A molti il suo nome suonerà nuovo o poco familiare, ma – come la vita insegna – le storie migliori spesso sono quelle meno raccontate. Di voci che documentino il primissimo punk italiano – e non – ce ne sono poche davvero. E Glezös Alberganti è davvero uno dei pochi che c’è stato fin dall’inizio suonando, viaggiando fra Milano e Londra e vivendo la prima ondata punk quando investì l’Italia. Poi ha lavorato per anni nel giro grosso della musica italiana, è cantante, autore, produttore, manager, scrittore e discografico. Con l’etichetta El Passerotto a partire da metà anni ’90 ha ristampato tanto materiale delle sue band, oltre a testimonianze del punk milanese/italiano con dischi, libri, documenti.
Quando hai cominciato ad ascoltare musica?
Ho avuto la fortuna di avere dei genitori molto giovani e ho iniziato a sentire la musica che c’era in casa. Poi la radio: erano gli anni del post beat e da bambino adoravo l’Equipe 84. Ma il più grande impatto su di me l’ha avuto il glam rock: rimasi folgorato ascoltando Gary Glitter, Sweet, T. Rex e Slade. Era post bubblegum music rumorosa, ignorata dalle riviste italiane – erano gli anni del prog, che io e i miei amici abbiamo anche provato ad ascoltare, ma sostanzialmente non ci diceva un cazzo. Il glam rock era musica da autoscontri: lo sentivi alle giostre, ma non aveva seguito. Non era facile trovarlo nei negozi, c’era qualcosa da Messaggerie Musicali in centro o dagli elettricisti di zona.
Compravi musica dall’elettricista?
All’epoca erano loro che spacciavano i singoli nei quartieri. Il formato principale attorno a cui girava la nostra vita musicale era quello: il cosiddetto padellone, il long playing a 33 giri, era già roba da ultraventenni, se non da mamme e papà. Noi eravamo un’altra generazione.
Poi è arrivato il punk, che hai scoperto ascoltando Anarchy in the UK una notte del 1976 alla radio. Trovavi i dischi?
Era difficilissimo. Spesso pensavi di avere storpiato titolo e nome del gruppo. Sentivi in radio “Sex Pistols” e ti dicevi: “Ma no, ho capito male, come fanno a chiamarsi così?”. E agli inizi sui giornali musicali nostrani nessuno scriveva di punk. Solo nei primi mesi del ’77 inizia a comparire qualcosa, con noi a cercare quel poco di cui leggevamo. Volevamo i singoli, perché avevamo intuito subito che il punk era fatto di singoli e non di album. Cercavamo soprattutto il punk inglese, andando nei negozi specializzati in import e che trattavano disco music.
Come mai i negozi di disco music avevano roba punk?
Negli scatoloni insieme ai mix import dall’Inghilterra finiva sempre qualche copia di generi diversi. Chiedevi: “Di punk non ti è arrivato niente?”. I tizi tiravano fuori un mazzetto di singoli dove trovavi di tutto, dal nuovo 45 dei Doctors of Madness a roba che punk non era, ma finiva nel calderone. Dopo un po’ il punk è arrivato nei negozi che vendevano i singoli stampati in Italia: i 45 italiani dei Ramones, White Riot dei Clash con la copertina di Complete Control, God Save the Queen e Pretty Vacant dei Pistols – Anarchy da noi non è mai uscito – e cose così. I singoli punk import costavano di più: uno made in Italy a inizio ’77 andava sulle 1200-1300 lire, uno import sulle 2000. Per il primissimo punk una fermata obbligata a Milano era la Fiera di Sinigaglia, alla bancarella di Danilo – che avrebbe aperto il negozio Rasputin – e all’angolo di scambio/vendita di dischi usati. Eravamo a livello di spaccio e a cercare questi singoli eravamo pochissimi.
Qual è stato il tuo primo concerto punk in Italia?
A Milano, Adam & The Ants al Teatro X Cine della compagnia teatrale di Gabriele Salvatores, il 16 e 17 ottobre del 1978. Altri li avevo visti in precedenza a Londra, ma a Milano il primo fu quello. Con Adam e il giro degli Ants ho poi avuto una frequentazione personale molto stretta. Per El Passerotto abbiamo pubblicato il libro Whip AvANTgarde dedicato al breve tour italiano degli Ants del ’78, con ricordi, foto e memorabilia. Qualche concerto punk qui da noi però c’era già stato: mia moglie Eletttro, autrice di Coca Scola, una delle primissime fanzine punk italiane, aveva visto gli Stranglers e i 999 a luglio, a Formigine.
Parliamo di Londra: quando hai iniziato a frequentarla? Che aria tirava?
La prima volta è stata nel maggio del ’78. Ti dico due cose. Uno: le persone del giro punk italiano che vanno a Londra prima del ’78 sono davvero pochissime e quasi sempre non per il punk. Due: molti dicono che il punk era morto nel ’78 se non già a fine ’77 o, comunque, quando si sono sciolti i Pistols. Capisco la voglia di purismo, soprattutto da parte di chi non c’era, però te lo garantisco: sono arrivato a Londra nel maggio del ’78, ho fatto la spola da Milano fino all’estate del ’79 e in quel periodo praticamente tutti a Londra erano punk. Quando sono sceso dal treno la prima volta a Victoria Station, solo lì avrò visto un centinaio di punk: tra i ragazzi dai 15 ai 25 anni, 7 su 10 erano punk o con aspetto punkeggiante. L’atmosfera era ancora elettrica e la mia vita è cambiata in quelle due prime settimane a girare da solo per Londra. E per me nulla è stato più come prima.
La scena punk locale come accoglieva gli italiani in avanscoperta?
La prima volta non conoscevo nessuno. Qualche mese dopo, grazie a una cara amica milanese, ho avuto la fortuna di entrare nel giro di Seditionaries, il negozio di Malcolm McLaren e Vivienne Westwood in King’s Road. Passavo i pomeriggi con loro: Vivienne, Jordan e Michael Collins – nome in Italia non molto noto. Lì incontravi quasi tutti: Siouxsie e Severin, Billy Idol e Tony James dei Generation X, Sid Vicious con Nancy Spungen. E Johnny Rotten, che faceva spesa al piccolo supermercato di fronte (abitava lì vicino). Ho assistito a liti familiari tra McLaren e la Westwood a causa del figlio Joe Corre. Gravitava tutto lì attorno. C’era una certa xenofobia nei confronti degli italiani, ma non negli ambienti punk. E c’era sempre qualcosa da fare: in due settimane ho visto una decina di gruppi. Ero molto circospetto e Gene October dei Chelsea aveva ragione: il punk faceva paura. Il punk vero, da vicino, intimoriva eccome. Il vero pubblico punk non era un pubblico normale. Non applaudiva tra i pezzi: ho visto gruppi cacciati a colpi di lattine piene. Mi ricordo gente ridicolizzata fino a scoppiare in lacrime. Mica da ridere.
Non era una cosa semplice da affrontare…
Nella scena punk londinese salivi su un palco a tuo rischio e pericolo. Un esempio che ho citato più volte: ho visto i Suicide aprire per i Clash nel luglio ’78 al Music Machine e forse è stato lo spettacolo più incredibile a cui io abbia mai assistito. Rev & Vega hanno rischiato la vita – li volevano morti. I Suicide erano protetti da una schiera di rugbisti/buttafuori che distribuivano pugni e calci. Vega a un certo punto ha rotto una pinta di plastica e con un coccio si è sfregiato una guancia fino a farsi colare il sangue sulla giacca bianca che indossava, come dire: non mi frega un cazzo di sfregiarmi la faccia e voi credete di farmi paura? C’è una foto famosa di Vega, nei camerini con Joe Strummer, che mostra la guancia appena sfregiata. Quella sera terminare il set fu un atto di coraggio… gli Shirts il giorno prima – alla vecchia Roundhouse, prima di Siouxsie & The Banshees – alla prima lattina in faccia scapparono.
Quindi le band statunitensi a Londra erano viste malissimo.
Solo i Ramones e gli Heartbreakers potevano suonare tranquilli. Se eri americano a Londra in quei giorni potevi avere problemi solo a girare per strada. Anche fra i punk c’era un astio fisico verso di loro. Altro che “I’m so bored with the USA”: magari fossero stati solo infastiditi. E parliamo proprio di punk, non di skinhead, che in quei giorni erano mosche bianche. Più in là le cose cambiarono, ma all’inizio anche i precursori erano visti male: Iggy Pop e Lou Reed erano considerati vecchie scoregge. Di Patti Smith non parliamo nemmeno. Per i punk londinesi quella era roba mainstream. Per Ramones e Heartbreakers era diverso. I secondi, in particolare, erano visti come una “good time band” in salsa punk che piaceva un po’ a tutti.
Ma la storia secondo cui Thunders e i suoi avrebbero portato l’eroina nel punk inglese ha qualche fondamento?
È una leggenda che gira per lo più fra i ritardatari, ma non è vero. Chi voleva drogarsi lo faceva comunque e già da prima: di certo Keith Levene non ha fatto il tossico perché sono arrivati gli Heartbreakers. Va bene, Nancy Spungen si faceva, e allora? Sid Vicious preparava le dosi alla madre quando era bambino. Non sono stati gli Heartbreakers a portare l’eroina nel punk inglese, che ha preso un po’ piede nel cosiddetto periodo di implosione, con il grande vuoto e depressione seguiti – dal ’79 in poi – alla botta iniziale, quando tutto era pazzesco.
Dell’annosa diatriba se il punk sia un fenomeno nato negli USA o in Inghilterra cosa pensi?
Ho sempre trovato oziosa questa distinzione. Il punk è un incidente di percorso che deriva da un input iniziale americano – essenzialmente i Ramones. Ma evidentemente quello degli inglesi è di matrice diversa. Gli americani partono da garage e Sixties, mentre in Inghilterra la commistione deriva più dal post glam: là moltissima gente che suonava punk era stata fan del glam e si sente. C’è un articolo dell’epoca pubblicato dalla fanzine Ripped and Torn di Tony Drayton che definisce il glam come “the real punk rock”. C’era questo mix di vecchio glam inglese – sottolineo inglese, perché il glam americano non esiste come genere – con una velocità e un modo di suonare che univa tutto, dai Ramones a certi Velvet Underground, ad esempio nel post-punk/art punk da Siouxsie & The Banshees in poi. Aggiungi un rock veloce, squadrato, e ci siamo. Un elemento spesso sottovalutato che caratterizzava il punk UK era la velocità. Se senti il primo album dei Ramones noti che non è tanto veloce: sembrava velocissimo allora, ma poi ascolti il primo dei Damned – a cui feci da Cicerone quando vennero a suonare in Italia per la prima volta nel 1980 – e corrono il doppio. Tanti primi punk inglesi erano ex soul boy com Vic Goddard, la stessa Siouxsie, e il prodotto era quest’ibrido di rock un po’ scrauso a 100 all’ora che però nessuno voleva pensare imparentato col rock – a questo proposito, mai titolo fu più azzeccato di quello dell’antologia dedicata ai primi Subway Sect, We Oppose All Rock’n’Roll. A tutta questa gente non dovevi nemmeno azzardarti a dire che suonavano rock. Nessuno voleva sentire il termine rock.
Fin dagli anni ’70 sei stato impegnato in diversi progetti musicali. Però non è facile trovare le ristampe delle tue band (The Gags, Mittageisen, Schwarz Of Galiorka). È una scelta?
Sì. Quando abbiamo iniziato a pubblicare dischi postumi con El Passerotto volevamo documentare le tante cose che avevamo fatto ai tempi: non ve n’era traccia e se non le avessimo tirate fuori nessuno ci avrebbe creduto. All’epoca abbiamo rifiutato tutto e chi c’era lo sa: dischi, concerti, offerte di management e sponsorizzazioni. In primis perché ci disgustava il fatto che i fricchettoni stavano iniziando ad arrivare cercando di raccontartela. Ci ricordavamo molto bene personaggi che fino a qualche mese prima erano hippy dichiarati e che adesso ti spiegavano la tua vita. Noi la genia degli hippy la detestiamo cordialmente tuttora. Quando ci proposero di partecipare alla serie Rock ’80 della Cramps ci mettemmo a ridere. Era meglio non fare niente. La CBS ci mandò in studio per un singolo, ma rifiutammo la loro proposta di cantare in italiano. Così nel 1995 abbiamo iniziato a stampare alcune cose distribuendole per modo di dire: l’idea era di darle solo a chi era realmente interessato. Le cose te le devi andare a cercare: non crediamo agli incroci pseudocommerciali, per noi è già fin troppo così. Realizziamo un progetto ogni tanto e negli anni abbiamo costruito un buon catalogo, adesso sold out: abbiamo venduto tutto.
Sei stato a lungo nel mondo della musica e hai lavorato con grossi nomi della canzone italiana: racconta.
Ho vissuto di musica per tanti anni. A tutto tondo, da artista a produttore, da arrangiatore ad autore: l’unica cosa che non ho fatto è l’editore. Ho lavorato con artisti-amici che hanno chiesto i miei servigi e fino a un certo punto è stato anche divertente. Ad esempio mi sono divertito molto nel legare il nome di Baccini con quello di Renato Curcio – ho fatto un disco di platino come produttore con Nomi e cognomi di Baccini, con brano e video su e con Curcio. È stato molto divertente scrivere per Enzo Jannacci e moderatamente divertente farlo per Zucchero. Poi a fine anni ’90 ho lasciato la musica, dopo un lungo periodo di rigetto.
Parlami del dopo.
La mia vita è picaresca, piena d’incidenti e stranezze, così all’improvviso mi hanno proposto di scrivere per un grande gruppo editoriale. Per tanti anni sono stato freelance, finché un giorno mi è stato chiesto di scrivere qualcosa di diverso su Vasco Rossi, quasi una sfida. Così nasce l’idea del libro Alla ricerca del Vasco perduto, in cui Vasco è la scusa per raccontare l’Italia di fine anni ’70 attraverso la sua parabola iniziale, da quando apre Punto Radio fino ad Albachiara. Sullo sfondo c’è una domanda: com’è possibile che un dj regionale di successo diventi una rockstar contravvenendo a tutto ciò che era (anti-droga, quasi fighetto e impelagato nella disco music), trasformandosi in un dio della trasgressione? Vasco l’ha letto, è rimasto colpito e ha voluto incontrarmi. Mi ha offerto di occuparmi, col coordinamento di Tania Sachs, di alcuni progetti di comunicazione in merito ai suoi Vasco Non Stop Live. Poi ho iniziato ad avere richieste per seguire altri artisti e l’anno scorso ho accettato una proposta da La Grazia Obliqua, ottima band post dark wave romana. Di recente ho prodotto il nuovo disco dei Dalton, gruppo di punta del bootboy rock’n’roll tricolore, con ospite l’attore Marco Giallini che, grazie all’aiuto del mio grande amico Aldo Santarelli, si è prestato per la lettura di un sonetto del Belli.
Poi ci sono i tuoi monologhi sul punk.
Nell’ultimo anno ho iniziato a portare nei club il monologo Papà, cos’era il punk?, in cui racconto – con contributi video e audio – i miei incontri a Londra, da quello con Sid e Nancy in poi, la mia vicenda e soprattutto l’adesso. Che differenza c’è fra il punk e l’adesso (e non fra il punk allora e il punk adesso)? Oggi il problema è la voglia di uscire dalla porta per fare qualcosa. L’abbiamo fatto noi allora e lo puoi fare tu adesso, quindi non lamentarti del nulla, se non fai niente.
È appena uscito un tuo nuovo libro e so che stai traducendo un volume importante.
Il libro nuovo è Zenga e i suoi fratelli (Indiscreto Editore). Racconta la mia vicenda pre-punk, il mio crescere negli anni ’70 nella periferia milanese con la musica, l’immaginario calcistico e nient’altro a cui guardare per il domani. Poi ho iniziato a tradurre quello che reputo il più grande libro sul punk: The Roxy London WC2 – A Punk History di Paul Marko, autore del più completo sito al mondo dedicato al punk inglese, www.punk77.co.uk. Paul ha pubblicato il libro nel 2007 autofinanziandoselo (è ormai fuori catalogo): è una ricostruzione della vicenda del Roxy, ma racconta la storia del punk a 360° in oltre 500 pagine di documenti e testimonianze, riproducendo l’atmosfera che ho avuto la fortuna di respirare a Londra ai tempi. Tradurre questo libro era il mio sogno e grazie alla generosità di Paul sono riuscito a realizzarlo. Ci sto lavorando e uscirà prossimamente. Per l’edizione italiana lui ha voluto anche il mio nome in copertina: un gesto che non mi sarei mai aspettato. Per me è una medaglia al valore e mi piace pensare che non sia l’ultima.
Magari è l’inizio di un nuovo capitolo…
Finché c’è modo di fare ed essere ciò che sei e ti piace, va tutto bene. Ho sempre fatto ciò che mi piaceva e ho voluto. Ne ho pagato le conseguenze, a volte molto pesanti, ma non solo adesso mi posso guardare allo specchio. Io sono felice: ho fatto di quello che mi piace la mia vita e con me c’è la donna che ho incontrato ai tempi grazie a Seditionaries, ai nostri amici e al fatto che lei è punk come me. Se siamo ancora qui vuol dire che abbiamo vinto. Abbiamo vinto noi.