È un anno particolarissimo per la musica in generale, figurarsi per quella italiana. Improvvisamente le certezze su quello che tira si basano esclusivamente sulle azioni di marketing delle case discografiche, sui like comperati e sulla massa che, con poca voglia di informarsi, acquista ciò che è più in vista, come si farebbe con i würstel al supermercato.
Oggi si fa lo slalom tra chi grida a trionfi più o meno costruiti a tavolino e tra chi si lagna dicendo di voler cambiare Paese e mestiere. Una volta c’era chi combatteva a testa alta contro le avversità della vita e del mercato, facendo dei fallimenti e dei successi un continuo tesoro, producendo arte senza compromessi. È il caso di Giuni Russo, uno dei nomi più importanti e trasversali del pop italiano, ahimè scomparsa 16 anni fa di cui parlammo largamente qui, capace di passare con scioltezza dai “fonemi sardi oppure giapponesi” alla “Norma di Bellini”, come confessava nel brano simbolo del 1981 Una vipera sarò, co-prodotto da Battiato.
Ancora oggi faro per chi cerca esempi di coerenza e di forza musicale nella storia della nostra “canzonetta”, la cantantessa siciliana è tornata sulla terra in forma di disco postumo, nel quale troviamo inediti e rimasterizzazioni che celebrano una voce mai dimenticata. Una voce Aliena, come da titolo dell’album in questione. Per saperne di più abbiamo voluto parlare con la custode principale dello scibile della Russo, ovvero l’autrice e produttrice Maria Antonietta Sisini, anima gemella di Giuni nonché fiera amazzone della buona musica. A voi questa intervista esclusiva per Rolling Stone in cui la nostra eroina apre nuovi scrigni colmi di gioie preziose firmate ovviamente Russo.
Maria Antonietta, per cominciare è un onore parlare con te e ti ringrazio per questa intervista. Tu non le rilasci spesso, giusto?
Sono io che ringrazio te. Hai ragione, sono molto restia a rilasciare interviste, lo sono sempre stata… dietro le quinte mi trovo meglio.
Come ti trovi col giornalismo medio musicale italiano? Credi che abbia fatto un buon servizio a Giuni nel tempo oppure no?
Con il giornalismo musicale italiano non mi trovo male, però scindo la categoria in due parti: quelli che fanno il loro dovere di critici musicali e quelli che fanno finta di niente anche davanti a un talento fuori dal comune come Giuni. Quest’ultimo tipo di giornalismo non ha certo fatto alcun buon servizio a Giuni perché l’ha ignorata o relegata alle canzonette estive, e ancora continua così. Ti ringrazio della domanda, l’aspettavo da anni.
Nel 2006, scrissi una lettera a tutti i giornalisti esprimendo la mia profonda delusione per il loro silenzio su una pubblicazione postuma e, più in generale, per la poca considerazione dimostrata nei confronti di Giuni. Scrissi: «Giuni Russo dovrebbe stare all’Italia come Om Kalthoum sta al mondo arabo, come Amália Rodrigues sta al Portogallo, e come Maria Callas sta alla Grecia» . Il direttore di un noto quotidiano nazionale mi rispose: «Mi permetto di dire che il paragone con Kalthoum, Rodrigues e Callas è azzardato… le signore predette hanno avuto una notorietà e un impatto sul loro Paese e le loro società molto superiori a quella che ha avuto Giuni da noi». Ecco, evidentemente, al direttore è scappato il mio “dovrebbe”, affondando ulteriormente il coltello nella piaga. Ma questo la dice lunga sul pregiudizio di alcuni.
Veniamo al dunque: Aliena è il nuovo disco postumo di Giuni ed ha subito ottenuto un certo successo: terzo nella classifica dei vinili e il singolo Song of Naples primo nella classifica MEI e secondo su iTunes. Ti aspettavi questi risultati in un 2021 così difficile per la musica?
Sinceramente non me l’aspettavo, è stata una bella sorpresa anche per me. Non solo perché, in generale, sono tempi difficili per la musica, ma soprattutto per il genere musicale che adesso va per la maggiore, lontano anni luce dalla bellezza di una melodia e di un testo ispirato, non buttato giù per fare due rime. La qualità vince sempre, in un modo o nell’altro.
Giuni avrebbe compiuto 70 anni quest’ anno, e questo disco è un doveroso omaggio a questo anniversario. Nonostante la ricorrenza, Giuni sembra non invecchiare musicalmente mai. Tu che sei stata sua compagna di vita puoi rivelarci quale era il suo segreto?
Lo studio, incessante. La continua sperimentazione, la curiosità della ricerca musicale e vocale, una incrollabile passione. Come ha scritto Borges, cerca per il piacere di cercare, non per quello di trovare. Per Giuni la ricerca era proprio questo, un piacere. Penso che Giuni non invecchierà mai, se ascolti Energie del 1981, è un disco che è sempre stato avanti, attualissimo anche oggi. A settembre avrebbe compiuto 70 anni. Ho vissuto e lavorato con lei per 36 anni, siamo cresciute insieme. È dura andare avanti, non me ne farò mai una ragione.
Il disco contiene brani rimasterizzati e riarrangiati per l’occasione più quattro inediti che fanno senza dubbio gridare al meraviglioso. Quindi perché non pubblicare solo un EP? Forse l’idea era quella di mettere su una specie di greatest hits futuribile, visti i brani non proprio popolari e principalmente postumi contenuti, in modo di non cadere sempre nella banalità delle raccolte stile Un’estate al mare?
Aliena ha come sottotitolo Giuni dopo Giuni perché ho voluto raccogliere alcuni dei brani pubblicati postumi a mio parere rimasti nascosti, un po’ minori. Ho voluto dar loro la giusta collocazione, lo meritano. Infatti dai moltissimi messaggi che riceviamo sulle pagine social di Giuni si evince quanto queste canzoni sorprendano il pubblico, anche se erano state già pubblicate. Ho voluto però non solo rimasterizzarle, ma anche riarrangiarle, aggiungendo ritmiche o strumenti nuovi. È un album che rappresenta molto Giuni in tutte le sue diverse anime, dal pop, al sensuale, al mistico.
Parliamo dei brani inediti. Gli uomini di Hammamet è un brano incredibile che da una parte è un inno all’amore omosessuale senza pregiudizi e dall’altra è il primo brano trap di Giuni. Sembra quasi che non abbia fatto altro nella vita, la sua musica aderisce perfettamente alle nuove generazioni. È come la dimostrazione che se fosse viva avrebbe salutato sicuramente il fenomeno come fonte di ispirazione, senza tante condanne come invece fanno certi bacchettoni della musica. A quando risale la demo del pezzo?
La demo risale alla metà degli anni ’90. È un brano che, come altri, avevo completamente dimenticato. Un giorno andai al cinema a vedere Hammamet, alla fine del film ho avuto come una folgorazione e mi sono detta: ma non avevamo scritto una canzone su Hammamet? Tornata a casa cercai subito fra i mille nastri in archivio e fortunatamente l’ho trovata. Però era solo una demo fatta in casa. L’ho portata in studio ed è nato il gioiellino che apre l’album. Come ho detto sopra, Giuni era molto curiosa, diceva sempre che qualsiasi genere musicale se ispirato, merita rispetto, che piaccia o meno. Purché sia una forma di evoluzione, di comunicazione anche se diversa dagli stereotipi.
La forma dell’amore è un altro brano manifesto che ricorda molto gli afflati battiateschi de I treni di Tozeur, altro inno alla sensualità ma stavolta in chiave spirituale.
Parli degli afflati battiateschi: fra noi e Franco c’è sempre stato un legame molto profondo e una particolare intesa spirituale. Di conseguenza può capitare che alcune ispirazioni si ritrovino uno nei brani dell’altro, se rendo l’idea. In special modo Giuni e Franco, quando cantavano insieme, erano l’impersonificazione della musica, ed erano in totale armonia.
In Giuni il tema è sempre stato molto forte quanto contraddittorio: la razionalità che non la fa vivere, ma è la sua forma d’ amore. Qual era la vera Giuni, in questo senso? Era difficile stare con lei come si evince dal testo di Para siempre, che sembra incoerente rispetto a quello che canta nel testo de La forma dell’ amore?
Non sono testi biografici. Para siempre era stata scritta per un’altra cantante, che caratterialmente è così… Mentre La forma dell’amore è molto più vicina a Giuni. Amava tanto questo brano, ma non le fu possibile pubblicarlo, per le note ragioni discografiche. Non era affatto difficile vivere e lavorare con Giuni, tutt’altro. Aveva un carattere dolcissimo, contrariamente a ciò che dicevano di lei le persone che non la conoscevano. Sul lavoro era molto precisa, pignola, mirava alla perfezione, non scendeva mai a compromessi e questo dava fastidio ad alcuni. Era simpaticissima, come sa anche il pubblico che ha assistito ai suoi concerti. Timida, molto timida direi.
De La forma dell’amore esiste anche un video girato da Ivan Cattaneo, altro grande personaggio. È un video in cui si respira la grande forza e allo stesso tempo la grande leggerezza di Giuni. Forse, al di la della musica, è stato questo il suo vero insegnamento?
Certo. Lei stessa si definiva come una medaglia dai due lati, quello più impegnato di Morirò d’amore, La sua figura, ecc, e il lato più leggero di Alghero e Un’estate al mare. Quando le proposero quest’ultima, le dissi: ma con la tua voce devi cantare questo? Lei mi rispose: è simpatica, leggera, mi piace. Mai avrebbe cantato un brano che non le piaceva o non sentiva suo, figurati che nell’83 rifiutò di andare a Sanremo quando la Caselli le voleva imporre di cantare Un amore grande, fu la stessa Giuni a consigliare di proporla a Pupo.
Il video de La forma dell’amore contiene le immagini girate da Ivan nel 2002 a casa nostra. Ricordo bene quella giornata, nonostante Giuni fosse molto provata, ci siamo divertiti tantissimo. Ivan regista è un vulcano, si arrampicava su per le scale con delle tende assurde ed è stato divertente, una ventata d’allegria in quel duro momento della vita di Giuni. La sua forza superava tutto. Rivendendo quelle immagini mi sono resa conto che si sposavano benissimo con La forma dell’amore. Questo è solo un esempio della forza di Giuni e del suo insegnamento, chi saprà ascoltarla con il cuore scoprirà ben altro.
Song of Naples è un altro gioiello, che oltre ad essere cantata in dialetto partenopeo e citare una pellicola di Campogalliani, è un’ode alla vita a tutto tondo. È l’ultima canzone scritta prima della morte: qual è stata la genesi della canzone? Giuni qui sembra perfettamente in linea con gli esponenti del neapolitan power di ieri e oggi…
Giuni aveva per i grandi classici della musica napoletana un amore che le trasmise la madre con il latte del biberon. Nel 2002 il direttore della George Eastman House di Rochester, New York espresse il fortissimo desiderio di far interpretare a Giuni la colonna sonora del film muto Napoli che canta del 1926 del padre di Sergio Leone, Roberto Roberti. Insisteva molto, ma Giuni non ne voleva sapere perché la pellicola era sottotitolata con classici napoletani come O sole mio e Marechiare. Giuni era molto umile, come si addice a tutti i grandi, e aveva un timore reverenziale nell’affrontare questo genere di repertorio già cantato dai più grandi interpreti lirici come Caruso e Pavarotti.
Quando il direttore descrisse la scena finale del film, mi ricordò un episodio che mi raccontava sempre la mamma di Giuni. Quando lo riferìi a Giuni, lei disse: «Ma va? Fatti mandare questo film». Vedendolo disse subito: «È un film d’arte, lo faccio». Da lì è nato tutto. Evidentemente la lavorazione di Napoli che canta, che durò un paio d’anni, instillò un seme nell’animo di Giuni, dove trovò terreno fertile. Nella primavera del 2004, quindi pochi mesi prima della sua scomparsa, scrisse e volle a tutti i costi provinare Song of Naples, accompagnata soltanto dalla chitarra. È un brano struggente, cantato con infinita dolcezza.
Puoi immaginare come durante quel periodo la mia testa fosse altrove… e negli anni avevo totalmente dimenticato questo brano. Nel settembre scorso, mentre con mia figlia adottiva stavamo ascoltando un CD, cercando una base che sapevo essere lì, a un certo punto parte questo brano. Io zitta, incartapecorita. Alla fine mia figlia si gira, mi guarda e dice: «ma eravate due pazze a non pubblicare questa meraviglia». Stavamo lavorando ad Aliena e naturalmente l’abbiamo subito inserita. Ho volutamente lasciato voce e chitarra (facendola risuonare al bravissimo Riccardo Onori), senza aggiungere altro, così come l’aveva concepita Giuni.
In La sua voce invece l’amore è quello che a primo ascolto sembra divino, una voce interiore che sussurra “come sei bella” soprattutto nei momenti in cui ci si sente distrutti. Sembra anche una situazione un cui viaggiano paralleli un amore terreno e uno divino che parlano la stessa lingua e si confondono. Un pezzo sorprendente: sembra che la carnalità per Giuni fosse in fondo anch’essa un moto dello spirito.
Bravissimo, l’hai detto.
E poi Pekino, un brano che tutti noi fan della Giuni sperimentale dura e pura aspettavamo, una manifestazione di virtuosismo di etnomusicologia applicata e di naturalezza nell’interpretare i suoni del mondo senza risultare la solita mossa colonialista. Come è nato questo brano e perché solo ora lo troviamo su disco?
Pekino è un vero e puro divertissement. Lo cantava live negli ultimi anni. Quando nel 2001 lo cantò all’Auditorium di Milano ci fu un vero e proprio delirio, il pubblico rimase sorpreso, divertito, estasiato! E lei si divertiva a improvvisare con quella voce così… aliena. Era affascinata dall’Opera di Pechino, mi disse che se il Signore le avesse lasciato tempo avrebbe studiato per realizzare un album fuori da tutti gli schemi. Lo trovate solo adesso su disco per il semplice motivo che nessuno, in discografia, voleva pubblicarlo. Avrebbe dovuto far parte di Signorina Romeo Live del 2002.
Hai avuto difficoltà a portare avanti l’eredità artistica di Giuni in questi anni? Le uscite postume sono state sempre eccezionali, ma immagino ci sarà stata qualche malalingua a proposito e qualche ostacolo da parte delle alte sfere del potere discografico…
Le difficoltà sono esattamente identiche a quando Giuni era in attività. Ma il suo esempio e il forte senso del dovere mi portano ad andare avanti nonostante tutto. Ovviamente non mancano mai le malelingue sulle uscite postume. Alcuni dicono – i leoni da tastiera, con nickname – che raschio il fondo del barile, povera Giuni, che tiro fuori gli inediti con il contagocce per guadagnarci di più… ma sono soltanto dei provocatori. Non me ne curo.
Dall’altra parte, migliaia di persone esprimono sui social e con tante mail la loro gratitudine e mi spronano a non fermarmi mai, a portare sempre avanti l’opera di Giuni e i tesori che man mano riscopro anche io, a causa della mia memoria non più brillante come un tempo. Negli ultimi anni di vita Giuni decise che il potere discografico non ci avrebbe più ostacolato e quindi decise di produrre autonomamente i nostri dischi, e di darli solo in licenza. Ecco perché la gran parte del catalogo discografico di Giuni è di mia proprietà.
Tra i produttori e gli ingegneri c’è anche Pino Pinaxa, fido collaboratore di Giuni nonché mano sapiente dietro ai lavori di Battiato e, per dirne alcuni oltralpe, dei Depeche Mode di Violator. Quanto contava per Giuni la squadra di lavoro? Possiamo dire che nei suoi dischi lei era un catalizzatore di creatività collettiva? Sceglieva personalmente i suoi collaboratori?
Sì, li sceglieva con molta cura. Il suo motto era: il gruppo di lavoro è vincente. Pino Pinaxa Pischetola lo abbiamo conosciuto grazie a Battiato con il quale già collaborava. Sono trascorsi più di 20 anni e continuiamo a lavorare insieme in perfetta sintonia, ha conosciuto bene Giuni ed abbiamo lavorato tanto insieme in studio. Giuni in sala di registrazione amava essere coinvolta in ogni aspetto della realizzazione, ma sempre nel più profondo rispetto, lasciando piena libertà alla creatività dei musicisti. Sapeva fare squadra e creava la giusta armonia.
Insieme avete scritto tanti grandissimi pezzi, ma la gente spesso tende a ricordare Giuni per le canzoni di Battiato. Con Aliena direi che è arrivato il momento di ribadire che Giuni era una grande autrice oltre che cantante sopraffina. Forse il sottotitolo Giuni dopo Giuni sottintende proprio questo concetto?
Il perché del sottotitolo l’ho spiegato sopra, cioè ho messo insieme alcuni degli inediti postumi rimasti il luce minore. A dire il vero, la gente tende a ricordare Giuni per Un’estate al mare, croce e delizia scritta da Battiato, ma questo da parte della gente è comprensibile e perdonabile, perché la tv quando si parla di Giuni passa sempre questa. Non è perdonabile da parte dei alcuni colleghi. Per esempio, pochi anni fa, durante la conferenza stampa di Sanremo, parlando di Morirò d’amore che Giuni portò al Festival nel 2003, Arisa ci tenne a puntualizzare che il brano «è stato scritto da Franco Battiato». Ci rimasi malissimo. Il brano è stato scritto da Giuni e da me, arrangiato da Roberto Colombo e le parti elettroniche di Battiato. Anche nei primi album di Giuni in cui ci sono i testi di Battiato, le musiche sono firmate da noi due. Riguardo al periodo con Franco, ’80-83, abbiamo sempre scritto tutto a sei mani, dal 1984 in poi abbiamo continuato da sole. Giuni, oltre che una grande cantante, era anche una raffinata autrice, una su tutte di quel periodo: Mediterranea.
Il disco è evidentemente pensato come una lettera alle nuove generazioni: ci sono messaggi subliminali nascosti in queste canzoni?
Un’artista non pensa a mandare messaggi subliminali. L’ispirazione dall’alto è come il vento: soffia dove vuole, quando vuole. Però se gli ascoltatori di Aliena percepiscono messaggi subliminali… del resto non è una novità il fatto che Giuni fosse futurista, è sempre stata avanti!
Ma Giuni era davvero un’aliena?
Decisamente sì. A volte, mi ritorna in mente ciò che mi diceva e mi rendo conto che in quel momento forse ero assente, distratta, ma ripensando oggi alle sue parole mi dico: che stupida a non aver capito appieno. Giuni, se la devo dire tutta, non era di questo mondo, e non solo dal punto di vista artistico, ma anche umano.