianto di Te è uno dei più trasmessi (ancora oggi) dalle radio e sta preparando il suo primo album e il suo primo tour. Giò Sada è, però, anche il frontman di due band: Barismoothsquad, con i quali girerà in tour, e i Waiting for Better Days, importante gruppo hardcore italiano, con una certa notorietà anche all’estero. Un accostamento non proprio facile, l’underground e i talent. Ma il ragazzo di Bari spiega qual è il grande trucco: il mondo dei talent è cambiato, «sta cambiando una tendenza», spiega. Chissà in che modo.

Come sta andando il dopo X Factor?
È stata un’esperienza nuova, di sicuro. La cosa bella è che ho legato molto con gli altri finalisti e abbiamo affrontato tutta la botta di notorietà insieme, siamo riusciti a spalleggiarci a vicenda. Personalmente, non ho mai smesso di lavorare, non ho preso un momento di pausa. Sto scrivendo nuovi brani, quelli che poi si ritroveranno nel disco.

La cosa difficile di uscire dai talent è il mantenimento, secondo me. Hai molta popolarità all’inizio, poi devi saper andare avanti con quel ritmo…
Infatti, sono molto concentrato su quello che dobbiamo fare a livello lavorativo, proprio per questo motivo. Anche perché, tutto il resto, tipo partecipare a eventi, essere invitato da una parte o dall’altra sono cose che faccio abbastanza naturalmente. Non ho problemi ad affrontare queste cose, sono molto aperto di natura…

Quanto hai dovuto cambiare del tuo rapporto con la musica?
Beh, l’intensità di sicuro, questo è il mio lavoro, ci spendo tutte le mie giornate. Fino a tre mesi non avevo la sicurezza che potesse essere un lavoro, quindi dovevo fare altro per mantenermi…

Tipo?
Facevo parte di una cooperativa che faceva service, backline, montavo e smontavo palchi…

E musicalmente, invece?
In realtà, avevo diversi progetti prima, alcuni dedicati all’underground più puro e di nicchia (i Waiting for Better Days, ndr), e altri, come Barismoothsquad che era già vicino al pop-rock. Quindi quella direzione già c’era. E ora andremo su quella strada, senza snaturare la nostra attitudine. Alla fine è solo quella che conta.


Con questo background, come hai vissuto il successo del tuo inedito?
Beh, chi non è a contatto con me ha qualche difficoltà a capirlo. Siamo sempre stati molto vari, diciamo. Potevamo passare da un pezzo punk hardcore a una canzone più dolce e intima. L’importante è che sia qualcosa di puro, poi mi trovo a mio agio in ogni caso. È un po’ complicato far trasparire quest cosa, però, in tanti mi dicono che sono finito a fare le canzoni come Marco Mengoni…

Credo che tutti l’abbiano pensato, che magari ci fosse bisogno di più chitarre…
Lo so, ma io lo vivo dall’interno, quindi non ti so dire. Ovvio che, se avessi potuto scegliere tutto io, una botta di chitarre ce l’avrei messa. Ma essendo il primo singolo, serve anche a me per ambientarmi e poi, sono contento! Era anche una mia canzone quindi la soddisfazione è doppia. E adesso so cosa vuol dire scrivere, avere una cosa tua in giro… In futuro saprò come affrontare queste cose.

Qual è la cosa che ha imparato a X Factor e che stai portando con te?
Diciamo che mi ha insegnato molto sulla preparazione di uno spettacolo, non solo della canzone. È stato molto utile a farmi capire come rispettare i tempi: hai una settimana per preparare un pezzo, che in realtà sono due giorni, neanche sette. All’inizio è complicato gestire tutto, ma poi inizi a prendere il ritmo e cerchi di fare tutto al meglio nel minor tempo possibile.



Tu come l’hai vissuta questa esperienza? Mi spiego: sembra che ultimamente i talent siano un modo nuovo per farsi la gavetta, per prendere una scorciatoia…
La prima cosa che ci ha detto Elio è stata questa, «Voi state prendendo una scorciatoia. Fate in due mesi quello che potevate fare in 10 anni». È una spinta, non è una gavetta. Quella un po’ l’ho fatta anche io con la mia band, abbiamo girato in Europa, abbiamo suonato in giro. E lì ho imparato quello che ho messo sul palco. Anche gli autori ce l’hanno detto chiaramente, chi va a X Factor ha già un’identità musicale, ha già un percorso e una storia. Il programma è una vetrina di quello che sei, non ti impone delle cose. Pensa che io i Moseek li avevo conosciuti al Magnolia di Milano, dove ci eravamo trovati alle selezioni finali per andare allo Sziget. Sta cambiando una tendenza e ci vuole un po’ di tempo perché sia assimilata. Neanche io ero un fan dei talent, fino a quando li guardavo da casa. Da dentro ti posso dire che è reale, molto più di quello che può sembrare.

Quindi è un po’ diverso rispetto alle cose che si vedevano alle prime edizioni, dove sembrava ci fosse una formula sempre uguale per i vincitori…
In realtà ora c’è un lavoro di scouting, c’è gente che cerca nell’underground musicale e ti porta dentro al talent mentre prima trovati il ragazzetto che voleva diventare una star. Un cambio molto positivo secondo me.

Iscriviti