Gli Animal Collective sono in giro dal Duemila, più di quanto siano durate la maggior parte delle loro band di riferimento. Se i più attenti alle novità un po’ sghembe e psichedeliche che arrivavano dagli Stati Uniti già li seguivano almeno dall’album precedente, è con Merryweather Post Pavillion del 2009 che si imposero a livello globale come una delle cose più nuove e fresche del momento, un destino anche inaspettato per un progetto nato nel più assoluto underground e che mescolava folk, psichedelia ed elettronica in modi sorprendenti e creativi, con momenti pop ma un approccio genuinamente indie, fatto di divagazioni e deragliamenti, lontano dagli schemi della musica da classifica.
Negli anni a seguire, tra nuovi dischi e progetti solisti il quartetto di Baltimora, poi diventato parte del mondo creativo newyorchese insieme agli amici Black Dice, e infine diviso su due continenti, non si è mai fermato e non ha mai voluto adagiarsi ripetendo sempre la stessa formula.
Fa comunque strano che un progetto così fresco e innovativo sia ora anagraficamente a tutti gli effetti una band storica, anche per via del loro immaginario che pare eternamente legato al concetto di “Teenage symphonies to God” con cui Brian Wilson (i Beach Boys da sempre una loro influenza) definiva il suo Smile, eppure siamo qui, nel 2022, a parlare con un Avey Tare collegato dalla sua casa nel North Carolina di come si cambia con gli anni, di come cambiano le dinamiche di una band, di come si mantiene un’identità, di spiritualità e del senso di fare musica in tempi difficili, nell’occasione dell’uscita del loro undicesimo vero e proprio album (distinzione necessaria per un progetto che ha pubblicato un’innumerevole quantità di materiali di diverso genere). Time Skiffs, questo il titolo, è un lavoro registrato nel 2020 nel pieno della pandemia, abbastanza breve ma non per questo meno libero nello spirito o meno riuscito delle loro prove più note, un disco che stupisce e coinvolge, caratterizzato da una vena di morbido escapismo che sentiamo particolarmente benefica in un momento come quello che stiamo vivendo.
Avete vari progetti paralleli alla band, che cosa vi fa capire quando è arrivato il momento di concentrarvi su un nuovo album a nome Animal Collective?
Penso dipenda molto da quando siamo tutti liberi e ci possiamo dedicare a lavorare insieme. Stavolta ci è voluto un po’ più del solito perché sia io che Noah (Lennox, noto come solista con il nome di Panda Bear, nda) stavamo lavorando a progetti solisti, e le cose sono andate più lunghe del previsto, così ci è voluto un po’ a rimetterci tutti insieme. Di solito lavoriamo un po’ come Animal Collective, poi stacchiamo e ci prendiamo del tempo, e in quei momenti è bello fare qualcosa da soli. Questo modo di lavorare è cominciato principalmente quando Noah ha iniziato a fare uscire cose come Panda Bear, e poi mi ci sono messo anch’io. A partire dal 2020 va anche detto che c’è stato molto tempo per stare a casa a fare musica, quindi i progetti sono andati anche un po’ ad accavallarsi.
Siete riusciti a trovarvi tutti nella stessa stanza o è stato un lavoro di parti soprattutto scambiate tra voi in formato digitale?
Purtroppo quando abbiamo deciso di metterci a registrare era precisamente durante la quarantena, e Noah, che vive in Portogallo, non poteva neanche venire negli Stati Uniti, quindi abbiamo lavorato dai nostri studi casalinghi, fortunatamente abbiamo tutti in casa delle strumentazioni assolutamente accettabili. È stato difficile più che altro per la lentezza delle operazioni, l’assenza di quell’immediatezza nel fare cambiamenti che c’è quando si lavora insieme, ma d’altro canto abbiamo potuto prenderci molto tempo, e questo ha contribuito a creare un’atmosfera positiva, fatta di molta interazione, che ha portato a risultati comunque del tutto condivisi.
Per gli ultimi album siete partiti da idee precise, per esempio con Painting With volevate che le canzoni avessero un’immediatezza simile a quella dei Ramones, molto distante dalle divagazioni solitamente associate alla psichedelia. Da quali idee siete partiti questa volta?
Abbiamo parlato molto tra noi, e alla fine credo che l’aspetto principale che è venuto fuori sia stato quello relativo alla ritmica e alle percussioni. Noah voleva cambiare molto il suo tipico stile come batterista, anche se di fatto praticamente decide di approcciare ogni disco usando un kit molto diverso rispetto alla volta precedente. Stavolta era più asciutto, più standard, molto ispirato a batteristi jazz come Bernard Purdie. Il resto di noi si è concentrato su percussioni melodiche, intonate, che si sposassero bene con le melodie, ci siamo fatti influenzare molto dalla musica gamelan indonesiana. Un punto importante da cui siamo partiti è stato la decisione di utilizzare uno stile percussivo che andasse a crescere progressivamente.
Avete registrato nel 2020, come mai il disco esce solo ora? Contavate anche di riuscire a pubblicarlo in un momento in cui si potesse suonare in giro?
Nel 2020 è rallentato tutto, anche l’industria musicale. Sia le registrazioni che il mix hanno preso un bel po’ di tempo, e poi c’è la questione delle attese per stampare i dischi, siamo finiti in coda a una lunga lista… Insomma alla fine è andata così, anche se avessimo voluto non sarebbe stato possibile pubblicarlo prima.
Com’è stato non andare in tour per una band che spesso lavora al nuovo materiale anche durante i concerti?
Non suonare è stato difficile in assoluto, direi quasi doloroso. Il 2020 è stato il primo anno in cui non sono stato in tour praticamente da quando ho cominciato a fare musica. È il momento in cui stiamo insieme tra noi, e anche in generale io sono uno che sta molto a casa, il settanta per cento delle mie interazioni sociali sono quelle che avvengono in tour, quindi è stato pesante. Speriamo che si possa riprendere il prima possibile. In realtà nel 2019 eravamo stati insieme per un mese e avevamo suonato un po’, eravamo riusciti a fare un breve tour americano di tipo sette date e avevamo suonato un po’ di questi pezzi, poi abbiamo fatto forse un’altra prova in studio, ma poi basta. Insomma, sì, abbiamo suonato i pezzi molto meno del solito prima di cominciare a registrare. Una cosa strana per noi, per come abbiamo sempre lavorato.
Come evitate che suonare da tanti anni sempre con le stesse persone diventi noioso? E come riuscite a trovare nuovi modi di renderla invece un’esperienza creativa?
Penso che paradossalmente la distanza ci aiuti molto. Noah sta in Portogallo, io in North Carolina, Brian e Josh nella zona di Baltimora. Credo che una risposta sia questa, che stia in questa dimensione che ormai ci portiamo avanti da quasi vent’anni: era circa il 2004 quando abbiamo cominciato a lavorare così. Stare separati è molto diverso rispetto agli anni in cui siamo cresciuti, da ragazzi, in cui suonavamo sempre insieme e uscivamo sempre insieme. A New York vivevamo nello stesso appartamento e non avevamo praticamente mai tregua gli uni dagli altri, l’opposto di ora, direi anche che stavamo insieme troppo tempo! Invece ora Noah che è lontano, i progetti solisti… Sono tutte cose necessarie a farci venire la voglia di ritrovarci ogni volta. Alla fine siamo vecchi amici che cercano di rendere speciale il tempo che riescono a passare insieme, e in quello è compreso anche il suonare e cercare di far sì che resti una cosa divertente e interessante.
Venendo da origini molto legate all’underground, quando siete diventati popolari vi siete mai sentiti incompresi dai media o addirittura dal pubblico?
Non so se userei la parola incompresi, perché ognuno ha il diritto di viversi una band come vuole, ed è una bellissima caratteristica della musica: diventa qualcosa di speciale anche a livello personale, quindi non vorrei mai contestare l’approccio di qualcuno, dirgli che non sta capendo il vero significato.
Un aspetto difficile, almeno per me, quando fai qualcosa di popolare e hai delle canzoni o dei dischi di maggior successo, è che rischiano di incasellarti, la gente poi ti riconduce sempre a quelli. Discorsi del tipo “questo è il loro miglior disco”, le classificazioni, l’idea del “non faranno mai più un disco così”. È anche interessante da un punto di vista esterno, mediatico, però a volte è difficile, soprattutto per una band come la nostra: il nostro obiettivo sin dall’inizio è sempre stato suonare strumenti diversi, addirittura neanche sempre tutti insieme, a volte in due, a volte in quattro. È sempre stato un progetto molto aperto, e ho sempre pensato che andasse guardato un po’ il quadro generale. Quello di non perdere di vista il quadro generale è un aspetto importante anche per me personalmente, oggi, quando penso alla band. Cerco di non pensare a un disco come figlio soltanto del precedente, anche se è una tendenza molto comune.
Non amo il fatto che si tenda ad attribuire alle band una progressione lineare: questo è l’inizio, poi hanno fatto questo percorso, quello è il picco… Soprattutto quando faccio musica vorrei staccarmi da quel tipo di ragionamento lineare. Quindi forse i media o gli ascoltatori non interpretano la band esattamente come faccio io, ma non so neanche se sia una cosa necessariamente sbagliata. Va bene. Però mi piacerebbe che il pubblico cercasse anche di cogliere il quadro generale, di entrare in contatto con quello che stiamo provando a fare che va al di là dei singoli album che pubblichiamo.
Ma pensate alla vostra fanbase quando lavorate a un disco? O più a nuovi ascoltatori?
Un po’ tutte e due le cose, ma di fatto non sono cose che puoi programmare più di tanto. Io voglio solo essere creativo e onesto, è quella la cosa più importante: impegnarsi molto in quello che si fa, cercare di far sì che sia qualcosa di nuovo, e divertirsi nel farlo. Ascoltare troppo le voci esterne o le recensioni può portare a situazioni scomode, o a decisioni sbagliate. Penso che la cosa più magica dei nostri primi dieci anni fosse quella di sentirci sempre in movimento, andare sempre avanti, fare sempre qualcosa di diverso, seguendo il cuore e l’intuizione. Penso sia importante per noi ricordarci di quello, più che pensare a quali fan hanno apprezzato di più o di meno quale disco, o cercare nuovi ascoltatori. C’è in giro veramente un sacco di musica, la gente può scegliere tra un’infinità di cose: per noi è importante fare uscire qualcosa di unico e che venga indiscutibilmente da noi, è quello l’unico modo per distinguersi.
Ho notato che quando sta per cominciare una canzone degli Animal Collective che non ho mai sentito prima, come durante il primo ascolto di questo album, non so mai che cosa aspettarmi. Non so bene che tipo di sound avrà, come comincerà, che strumenti ci saranno, come andrà a evolversi, se sarà più dritta o più rilassata… C’è una gamma vastissima di possibilità.
Forse è anche quello un segreto per durare nel tempo?
Siamo fortunati perché sin dall’inizio abbiamo fatto passare quell’idea, quindi la maggior parte della gente lo ha accettato, apprezzano il fatto che li terremo un po’ sulla corda, e che non andranno del tutto sul sicuro. Per quanto mi riguarda anche come ascoltatore quello che voglio dalla musica è sempre qualcosa di nuovo, una nuova esperienza ogni volta, mi piace anche che ci sia un po’ di mistero, qualcosa da capire… Quindi quell’elemento di sorpresa che amo come ascoltatore cerco di far sì che sia presente anche nella musica che faccio. Mi piace molto che in fin dei conti la gente si aspetti di non sapere cosa aspettarsi da noi (ride). Ed è una cosa che gioca a nostro favore.
Nella musica underground una tendenza dominante è quella verso una certa oscurità, un mood abbastanza apocalittico, sicuramente anche adatto ai tempi che viviamo tra la politica, l’ambiente, la pandemia… Sembra descrivere questi tempi, o perlomeno farne da colonna sonora. Voi siete una cosa diversa, tendete più a essere una forza positiva, una via di fuga.
Credo che bilanciare queste due tendenze sia importante: l’una fa funzionare meglio l’altra, il positivo e il negativo, il lato oscuro e quello luminoso. Quello che ci piace ascoltare va molto a influire su quello che facciamo, e ognuno di noi ha i suoi gusti, chi più scuri e chi meno, e cerchiamo di tenere insieme un po’ entrambe le cose. Credo che anche una musica più luminosa e positiva funzioni meglio in contrasto con alcune parti più scure.
È vero però che proprio nella natura di quando noi siamo insieme e suoniamo c’è anche un elemento di forte gratitudine per il ruolo che la musica ha nella nostra vita. Inoltre abbiamo tutti esperienze di meditazione, respirazione, interesse per aspetti metafisici della realtà, psichedelia… E la musica mi interessa molto anche per la sua storia di dimensione curativa e spirituale, penso che sia probabilmente la cosa più spirituale delle nostre vite. Non so se per quelle di tutti gli esseri umani (ride) ma sicuramente per quelle di noi quattro: magari abbiamo idee diverse tra noi su cosa pensiamo che sia Dio o questo tipo di cose, ma quando si tratta di musica siamo tutti d’accordo che sia uno degli elementi di maggiore forza spirituale della vita. Quindi credo che alla fine questo aspetto tenda a venire fuori quando suoniamo, perché è una forza molto potente, che ha un ruolo importante nelle nostre vite.
Il disco contiene anche un messaggio positivo molto esplicito: “It’s really new everyday”. Nonostante tutto, anche in tempi difficili, c’è sempre speranza. Quindi forse c’è particolarmente bisogno degli Animal Collective in tempi come questi.
È una filosofia che rispecchia molto anche la nostra musica. Solitamente cerchiamo di lanciare dei messaggi in modo un po’ più sottile, ma di fatto è quello che volevamo comunicare. Il cambiamento, e anche la fine di alcune cose, possono essere forze positive; non si deve trattare per forza di dolore e tristezza. Ovviamente ci vuole molto lavoro su se stessi, e non è facile, ma riuscire ad accettare le differenze e i cambiamenti può essere una buona risposta alle difficoltà.