Mentre siamo con gli occhi puntati verso il palco dell’Ariston, e l’anima chiaramente altrove, ecco una performance che normalmente avresti visto bene su un lettino da psicanalista, dentro un teatro, dentro un film di Nanni Moretti. Il bello di Giovanni Truppi a Sanremo è la forza della sua rivendicazione di un Sanremo a-divertentistico e, con esso, una difesa, delicata ma determinata, del suo sacrosanto diritto a non piacere a tutti, ad annoiarne cento per commuoverne uno.
Ti collochi esattamente a metà tra le due categorie umane sanremesi di riferimento: i giovani spiegati ai vecchi e i vecchi svelati ai giovani. Sei l’unico indomito eroe di nessuno dei due mondi in cui è diviso il pubblico del Festival. Guardando la tua performance la prima volta è subito evidente che rappresenti da solo un’elevata percentuale della quota intellettuale dell’intera edizione 2022. Eppure anche il voto della sala stampa ti ha collocato a metà classifica. È la conferma che Sanremo non è un paese per persone profonde e sensibili? Oppure c’è qualcosa che la tua nicchia di riferimento può ancora giocarsi nelle prossime serate?
Non ho sentito tutte le canzoni, però conosco molti degli artisti che sono al Festival. So che alcuni di loro si rivolgono a un pubblico molto giovane e so che altri, anche per proprie ragioni anagrafiche, hanno un pubblico di riferimento con un’età nettamente superiore rispetto al mio abituale riferimento. Mi riconosco in questa posizione di mezzo, dove non mi sembra di essere il solo: sono insieme alla Rappresentante, Dargen, o lo stesso Fabrizio Moro, che hanno un pubblico tutto sommato simile al mio, quantomeno per età.
Rispetto all’evoluzione della classifica davvero non so pronunciarmi. Non credo di essere bravo a fare questo tipo di previsione. Riguardo le preferenze della sala stampa, mi sembrano rispecchiare l’immagine che ho di Sanremo: una sorta di parlamento della musica, dove tutto quello che c’è sulla scena italiana trova una sua rappresentazione. E questo vale sia dal punto di vista artistico che giornalistico. Trovo normale che non tutta la stampa sia innamorata della mia musica, anche se per fortuna qualcuno c’è, e la classifica rispecchia anche questo.
A una seconda esperienza del tuo pezzo in gara, anche per via del doppio canale performativo che hai voluto inscenare, parlato e cantato (che di fatto ne raddoppia la difficoltà), emerge ancora meglio la sfida al gusto della maggioranza che la tua presenza all’Ariston costituisce. Tuo padre, mia madre, Lucia – che ha un testo complesso, piacevole da leggere almeno quanto da ascoltare – è quasi un’intimidazione: provaci, a canticchiarmi! E non intendiamo solo sotto la doccia, ma anche su una comoda chaise longue, provando a intonarla con un atteggiamento più riflessivo. Quanta volontà esplicita c’era, da parte tua, di essere l’acheo della situazione, dentro il cavallo di Troia della musica d’autore, all’assedio del palco mainstream? E quanto invece, nelle tue intenzioni, c’era solo di essere un Giovanni Truppi a cui è capitato di essere a Sanremo?
Innanzitutto premetto che ci sono tanti modi di scrivere musica e di scrivere canzoni. E ci sono altrettanti modi di scrivere canzoni che a me, mettendomi dalla parte del pubblico, possano piacere. Detto questo, difficilmente io, superata la soglia dei 25 anni, mi sono approcciato alla scrittura avendo come riferimento del mio lavoro l’obiettivo di essere canticchiato, che fosse sotto la doccia o sulla chaise longue. Non è una cosa che mi interessa. Questo, anche se le canzoni che posso cantare sotto la doccia mi piacciono e penso che facciano bene alla vita di tutti, compresa la mia. Per quanto riguarda questo brano e la mia partecipazione al Festival proprio con esso: per me era molto importante essere presente a Sanremo con una canzone che fosse una canzone di Giovanni Truppi, dotata dunque delle caratteristiche della musica che ho cercato di fare in questa ultima dozzina di anni. Se non fosse stato possibile, non sarei andato a Sanremo, perché sarebbe stato controproducente.
È come se, sulla falsariga degli insegnamenti di Antonio Capuano nell’ultimo film di Paolo Sorrentino, anche tu, del resto napoletano, hai provato a non disunirti. Ha davvero senso non disunirsi a Sanremo?
Ha senso non disunirsi mai, a mio parere. Penso che sia una cosa molto importante. Fatichiamo tutta la vita per capire chi siamo e costruire la nostra identità e trovare il nostro modo di stare al mondo, e dunque è bene preservarli. Ciò però non significa che non possano essere messi in discussione. E ci vuole coraggio sia per difendere sé stessi che per mettersi in discussione.
Il pezzo mostra una relazione sentimentale vista attraverso la lente deformante del tempo e delle emozioni, nostre e degli altri. È dunque un canto bergsoniano-proustiano. Ci regali un Tuo padre, mia madre, Lucia spiegato bene?
Con questa canzone ho cercato di inquadrare il sentimento amoroso che lega due persone nel momento in cui ha appena varcato la soglia — detta alberonianamente — dall’innamoramento all’amore. In quel momento nell’amore entra in gioco una componente di progettualità, di temporalità. Questa conosce il suo culmine nel ritornello: “Amarti è credere che quello che sarò sarà con te”. Nel mio futuro mi immagino indefinitamente insieme a te. Così si arriva a un altro aggettivo importante: adulto, che ricorreva spesso nelle conversazioni del gruppo con cui ho lavorato al brano.
Anche il titolo è molto importante: da lì discende tutta la canzone, il cui testo è come un palcoscenico. In platea ci sono Tuo padre, mia madre e Lucia. Il titolo sta in platea e osserva quello che accade nel testo. Si diventa adulti soprattutto confrontandosi col mondo esterno. E una relazione, insieme a noi, diventa adulta quando, cercando una conferma della sua forza, conosce il suo primo pubblico: la famiglia, oppure semplicemente un gruppo di amici.
A proposito degli altri autori. Colpisce come un brano così intimo e personale possa essere frutto del lavoro di un vero e proprio collettivo, i cui membri sono inevitabilmente dotati di una propria particolare identità. Com’è stato lavorare di concerto non solo coi tuoi coautori storici ma anche con Pacifico e Contessa?
È stato molto semplice e molto bello. Devo dire che il presupposto era partire da una mia idea. Il materiale emotivo e artistico l’ho prodotto e gestito io. Ho trovato un gruppo di persone molto affini a me e al mio modo di pensare e di scrivere, e anche molto umili: non c’è mai stato un solo problema rispetto alla mia gestione molto personale della produzione. Inoltre non abbiamo mai lavorato in più di due persone allo stesso tempo. Ero io che di volta in volta incontravo Gino o Niccolò, o mi confrontavo con Marco o con Giovanni, per poi ritornare alla base ragionando su quello si era detto o scritto. In qualsiasi lavoro collettivo, se si ragiona con più teste nella stessa stanza, il processo può essere bello ma anche molto faticoso.
Della performance sanremese forse non è stato compreso del tutto o da tutti un particolare aspetto. E cioè che gli stridii e le discordanze che ci sono tra i due registri e le due identità che porti avanti nell’esecuzione, e che a volte sono compresenti nella stessa identità, sono frutto di una precisa scelta estetica. Una scelta che sembra includere, tra le dissonanze che sono parte della narrazione, anche quasi un disagio metamusicale di te un po’ alieno su quel palco, in un contesto cui non sei abituato. Come hai costruito l’interpretazione del brano, a partire da quelle due voci compresenti?
La convivenza di quei due registri, parlato e melodico, è parte del mio discorso artistico da molto tempo. Dunque non c’è stata molta costruzione: quei due registri fanno parte di me. Non conosco differenza tra il momento in cui parlo e quello in cui canto. Per me questo è cantare.
È probabile che la tua canottiera nera resti una delle icone di Sanremo 2022. Qualcuno ha polemizzato invocando un concetto di decorum che non si confà molto a quel contesto. Per altri la tua scelta stilistica ha funzionato come una forma di trasgressione al contrario, soprattutto visto e considerato che il Festival è cominciato con Achille Lauro che si autobattezza seminudo ed è proseguito con Orietta Berti vestita da rosa, con tanto di spine, a bordo di una nave da crociera al largo della costa ligure. Viene il dubbio che forse ci si sarebbe soffermati di meno su un aspetto così superficiale della tua performance se avessi scelto una veste ancora più normcore. Senza essere lookologi diremmo: un paio di maniche? Come hai pensato a questa postura?
Da quando ho iniziato a fare questo lavoro mi esibisco in canottiera. Considerato che, per me, l’obiettivo principale di questa esperienza era raccontarmi nella maniera più fedele possibile, quando sono arrivato a pormi il problema di come vestirmi mi è sembrato logico non proporre variazioni anche in quel campo. Il look non è qualcosa che io prenda sottogamba. Tra l’altro ho una stylist. Come cantante io mi sento rappresentato in questo modo. E sono un po’ colpito dal fatto che questa scelta desti così tanta attenzione se penso che, in quanto a eccentricità, credo che a Sanremo ci siano dei colleghi tanto più avanti di me.
Tutto l’universo esce oggi ed è una raccolta personale dei pezzi che ritieni i più importanti della tua carriera. Il fatto che vi sia presente anche il brano sanremese, un inedito inserito per direttissima, è un segno particolare di attenzione al Festival?
Lo dico a caldo e spero che il tempo mi dia ragione: Tuo padre, mia madre, Lucia entra direttamente perché mi sembra che regga bene il confronto con gli altri pezzi selezionati, che per me sono tra i migliori che ho scritto. Non solo. Ci entra anche perché questo brano è il motivo per cui la raccolta, concepita con la mia casa discografica proprio in occasione del Festival di Sanremo, esiste. Abbiamo pensato che, presentandomi in quel contesto, una parte di pubblico avrebbe potuto volerne sapere di più su di me.
La cover di Nella mia ora di libertà di De André con Capossela con cui ti esibirai questa sera sembra avere non solo un chiaro messaggio politico ma anche dirci, ancora una volta, qualcosa sulla tua condizione personale sul palco di Sanremo.
Ho scelto di proporre Nella mia ora di libertà perché è una canzone politica e radicale, dalla quale mi sento totalmente rappresentato. È uno dei miei brani musicali del cuore ed è un compendio di istanze molto importanti e attualissime. Dal momento che, per tutto il resto delle serate, canto una canzone d’amore; e visto che, nel mio piccolo, in questi anni non mi sono occupato solo di sentimenti, mi sembrava opportuno raccontare anche quest’altra parte di me. Mi sarei sentito a disagio se non l’avessi potuto fare.
Un Giovanni Truppi così inevitabilmente anticonformista rispetto a rituali e vezzi di Sanremo che esperienza festivaliera può fare, prima o dopo le dirette, che non tutti gli altri artisti in gara possono permettersi di fare?
In realtà credo che questi giorni siano tra i più intensi, dal punto di vista lavorativo, della mia vita in musica. Le giornate cominciano abbastanza presto, intorno alle 9 del mattino, con tante, tante interviste e proseguono con diversi altri appuntamenti promozionali. Purtroppo la pandemia ci costringe a limitare le altre occasioni di incontro. Coi colleghi arriviamo spesso alla diretta senza esserci visti. Detto così sembra che facciamo una vita un po’ monastica. Io sono molto felice di fare questa esperienza, anche se è molto meno rock and roll di come la si può immaginare.