Il 31 luglio è uscito il suo nuovo Such Pretty Forks in the Road, ma per Alanis Morissette il 2020 significa anche festeggiare 25 anni dell’album che l’ha resa una star mondiale, Jagged Little Pill. Un disco che ha una storia particolare – quale disco non ce l’ha? – ma in questo caso forse più del solito. Perché Jagged Little Pill non era stato progettato, ma è nato da uno di quegli incontri che capitano una volta nella vita. Parliamo di quello con Glen Ballard, produttore e autore con cui Morissette ha scritto tutti i brani del disco. Alanis aveva 20 anni e aveva alle spalle un percorso da teen idol canadese finita male. Si era ritrovata senza contratto discografico, con l’urgenza di capire cosa fare e cosa volesse diventare. Fortuna che un contratto ce l’aveva ancora, da autrice. E proprio per questo qualche lungimirante editore la spedì a Los Angeles per lavorare con Ballard. I due dovevano semplicemente «provare a scrivere qualcosa». Il risultato è uno degli album che meglio descrive il pop degli anni ’90, con tutto il carrozzone di MTV e videoclip annessi. Abbiamo raggiunto telefonicamente Ballard per farci raccontare qualcosa in più di quel disco da 33 milioni di copie.
Perché secondo te Jagged Little Pill ha avuto un tale successo?
Ha toccato un po’ di nervi scoperti. È pieno di messaggi di consapevolezza, sia nella voce che nei testi. E soprattutto è un disco onesto.
In che senso?
Emotivamente. Non c’era niente di premeditato. C’eravamo noi che provavamo a divertirci mentre registravamo. Volevamo solo scrivere.
Quindi non è vero quello che si legge da qualche parte, ovvero che stavate cercando di fare un disco pop-dance.
No, quando ci siamo incontrati Alanis aveva 19 anni ed era appena stata scaricata dalla sua etichetta. Qualche anno prima aveva pubblicato un disco r&b che aveva avuto un buon successo in Canada. Quello dopo invece era andato male. Così l’etichetta era sparita, ma c’era ancora un contratto con la casa editrice. Il publisher l’ha mandata a L.A. da me. Non avevamo idea di cosa sarebbe uscito, non avevo mai ascoltato una sua canzone. Abbiamo iniziato a lavorare ed è andata come è andata.
Qualcuno ha definito Jagged Little Pill “l’album che ha insegnato a milioni di ragazze che la vita è un susseguirsi di sfighe”. Perché c’erano le melodie, sì, ma c’erano i testi. Penso a Ironic, a You Oughta Know, a All I Really Want, in realtà un po’ a tutto il disco.
Non avendo in progetto di confezionare un album, quei brani potevano essere per chiunque. Per questo lei ha detto tutto quello che doveva dire. Non c’erano pressioni, non cercavamo la hit: le cose si sono svolte in maniera del tutto naturale.
Immagino non capiti spesso.
Molto, molto raramente. A quel punto della mia carriera soprattutto, quando lavoravo con tantissimi artisti. Era un progetto senza budget, dovevo sia suonare che produrre. Questo è anche il motivo per cui suona così, handmade.
C’è mai stata la sensazione, a un certo punto, di dire: ok, sta venendo fuori qualcosa di grosso?
No, anzi. Pensavamo solo a far qualcosa che ci piaceva.
Ora il mercato richiede hit ogni settimana, confezionate da team di 10 autori.
La rivoluzione digitale ha portato a tante cose positive: fare musica è semplice, puoi registrare dischi in camera da letto e avere un ottimo sound. Personalmente non ho mai scritto canzoni con troppe persone, non ho dubbi sia divertente, ma preferisco farlo alla vecchia maniera. Testo, accordi, melodia. La composizione è importantissima per me. Siamo qui perché ci sono cose che suonano diverse dalle altre, e io provo sempre a fare qualcosa di diverso. Le persone non sono sempre ricettive, ma il gusto va sviluppato. Quando i musicisti non suonano insieme manca qualcosa. Se fai musica col pc fai bene, anche io lo faccio. Ma preferisco comunque suonare.
Facendo un parallelismo con Jagged Little Pill, di cui parliamo ancora oggi, quanti dei brani che sentiamo ora saranno ricordati tra due decenni, secondo te?
Credo lo scopriremo tra 20 anni. Molti tendono a scrivere roba che suona bene, utilizzando un sacco di suoni fighi. E sì, ci sono un sacco di cose che suonano bene. Ma sono testo e musica che fanno vivere i brani. Jagged Little Pill funziona ancora perché ha un buon songwriting, che rappresenta il dna di ogni pezzo. Hanno tirato su pure uno show a Broadway con queste canzoni. Lo amo. Non avevo idea potesse succedere. E sai perché è stato possibile?
Dimmelo tu.
Perché in quei brani c’è tutto: la composizione, i testi, gli accordi. Questo fa vivere a lungo i brani. Se consideri una traccia solo come musica e basta, probabilmente non ci sarà motivo per rifarla in futuro.
Con Alanis hai fatto anche Supposed Former Infatuation Junkie, l’album dopo. Poi perché vi siete divisi?
Nessun motivo particolare. Credo volesse semplicemente continuare la sua avventura. Non mi hanno richiamato ma credo fosse importante per lei scrivere le sue cose. E io ero molto impegnato. Quando siamo stati insieme è stato magico, ma ognuno aveva la sua vita.
Let’s go down memory lane: hai lavorato con un sacco di artisti incredibili, da Michael Jackson agli Aerosmith, passando Annie Lennox, Ringo Starr, Katy Perry. Hai scritto Pink, giusto?
Sì, vero.
Pezzone.
Grazie (ride).
Qual è il disco di cui vai più fiero? Magari tra quelli che non hanno avuto successo, altrimenti è facile.
Senza dubbio quello di Shelby Lynne. È uscito poco dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Tutto quello che veniva pubblicato in quel periodo finiva in un buco nero, nessuno aveva bisogno di dischi in quel momento.
Tipo Glitter di Mariah Carey, che ha avuto la stessa sorte.
Esatto. L’ho registrato con un’ottima band, e i brani sono belli. Ascoltalo. Poi tra le esperienze migliori c’è stato lavorare con Quincy Jones, senza dubbio. Lui aveva sempre i musicisti migliori, quando facevamo le session c’era sempre gente che suonava meglio di me. Mi ha fatto migliorare.
Hai anche lavorato con Elisa a Pearl Days.
Certo, lei è di Trieste! Mi piace molto. Ero incuriosito dall’idea che lei volesse scrivere in inglese. Mi disse che per lei era più semplice. Una vera artista, mi sono trovato benissimo. Nutro grande rispetto per lei.
Sarai felice di sapere che è ancora molto famosa in Italia. E ora canta pure in italiano.
Bene, sono molto contento. Ascolterò qualcosa.
Se invece potessi scegliere qualcuno con cui lavorare?
Billie Eilish, ma credo sia già a posto (ride)! Anche St. Vincent, Jorja Smith. Ho lavorato con loro in remoto, ma mi piacerebbe farlo live. Con una vera band.
Hai anche scritto le musiche della serie Netflix The Eddy. Poi il musical di Ritorno al futuro per Broadway.
Era il mio sogno scrivere cose nuove di questo tipo. Sono stato fortunato a lavorare su una serie ambientata nei jazz club di Parigi. È un dramma e la mia band suona live tutte le canzoni. Se non fosse per il coronavirus saremmo ancora là a suonare. Nessuno aveva mai registrato live le musiche per una serie tv.
Come la vedi dal fronte degli eventi dal vivo, dopo la pandemia?
La vedo dura. Avevo uno show a Parigi che ha chiuso, uno a Manchester, uno a Broadway. Non sappiamo niente. È tosta. Ho un amico che sta facendo una session a Abbey Road in questi giorni. Prima suonano i violini, poi se ne vanno, disinfettano ed entrano le trombe. E così via. È diventato tutto molto più costoso e non sappiamo cosa succederà. Ovviamente è un modo per andare avanti. Ma nella musica la cosa fondamentale è stare con le persone. Sarà diverso, un po’ più triste. Avevamo un tour, e non possiamo suonare. Spero almeno di poter tornare in teatro.