Sono nuove «canzoni di merda», ed è l’autore a definirle così, quelle che compongono Venti, ottavo disco di Giorgio Canali & Rossofuoco in uscita il 4 dicembre per La Tempesta. Venti brani affiorati durante il lockdown, in una condizione di costrizione e isolamento che pare abbia tolto l’ispirazione a molti, ma non a Canali, che con questo doppio album, da buon cantautore che non smette i panni del rocker, fa un intenso viaggio tra rabbia e malinconia, dove la riflessione sociale è sempre intrinsecamente e profondamente esistenziale.
«Abbiamo iniziato a scrivere Venti lo scorso marzo, come operazione anti-noia durante il lockdown», racconta l’ex CCCP/CSI/PGR, classe 1958. «A quanto pare avevo un sacco di cose da dire, perché davvero, non avrei mai pensato di arrivare a così tanti pezzi, oltretutto lavorando a distanza: io ero a Bassano del Grappa a casa di Stewie (DalCol, chitarre e piano, nda); lui a sua volta stava a Miami; Luca (Martelli, batterista, nda) si trovava in Sardegna dalla fidanzata; Marco (Greco, bassista, nda) a Bologna. E Francesco Felcini ha mixato tutto dalla Toscana. Abbiamo iniziato a scambiarci file e a un certo punto qualcuno ha detto “andiamo avanti, facciamo un doppio!”. C’è chi ha persino azzardato l’idea di un triplo, ma ho risposto che non era il caso: “Non siamo gli Yes, basta, finiamola qui!”».
Allora che dici? Viva lo smart working?
Per niente! Ma per noi era una modalità nuova, probabilmente questo ci ha stimolati.
Il risultato è un disco particolarmente denso, in cui lo sguardo che aveva nutrito il precedente Undici canzoni di merda con la pioggia dentro si fa ancora più lucido.
Per me Venti è meglio del precedente, e non credevo fosse possibile. Ma è meglio solo per il fatto che se già di quello ero soddisfatto, questo contiene il doppio dei pezzi: è una questione di quantità, o una formalità, per fare un’allusione.
Chi ha orecchie per intendere… Qual era il tuo stato d’animo quando hai iniziato a scrivere?
Ero incazzato nero. Perché quando vedi la tua gente, i tuoi fratelli, disposti ad accettare di tutto e di più… Però se spiego questa cosa la redazione di Rolling Stone mi mette un titolo che mi fa passare per un complottista. Chi vuole, ascoltando l’album intuirà.
Però questa è una mia domanda.
Allora… Il fatto è che se ti dicono di camminare su un piede solo e di fare benzina solo con la mano sinistra e senti dire che sì, è giusto obbedire perché è per la nostra salute, e se poi vedi che se cammini con due piedi e fai benzina con la mano destra ti vengono a urlare contro, perché sono stati indottrinati in quella maniera, la situazione diventa pesante. E io inizio ad avere paura, ma molta di più di quanta ne avessi quando si parlava di colpi di stato negli anni ’70, perché qua il colpo di stato ce lo stiamo facendo da soli. Cioè, il coprifuoco alle 22, a che serve? A me evoca cose di tipo cileno, non posso farci niente. Mi fanno notare che abbiamo cambiato secolo, mi accusano di essere rimasto indietro perché sono un vecchio di merda, ma posso dire che sono preoccupato? L’assoluta mancanza di critica da parte della maggior parte della gente è inquietante. Per questo, nonostante mi fossi imposto di non parlare della pandemia in questo disco, a furia di buttare fuori pensieri e parole ci sono cascato dentro.
Non del tutto; al di là del Covid-19, Venti è un attacco generale a quella che definisci “la liturgia del pensiero unico”. Ed è una riflessione accorata, a tratti dolente, su un mondo che mette a tacere ogni forma di disobbedienza civile.
Perché da che mondo e mondo ridicolizzare chi mette in discussione il sistema è una reazione insita in quel sistema. Voglio dire, lo ha ammesso candidamente persino Cossiga, che negli anni ’70 per zittire l’estrema sinistra in Italia è bastato far passare tutti per delinquenti. Punto, capito? Come si fa a non pensarci, a una cosa del genere?
Per questo in Inutile e irrilevante affermi con sarcasmo “manifestante no global, non servi più”?
Chiaro, c’è sempre qualche cattivo da tirare in ballo. Dopo il G8 di Genova s’iniziò a dire che i no global erano coalizzati con i black bloc. Ma sapevo sarebbe finita così, infatti a Genova in quel luglio 2001 non ci sono andato. Perché non sono un rincoglionito, né un complottista, sembra che mi faccia i miei viaggi ancorato a un passato che non esiste più, ma non è così, sono uno che ragiona. Per lo stesso motivo sapevo anche che il successore di Papa Giovanni Paolo II sarebbe stato Ratzinger: gli unici due a puntare su di lui eravamo io e Giovanni Lindo Ferretti, solo che lui era convinto, io impauritissimo! Forse sono un filo paranoico, questo sì, ma la paranoia, se leggera, ti salva, ti permette di scappare cinque minuti prima del terremoto.
Ok, ma tu cos’avresti fatto con questa pandemia?
Quello che hanno fatto in Svezia, e lo so che là gli abitanti sono poco più di 10 milioni. Ma il problema è un altro, ossia che in Italia non abbiamo le strutture giuste e non è certo colpa della gente. Però non è che dato che il sistema sanitario è malmesso puoi mettere tutti in galera. Per dire… Che si lavori sulle strutture! Negli anni ci hanno provato più volte a tirare fuori questa storia della pandemia, pensa all’Aids, ma stavolta la crisi economica che c’è dietro è molto più grossa e dare la colpa a un virus è molto più facile che dare la colpa al sistema. Per di più metti tutti in riga… Perché la gente ci sta, in riga, quando ha paura di morire.
Tu non hai paura di morire?
Ma io sono immortale! (ride, nda). E se morissi, chi se ne frega? Non si perde niente.
“Morire perché? Un motivo si trova, fra tutte le sante ragioni del mondo ce n’è sempre una nuova”: è l’incipit del singolo di lancio di Venti.
Non è così?
Insomma, è l’“ottimismo buonpensante” che citi in Circondati che non ti va giù?
Quello è Orwell.
L’opposto è il nichilismo?
Ma no, io sono nikilista al massimo perché sono stato tifoso di Niki Lauda. Ma neanche, in realtà a me piaceva James Hunt! Sai cosa? In questo album ci vedo anche molto il fattore personale, i miei sogni, i miei incubi. C’è tutto un lavoro su me stesso e conta di più di tutti i proclami che può contenere. Che poi, proclami… È semplicemente un disco mezzo pop con dell’attenzione verso la realtà circostante.
E politicamente indignato, è innegabile. Ma è vero, c’è un lato intimo, forse persino romantico; si percepisce la mancanza di un amore.
Più che altro dentro c’è la consapevolezza che sono di nuovo molto mio. Sembra che stia male, lo so, ma in qualche modo sto bene. Perché in questo momento non sono di nessuno. Hai presente lo slogan delle femministe negli anni ’70? “Io sono mia”, gridavano. Ecco, ci sono stati periodi della mia vita in cui sono stato di qualcun altro, ma quando posso dire che sono mio per me è una soddisfazione. E in fondo è qualcosa che rivendico da sempre.
Prima citavi sogni e incubi: sono la materia prima di Eravamo noi, canzone carica di malinconia su una società che cambia senza cambiare mai, e sì, sui sogni che diventano incubi. Credo emozionerà molti.
Eh, quella è una menata da sessantenne.
Anche un bilancio, no?
Il bilancio è nell’ultima strofa: “E siamo noi, siamo noi che continuiamo a precipitare per un vuoto d’aria, un vuoto di memoria, un vuoto più vuoto del vuoto qui dentro, e adesso non ti sento”. Perché è così che va e se mi guardo attorno mi girano i coglioni a bestia. Il che non esclude che io dentro di me sia serenissimo, anzi. Dico solo che avrei preferito se ci fossimo evoluti come le società del Nord Europa. Anche perché qua come si fa? Al momento non riesco manco a pagarmi l’affitto, ho dovuto annullare una decina di concerti. Ma mi rifiuto di darmi allo streaming.
Del resto, dubito ti risolverebbe il problema.
Hai ragione, chi cazzo pagherebbe per vedermi online?! (Ride, nda).
Più che altro se sei un artista internazionale puoi fare un concerto online per ogni Paese, ma altrimenti quanti ne puoi fare?
No, ma infatti, meglio lasciar stare. Spero di fare altri concerti, pur con le mascherine, a breve. E comunque vada sarà sicuramente più bello dopo, quando potremo tutti saltarci addosso e mescolarci.
Cosa pensi delle iniziative come Scena Unita, messe in piedi per chiedere una regolarizzazione dei lavoratori dello spettacolo?
Ma che si regolarizzino gli altri! Mi spiace, ma io voglio essere un irregolare, non ho mai preso un contributo. Quando vivevo in Francia, all’inizio degli anni ’90, col numero di cachet che avevo in un anno avrei avuto diritto agli assegni di disoccupazione: ogni 70 cachet in un anno, ti spettavano altri 300 giorni scarsi coperti. Secondo te ho mai fatto la trafila per avere quei fondi? No, perché non ci credo. Come non sono andato a chiedere i soldi all’Inps, i bonus vari per il Covid. Figuriamoci, mi sento ancora in colpa perché qualche anno fa sono stato curato gratuitamente al Pertini a Roma per un’ulcera! Benché ne avessi il diritto, mi pesa avere gravato sul sistema sanitario nazionale. Poi c’è un altro aspetto: in Francia non è tutto perfetto, ovvio, ma i contributi alla discografia li ho visti gestire abbastanza bene; in Italia, invece… Guarda i contributi statali per il cinema dove finiscono: sempre nelle mani degli stessi. Diventa un meccanismo ambiguo, gestito così.
Ma tu perché sei rimasto in Italia?
Perché, a parte alcuni esperimenti come il Politrio, avevo iniziato a scrivere canzoni in francese, solo che a un certo punto mi sono detto: “Prova a fare la stessa cosa in Italia senza il pudore per le cose che spari”.
È stata una sfida?
Sì, perché il pudore delle parole spesso ti blocca. Volevo essere spudorato in italiano.
E adesso con Venti omaggi i cantautori che ti hanno ispirato: in ogni traccia c’è almeno una citazione più o meno nascosta, da De Gregori a Branduardi, da Battiato a Guccini. Cos’hai capito dello scrivere canzoni?
Che quando riesci a emozionare qualcuno è bello. L’altro giorno una mia amica speaker radiofonica mi ha scritto su Instagram che stava trasmettendo Morire perché e che aveva il singhiozzo: sono cose che ti fanno stare bene.
E della scrittura come gesto artistico?
A me le canzoni vengono fuori da sole. Uno dei pezzi che spiega meglio come è Questa è la fine, del 2002: l’ho scritta cantandola al microfono, avevo cinque o sei parole in testa e in un’ora e mezza l’ho chiusa. Spesso succede così. Di solito con i Rossofuoco s’improvvisa molto insieme: registriamo le improvvisazioni e successivamente le strutturiamo in una forma canzone, decidendo cosa può essere una strofa, cosa un ritornello, cosa un ponte. Poi io, da solo, ci metto le parole. Questa volta abbiamo fatto così in alcuni casi, scambiandoci una parte e poi aggiungendone un’altra, per qualche pezzo partendo addirittura dalle batterie. In altri casi, invece, siamo partiti da una voce e una chitarra, nella maniera più classica.
Intervieni molto sui testi?
Molto, sì, sono capace di riaprire un mix per cambiare anche solo una parola. Perché ho rispetto per le parole, ma soprattutto per me stesso, e visto che nella vita mi è capitato più volte di pubblicare album, sia con i CCCP/CSI sia con i PGR, di cui non ero convinto, con dentro cose che mi lasciavano perplesso… Con i Rossofuoco questo non esiste: se non sono soddisfatto al 101 per cento il disco non esce.
In questo non mancano episodi combat rock, c’è il folk, si sentono echi di new wave…
Quelli sono di Stewie, prima dei Litfiba la new wave italiana sono stati i suoi Frigidaire Tango, uno dei miei gruppi preferiti in assoluto. Tant’è che poi ritrovarmi a suonare con lui è stata una soddisfazione bestiale. Come aver suonato con Gianni Maroccolo: da ragazzino lo ammiravo, aver suonato con lui per tanti anni mi ha reso felice. Idem per Brian Ritchie dei Violent Femmes, altro bassista che amo. Ora mi manca solo Jean-Jacques Burnel (degli Stranglers, nda).
Poi ci sono gli assoli di chitarra, una rarità ormai.
Uno solo, però, è mio, quello di Nell’aria. Gli altri sono di Stewie, si è preso tutto lo spazio del mondo, erano rimasti un paio di pezzi con due assoli miei bellissimi, ma mi ha chiesto se poteva provare a rifarli ed è andata che alla fine abbiamo usato i suoi. Però sì, mi piacciono gli assoli, ma solo perché già sparo troppe parole.
Con Vodka per lo spirito santo omaggi Mark Lanegan.
Spudoratamente! Mi piace da matti, lui.
Cos’altro ascolti?
Di roba americana Wovenhand e 16 Horsepower; il cantante, David Eugene Edwards, mi piace un sacco. In Italia l’ultima cosa che ho sentito di interessante è La Rappresentante di Lista, ma magari sono vecchio e distratto io. Di recente ho prodotto delle cose belle italiane, nessuno se le cagherà mai, ma tant’è: il primo album di Mattia Prevosti, cantautore di Varese, e un disco non ancora uscito di Aleph Viola, attore e cantautore di Genova.
Tornando a Maroccolo, ho visto la puntata del programma di Sky 33 Giri Italian Masters dedicata a Tabula Rasa Elettrificata e mi sei sembrato il meno emozionato.
Emozionato zero! Perché cazzo, sono passati 23 anni, non si può sempre ripensare al passato. Non che non ami quel disco, anzi, è quello che mi convince di più dei CSI. Anche se secondo me il più bello in assoluto di quell’era è l’ultimo dei PGR, Ultime notizie di cronaca. Che nessuno si è inculato, ma ok, se la gente non se n’è accorta cazzi suoi; forse Giovanni era già andato troppo in là con le parole, quindi ciao, si è persa una bella fetta di pubblico, ma quell’album è densissimo e molto, molto particolare.
Si dice che le ideologie sono morte, ma capita spesso che gli artisti vengano giudicati in modo ideologico, lo hai notato?
Infatti adesso anch’io passo per destrorso, pensa te!
In Circondati dici, parafrasandoti, che ormai va bene solo la Resistenza di 80 anni fa.
Ah, sì, basta non riportarla ai giorni nostri, perché se no…
Il fatto di essere nato e cresciuto a Predappio, il paese di Mussolini, pensi abbia condizionato il tuo modo di pensare?
No, assolutamente no. Pensa che a 17 anni ho rischiato di diventare mezzo nazi, perché mio padre era uno stalinista e sai, il contrasto generazionale…
Insomma, per non sbagliare sei diventato anarchico.
Solo finché non ho incontrato degli anarchici che dicevano “noi anarchici”.
È un no definitivo a qualsiasi appartenenza?
Esatto, Giorgio Canali ora è un vecchio che la sera se ne sta sul divano a guardarsi le serie su Netflix o Amazon, poi ogni tanto si dà una mossa per scrivere qualcosa e magari gli viene pure qualcosa di carino, poi fa concerti e se non può si attacca e aspetta che arrivino tempi migliori.