È stato all’inizio del 2020 che Catherine Elicson l’ha capito: non le fregava nulla di sembrare cool. «Mi andava di scrivere canzoni orecchiabili e chi se ne frega se non erano punk», ricorda la cantante e chitarrista degli Empath, cosmonauti dello spazio interiore da Philadelphia. «E insomma, volevo scrivere come piaceva a me, non per adattarmi ai desideri degli altri».
Gli Empath si sono fatti conoscere grazie alla musica noise, anarchica e psichedelica contenuta nella cassetta del 2018 Liberating Gilt and Fear, che è ancora un bel sentire nel caso abbiate un registratore a cassette e 16 minuti liberi. Sul palco il quartetto formato dalla cantante con Garrett Koloski alla batteria, Randall Coon ai synth e Jem Shanahan alle tastiere s’è fatto un certa fama investendo il pubblico con un’onda sonora tutta caos ed energia. Dopo due anni di attività hanno però deciso di cambiare approccio.
Il risultato è Visitor, il secondo album del gruppo che uscirà l’11 febbraio. Sono sempre gli Empath, ma più puliti, come se parte della nebbia che li circonda si fosse diradata per rivelare uno stile ancora più inventivo e radicale.
«Mio padre ha detto: finalmente si sente Catherine», dice Koloski. «Prima eravamo caotici, rumorosi e orecchiabili. Ora siamo caotici, rumorosi e orecchiabili… con in più un pizzico di bellezza».
La svolta è maturata alla fine del tour dell’album di debutto Active Listening: Night on Earth del 2019, dopo la firma con l’etichetta Fat Possum. Fino a quel momento suonare velocemente e a tutto volume per Elicson era uno stile di vita. «Sono stata insicura della mia voce fin dai 18 anni, quando stavo a Columbus, Ohio e volevo essere accettata dagli altri», spiega. «Sai, nel giro di quelli che suonano nelle cantine non vuoi essere considerata quella soft pop».
La pandemia è stata utile alla band per riscoprire se stessa. «Abbiamo registrato il primo disco senza sovraincisioni nel giro di quattro o cinque giorni», ricorda Elicson. «Questa volta abbiamo avuto un sacco di tempo a disposizione per pensarci bene».
Nell’ottobre 2020 gli Empath si sono ritrovati a lavorare a Greenpoint, Brooklyn col produttore Jake Portrait sulle canzoni scritte da Elicson. Portrait suona il basso nella Unknown Mortal Orchestra e ha aiutato gruppi indie come Alex G e Diiv a mettere a punto il loro sound: rappresentava una scelta naturale. «Ha un background lo-fi», commenta la cantante, «non è uno tipo Rick Rubin».
Il produttore li ha comunque spronati a tentare cose nuove. «Ci diceva: questa dev’essere più lenta», ricorda Koloski fingendo orrore. «E io: che cooosa? Mica posso suonare dei lenti, io».
In realtà la band era più che felice di essere messa alla prova. «Siamo amici, passiamo un sacco di tempo assieme», dice Koloski. «Ci miglioriamo di continuo. Stiamo diventando musicisti migliori perché non facciamo nient’altro che suonare tutto il tempo».
Dopo la settimana passata a Brooklyn, gli Empath sono tornati a Philadelphia dove hanno passato un anno a fare le sovraincisioni e a mettere a punto gli ultimi dettagli nello studio personale di Coon (il tipo, maniaco dei sintetizzatori, dice di avere usato un Mac Mini del 2009 e «un merdosissimo schermo LCD preso usato, ma ha funzionato»).
Mentre l’album prendeva forma, emergeva un’influenza chiave: il Bowie berlinese. «All’epoca ero fissata con Low», spiega la cantante. Koloski aggiunge che «quello è un disco che ti porta altrove, come fanno gli album migliori. Li ascolti e dimentichi dove sei in quel momento».
Dal singolo Born 100 Times emerge una forza melodica inedita per la band. «A volte mi piace suonare pezzi fatti di due accordi e via, con sopra la melodia più orecchiabile che mi viene», spiega Elicson. «Mi sono chiesta: e se tenessi solo la parte orecchiabile?».
Uno dei pezzi forti del disco è Elvis Comeback Special, che è forse la canzone più pop mai incisa dagli Empath. Guardando lo speciale del grande ritorno del ’68 di Elvis su un iPad a casa di Coon, Elicson si è accorta che quella performance era in qualche modo legata ai temi che le giravano in testa. «Mi ha emozionata, ha toccato una corda».
Tutti gli Empath hanno quacosa da dire su quello special di Elvis. «È un personaggio tragico», dice Coon del Presley del ’68. «Dimentica i testi, indossa un completo in pelle, è circondato da fan adoranti e continua a tirare fuori dalla giacca sudata un fazzoletto dietro l’altro. Ma quanti cazzo ne aveva?».
Koloski lo apprezza maggiormente: «Non è forse al suo meglio, ma cazzo se ce la mette tutta. C’è dentro. È vecchio e non è in forma (aveva solo 33 anni, ndr), non becca più tutte le note come una volta, è un po’ stropicciato, ma cerca di fare un grande show. Ispira tenerezza. Ed è una cosa reale».
Visitor non sarebbe un disco degli Empath se non ci fosse un interludio tra ambient e musica concreta. Si intitola V ed è il quinto capitolo di una serie di bozzetti che la band ha inaugurato ai tempi delle prime pubblicazioni fai-da-te in cassetta. Inizia come gli altri con un una lunga jam molto libera registrata dall’amico Shaun Sutkus nel salotto di Koloski.
«Faceva un gran freddo», ricorda la cantante. «Stavo sul pavimento con la chitarra e avevo le mani talmente gelate che riuscivo a suonare solo quella frase. Se avessi cercato di suonare altro mi sarei incasinata di sicuro».
La storia la finisce Koloski: «Poi te ne sei andata e io, Randall e Shaun abbiamo fatto un po’ di sovraincisioni. I microfoni li ha messi Shaun mentre noi entravamo e uscivamo dalla stanza con le campanelle a vento, facendo quegli strani rumori».
«Siamo andati avanti per ore», ricorda Coon, e tutti ridono.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.