Hanno messo in piedi una band per divertirsi, è finita che sono stati candidati ai Grammy. A volte fare le cose un po’ per gioco serve alla loro riuscita e così è andata per gli Altin Gün, uno dei gruppi più interessanti di questi ultimi anni, nato nel 2016 ad Amsterdam dall’unione di musicisti turchi e olandesi che si sono ritrovati con un’idea: rivisitare la tradizione folk turca immergendola in un magma sonoro a base di psych rock, funk anni ’70, Italo disco e influenze che spaziano da Jimi Hendrix ai Kraftwerk fino ai Tame Impala.
Ora, contando anche Âlem, disco realizzato nel 2021 per sostenere l’organizzazione ecologista Earth Today, siamo al quinto album: Aşk sarebbe dovuto uscire il 10 marzo, ma il terremoto in Turchia e Siria dello scorso febbraio ha spinto i sei componenti del gruppo a posticipare la pubblicazione al 31 e a lanciare delle raccolte fondi. Prima con un concerto nella stessa Amsterdam con cui sono riusciti a tirar su più di 40 mila euro, poi con la pubblicazione su YouTube di Güzelliğin on Para Etmez, omaggio al cantante, musicista e poeta turco Âşık Veysel: i proventi sono stati devoluti alla Croce Rossa internazionale.
«Come artisti era il minimo che potessimo fare», dice la cantante e tastierista Merve Daşdemir in collegamento video su Zoom. «In questo momento sono a Istanbul, ho perso diverse persone care nel terremoto. È orribile, probabilmente la più grande catastrofe dell’ultimo secolo, tutta la Turchia è in lutto». Mentre parla gli occhi s’intristiscono, ma la vita va avanti e lei sembra una di quelle persone che non vogliono cedere al dolore. Torna a sorridere, cosa che farà per l’intera durata dell’intervista nello stesso modo contagioso con cui ti prende la musica ricca di groove degli Altin Gün. «Per Aşk abbiamo messo insieme una potente sezione ritmica – basso, batteria e percussioni – che è il cuore della nostra musica. Si aggiungono chitarre, tastiere, sintetizzatori e il bağlama (tipico strumento a corde turco, sorta di liuto a manico lungo dal suono profondo, nda) suonato da Erdinç (Ecevit, nda), l’altra voce della band. Molti penseranno che il nostro obiettivo sia fare musica psichedelica, in realtà non abbiamo mai deciso niente a priori, sono questi strumenti che dialogando tra loro ci portano in quella direzione».
Ma c’è qualcos’altro che caratterizza questa nuova raccolta di canzoni: «Abbiamo recuperato il metodo alla base dei nostri primi due dischi: la pandemia ci aveva costretti a passare al digitale, mentre ora siamo tornati da dove eravamo partiti: ci siamo rinchiusi in una stanza e abbiamo suonato le tracce dal vivo registrando il tutto in analogico, su nastro. E ne siamo felici, perché ci sentiamo in primis una live band. Non a caso questo disco s’intitola Aşk, termine che rimanda a una versione particolarmente intensa dell’amore e che rispecchia alla perfezione ciò che proviamo quando suoniamo insieme».
L’importanza del palco è un punto focale sin dagli esordi per gli Altin Gün, nome che in lingua turca significa “giorno dorato”. Il gruppo si è formato su iniziativa del bassista olandese Jasper Verhulst, il quale, conquistato dalla compilation Selda targata Finders Keepers e dedicata all’artista turca Selda Bağcan, e dopo aver fatto incetta di vinili durante alcuni viaggi in Turchia tra cui una tournée col britannico Jacco Gardner, ha condiviso un post sui social e attaccato volantini negli alimentari e nei ristoranti turchi di Amsterdam.
«Quando lessi su Facebook che era in cerca di cantanti e musicisti turchi per reinterpretare vecchi brani e standard folk del mio paese, brani che mi hanno accompagnata sin dall’infanzia, non riuscivo a crederci», ricorda Merve. «Non appena ho visto l’annuncio l’ho contattato e di lì a poco è nata la band. Ma senza nessuna vera ambizione, volevamo solo suonare insieme, fare qualche concerto. Tant’è che per un anno siamo stati una live band e nient’altro. Ma poi, sai, abbiamo preso il volo (ride). Credo abbia contribuito una performance che abbiamo registrato per le KEXP sessions, perlomeno è quanto ci hanno detto molti fan che ci hanno sentiti lì la prima volta. Però sono convinta che a fare la differenza sia stata la miriade di concerti che abbiamo fatto tra il 2016 e il 2017, quando ancora non avevamo nemmeno un album all’attivo: dobbiamo tutto al passaparola». E nel 2020 è arrivata la nomination ai Grammy per Gece, nella categoria Best World Music Album. «Chi poteva immaginarselo?! Pazzesco. Anche se i premi sono l’ultimo dei nostri pensieri, ciò che ci interessa è il rapporto con il pubblico, da questo punto di vista siamo un po’ punk».
Suoni vintage, melodie mediorientali, suggestioni brasiliane e indiane, poliritmie, distorsioni, riverberi, sci-fi disco e beat elettronici contribuiscono a rendere quella degli Altin Gün una proposta affascinante. Benché il loro repertorio sia incentrato su canzoni che in Turchia sono parte dell’immaginario collettivo, il gruppo rilegge questo enorme patrimonio con un occhio contemporaneo e molta inventiva. E viene da pensare che in un’epoca in cui quasi tutto sa di già sentito e anche le novità meno banali tendono a una rapida omologazione che finisce per annoiare, la contaminazione tra tradizioni musicali differenti riesce ancora a regalare sorprese.
«Tra gli anni ’60 e ’70 artisti come Selda Bağcan, Barış Manço ed Erkin Koray hanno sperimentato con il rock psichedelico, sono stati dei pionieri rispetto a quello che facciamo noi. Allora tutte le culture erano influenzate dalla musica occidentale, dai Beatles, dai Pink Floyd… Si combinavano quelle sonorità con le proprie radici folk, è avvenuto lo stesso con il cosiddetto Zamrock in Zambia e con la psichedelia tailandese, per esempio. Noi stiamo portando avanti quell’approccio, è un ritorno al passato con il gusto di oggi e penso funzioni perché un sacco di gente è stufa della musica mainstream ed è in cerca di qualcosa di più esotico ed eclettico».
Il bello è che così si costruisce un ponte tra culture diverse, il che rende i concerti degli Altin Gün spazi di cosmopolitismo in tutto e per tutto inclusivi. «Inizialmente ai live si presentavano perlopiù olandesi, francesi, tedeschi, ma man mano che il pubblico cresceva diventava più trasversale e adesso è un mix incredibile di hipster europei e vecchie signore turche», osserva Merve entusiasta. «È divertente ed è fantastico vedere tutte queste nazionalità mescolate sotto al palco e pensare che se sono lì, nello stesso locale, è per ciò che facciamo. Ho studiato antropologia e penso che da questo punto di vista siamo un caso da studiare».
Passato da Bologna lo scorso novembre, il sestetto in questo periodo è in tour in Europa, ma non sono previste nuove date da noi (la più vicina è quella del 19 aprile a Zurigo). Poi, a luglio, partirà il tour negli States. Niente male per una band che canta in un idioma che non molti da questa parte del mondo parlano e comprendono. «In fondo è questo che ci piace», osserva Merve, «non importa che i testi siano compresi da tutti, è stupendo quando un brano ti arriva indipendentemente dalle parole. Ciò detto, le canzoni che abbiamo scelto di riprendere in mano parlano soprattutto di amore, di perdita, di morte ed esilio con un linguaggio estremamente poetico. Il cuore sono le emozioni umane e in genere sono piuttosto drammatiche, hanno in sé un lato tragico».
Le chiediamo come mai ha lasciato la Turchia e per un attimo il viso si adombra. «Nel 2013 vivevo ancora a Istanbul e ho partecipato alle proteste di Gezi Park (a favore della laicità dello Stato e della libertà di espressione e di stampa, nda). Dopo la violenta repressione delle manifestazioni messa in atto dal governo Erdoğan mi sono sentita frustrata, impotente, e mi sono detta “cazzo, in questo Paese non si riesce a cambiare nulla”. Allora stavo con un olandese, è stato lui a dirmi di raggiungerlo ad Amsterdam. Così mi sono trasferita e dato quello che è accaduto con gli Altin Gün mi sa che ho fatto bene. Però come band, anche se facciamo concerti anche in Turchia ed è magnifico perché là la gente sa i brani a memoria e li canta a squarciagola, non ci va di parlare di politica: la musica unisce, la politica divide».
Resta una curiosità: con quali criteri gli Altin Gün selezionano i pezzi per i loro dischi? «In genere funziona che prendiamo un vecchio brano e ci mettiamo a suonarlo in sala prove, così, come ci viene. Se salta fuori qualcosa di buono andiamo avanti, altrimenti scartiamo. Non c’è una regola precisa, io e l’altro cantante essendo turchi abbiamo più voce in capitolo, ma tutti i membri della band possono fare ricerche e proporre titoli e idee, dopodiché si decide insieme su cosa vale la pena concentrarsi».
E aggiunge: «Per me che sono di Istanbul è facile, conosco un’infinità di canzoni turche, fanno parte della mia vita, sono nel mio Dna. Nel disco precedente c’era Yüce Dag Basinda, brano che da piccola sentivo sempre cantare nei film da un attore turco, ci sono molto affezionata. Mentre in Ask c’è Leylim Ley, un inno intenso, doloroso, tratto da un racconto di Sabahattin Ali, scrittore brutalmente assassinato da giovane, nel 1948, per motivi politici. Zülfü Livaneli, romanziere e compositore turco, ha scritto una musica meravigliosa per questa storia che parla di amore e del ritrovarsi lontani da casa, dalla propria terra. Però forse la mia traccia preferita è quella di chiusura, Doktor Civanım: abbiamo completamente stravolto l’originale infilandoci dentro anche una dose di Italo disco e ne è scaturito un pezzo dance da ballare, che trasmette energia e positività».