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Gli Estra sono tornati dagli anni ’90 per resistere, resistere, resistere alla grande regressione

«Ci si accapiglia per la polemica del giorno, nessuno denuncia le vere storture del nostro tempo». Intervista a Giulio Casale per il ritorno della band con ‘Gli anni Venti’. E poi la musica: la mia generazione ha perso... andando a Sanremo

Foto: Martina Ridondelli

È l’epoca delle reunion, del passato che facciamo riemergere per trovare risposte a un presente complesso e della nostalgia come forma di autodifesa da un futuro che ci fa più paura che mai. Non tutte le reunion, però, sono uguali. Nel caso degli Estra, il ritorno discografico dopo vent’anni non vuole «celebrare i favolosi anni ’90», ma riflettere e denunciare le storture della società contemporanea, dalla regressione culturale alla comunicazione frenetica fino alla progressiva perdita di umanità. E se nelle dieci canzoni (più una introduzione) non c’è traccia di speranza, c’è invece tutta la forza di quella che definiscono «resistenza proattiva».

Se ne è fatto portavoce Giulio Casale, storico frontman della band originaria di Treviso, che dopo una lunga carriera solista (di volta in volta anche nei panni di scrittore e filosofo) dice di aver riscoperto «il primo amore, quello fondativo». Lo riscoprirà anche chi ascolterà Gli anni Venti, un album che è un tuffo nelle sonorità dell’alternative italiano arricchite dai testi di un poeta rock, com’è stato definito. Il loro pubblico aveva pochi dubbi anche prima di sentirlo, infatti è stato realizzato grazie al crowdfunding col quale sono stati raccolti 33 mila euro in sole 72 ore. Messa da parte la riconoscenza, però, Casale ci ha descritto un quadro inquietante della situazione in cui ci troviamo a vivere, tra chi fa «carta straccia della Dichiarazione universale dei diritti umani e della nostra Costituzione» e «chi fa passare a maggioranza l’idea che un uomo a mare non vada salvato o che si possa discriminare ciò che non rientra nel normotipo».

Così, se Gasparri e Salvini che citano Pasolini e Gaber «non hanno capito niente», le responsabilità del degrado attuale «le abbiamo avute nel momento in cui siamo andati a Sanremo e si è pensato che ci fosse un’unica possibilità». Una narrazione a senso unico che lui, nel suo piccolo, non ha mai accettato. Come quando rispose «ti ringrazio, mi hai restituito esattamente l’immagine che non vorrei mai essere nella vita» al direttore generale della Warner che gli aveva detto: «Casale, con la faccia che hai potresti essere più famoso di Nek».

Partiamo dalle emozioni. Com’è tornare dopo vent’anni con un disco degli Estra?
È come tornare a casa. In fondo siamo nati artisti grazie agli Estra. Nonostante abbia fatto tante cose anche lontane dall’estetica del rock, re-identificarmi con il primo amore, che è anche l’ultimo, quello fondativo, è eccitante.

Tornano gli Estra e dopo due decenni ritrovano ancora il proprio pubblico. Tanto che il disco è stato realizzato grazie a un crowdfunding che, in 72 ore, vi ha permesso di raccogliere 33 mila euro. Vi aspettavate tanta partecipazione?
Ci ha sorpreso essere ricoperti di affetto e di amore. Una risposta gigantesca e molto veloce. Già dieci anni fa, quando abbiamo realizzato una breve reunion, abbiamo sentito questo abbraccio. Da lì è tornata l’esigenza, ma abbiamo sempre detto che saremmo tornati quando avremmo avuto qualcosa da dire. Non tanto per celebrare i favolosi anni ’90. Che sono stati favolosi, però a noi di vivere nel passato non ci interessa.

Oggi siamo negli anni ’20 del 2000. Ci aspettavamo che la tecnologia ci avrebbe aiutati, invece nasconde insidie enormi.
Mi stupisce che nessuno degli artisti di un certo peso stia denunciando quello che torna spesso nel disco e che interpreto nella definizione di regressione. Questo mi ferisce e mi allarma infinitamente, perché il disastro culturale è evidentissimo. Per la prima volta, almeno dopo la Seconda guerra mondiale, si torna a fare carta straccia della Dichiarazione universale dei diritti umani, della nostra Costituzione, passa a maggioranza l’idea che un uomo a mare non vada salvato, che si possa discriminare ciò che non rientra nel normotipo. Che tutto ciò diventi maggioranza ed espressione politica è un problema culturale gigantesco. E invece, al massimo, ci si occupa di sé, mai della convivenza civile, quando ci vorrebbe una convivenza pacificata tra diversi. E tutto questo meritava di essere gridato forte.

Fra gli artisti oggi più famosi noti un po’ troppa remissività?
In generale sì, salvo eccezioni. Mi stupisce che si accapiglino su polemiche relative ai temi caldi del giorno, ma mi sembra manchi la denuncia che sta dietro a tante storture del nostro tempo. Viene prima del fascismo e dell’antifascismo, si tratta proprio di un fattore antropologico e culturale.

Il disco si apre con La Signora Jones e la voce di Marco Paolini che interpreta una donna che chiama una trasmissione radiofonica e denuncia le violenze di un gruppo di giovani. Ma quel che fa rabbrividire è la loro giustificazione.
È qualcosa che accade spesso, cioè che i giovani si macchino di piccoli o grandi reati e rispondano che in fondo era soltanto uno scherzo, un modo per divertirsi o per stare insieme un pomeriggio o una serata. Ma se saltano i sentimenti basilari vuol dire che c’è un problema, non tanto per colpa loro ma per colpa dei genitori. Che alla fine siamo noi. E il rischio, se salta il sistema educativo, è che salti anche un’idea di umanità compiuta.

Nell’immagine di copertina dell’album si vede una bambina armata di martello che si appresta ad abbattere un muro e oltre a quel muro si scorge un cielo rosso sangue. Non c’è speranza nel futuro?
Sicuramente prima di tutto c’è la denuncia. Poi la nostra attitudine, mia e della band, come sente chi viene ai nostri concerti, non è mai stata quella della speranza, parola che non mi piace, quanto invece della resistenza proattiva. Non è quindi una denuncia fine a sé stessa e non ci si crogiola in nessuna sconfitta o idea di resa. Anzi, è proprio da lì che si può ripartire.

Ha detto Pier Paolo Pasolini: «La parola speranza è completamente cancellata dal mio vocabolario. Continuo a lottare per verità parziali, ora per ora, ma non mi pongo programmi a lunga scadenza. Diciamo: vivo un giorno per l’altro, senza quei miraggi che sono alibi».
Pasolini è un mio riferimento da sempre, ma da quando l’ha citato Maurizio Gasparri stiamo attenti a non citarlo troppo (ride).

Anche Matteo Salvini cita spesso Giorgio Gaber e la sua La libertà.
Fa molto sorridere, perché Gaber per me non è un riferimento musicale, ma intellettuale. De André diceva, quando lo accusavano di aver plagiato Georges Brassens: «Non sono sicuro che se non avessi ascoltato le sue canzoni non avrei scritto quello che ho scritto, sono invece sicurissimo che se non lo avessi ascoltato non avrei vissuto come ho vissuto». Che è più importante, perché è un riferimento ideale. Io ho portato in scena centinaia di volte Polli di allevamento, che guarda caso deve molto agli Scritti corsari, e Gaber conclude dicendo: «Quando è moda è moda e quando è merda è merda». Invece non posso far altro che constatare che la maggioranza delle persone continua a cavalcare mode e opportunismi del momento. È importante diventare, non scimmiottare. Quindi, per rispondere alla tua domanda, chi cita Gaber in quel modo senza viverlo idealmente non ha capito niente.

Gli anni Venti è un affresco di tutte le ipocrisie del nostro tempo: dalla comunicazione frenetica alla perdita di umanità ed è presente anche la questione della fluidità di genere percepita come un problema. Rispetto al passato stiamo tornando indietro?
Assolutamente, c’erano libertà maggiori in passato. Pensiamo solo alla controinformazione, agli spazi fuori dal mainstream per proporre alternative e molto prima del reality show nel quale siamo immersi da oltre 20 anni. Io continuo a pensare che dovremmo testimoniare una alternativa possibile. Mentre empiricamente vedo molta gente che si è arresa alla grande comunicazione. I social in tutto questo hanno contribuito, per esempio a rafforzare una cultura egoriferita che non fa bene a nessuno, al di là dell’industria culturale.

Nell’industria discografica, invece, ti sembra che manchi un filtro tra discografici, che giustamente devono rispondere al mercato, e artisti che devono rispondere alle loro ispirazioni?
Certamente, il tempo dei direttori artistici mi sembra ormai sorpassato. Da questo punto di vista, nell’epoca in cui si skippa da brano a brano, noi non abbiamo fatto uscire nessun singolo. La nostra proposta è il disco intero. È uno dei tanti piccoli segnali in controtendenza.

L’ondata trap come l’hai percepita in questi anni?
L’immediatezza assoluta non è mai stata letteraria, ma non si può negare che certe proposte hanno la capacità di impattare sui giovanissimi. Questo è un fatto. David Bowie parlava spesso di zeitgeist e questi trapper hanno un impatto sullo spirito del tempo. Poi però si apre il dibattito, perché se questi ragazzi non hanno alternative poetiche diventa un problema. Scegliere senza poter scegliere è segno di libertà espressiva?

E si arriva al pensiero unico, altro spettro contenuto nel vostro disco.
Mi allarma molto il discorso della discriminazione di tutto ciò che non rientra nel normotipo e che non deve mai eccedere. Eppure, qualsiasi cultura libertaria prevede la possibilità di una diversità e una legittimità di essere una minoranza. Sembra poco, invece è una questione profondissima sull’approcciare alle cose del mondo e agli altri. È troppo importante per tacerlo. Se ci pensiamo, anche l’algoritmo prevede quello: una media di qualsiasi cosa. Invece noi speravamo, sinceramente, in un mondo un po’ più articolato.

Senti il rischio, come dicono in molti, di un ritorno del fascismo?
È questa l’analisi. Quando c’è solo il normotipo siamo già nella società autoritaria, perché qualsiasi eccezione non rientra nello scenario comune. Abbiamo espunto la morte e la sofferenza e ora, come ho detto in un incontro al quale mi hanno invitato, ho aggiunto: 2500 anni di pensiero discriminante hanno finalmente legittimato la discriminazione.

Foto: Martina Ridondelli

Nel 2000 hai scritto il libro di poesie Sullo zero dove, oltre al tema dell’assenza, spiccava quello della re-immersione nella natura per resistere alle devastazioni del paesaggio e all’invasione tecnologica. Una profezia sul cambiamento climatico?
E pensa che nel disco degli Estra del 1999 Nordest Cowboys c’è un pezzo che si chiama Surriscaldando mia madre, che è dedicato proprio a quella problematica.

Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, per spiegarci com’era nato l’album Garage Pordenone, ha spiegato quando già da piccolo si è accorto che la natura stava cambiando: «Andavo spesso in uno stagno, conoscevo tutti gli insetti, i tritoni e le larve che lo abitavano, seguivo il cambio delle stagioni e cosa comportava. A un certo punto, avrò avuto 10 anni, lo stagno si è atrofizzato ed è morto perché c’era una casa vicino da cui scendeva un rigagnolo d’acqua che scaricava detersivi».
Sottoscrivo l’immagine di Davide, il paesaggio agricolo e naturale negli anni ’70 è stato devastato. Da quando ero bambino si è trasformato di giorno in giorno in una immensa distesa di capannoni e con tutte le conseguenze immaginabili sull’ambiente. Perciò era qualcosa che mi sconvolgeva in tempo reale vedere quella bellezza distrutta in nome del profitto e del “benessere”. Che è una parola, in questo senso, abbastanza controversa.

Cambiando argomento, Paolo Benvegnù ci ha detto che a livello sociale, e di conseguenza musicale, anche la vostra generazione ha delle responsabilità: «Le avvisaglie c’erano già ai miei tempi e avremmo dovuto, in un modo o nell’altro, fare qualcosa». Ti senti responsabile?
Le responsabilità le abbiamo avute nel momento in cui siamo andati a Sanremo. Fino a che non ci siamo andati, non ci hanno interessato l’airplay radiofonico o i numeri online, ciascuno perseguiva la propria estetica e c’era uno spazio per tutti, dal folk all’elettronica in base a una proposta poetica. Da un certo punto in poi si è pensato che ci fosse un’unica possibilità, questa è la responsabilità. Invece dal punto di vista artistico esistono testimonianze di una ricchezza notevolissima in un Paese tutto sommato piccolino come il nostro.

Umberto Maria Giardini ci aveva lanciato la provocazione: chi si accorgerebbe oggi di Jeff Buckley?
Di certo farebbe fatica a trovare qualcuno che investe su di lui. D’altronde, già vent’anni fa, un tuo collega chiese a Robert Plant: «Oggi Stairway to Heaven avrebbe lo stesso successo?». E lui, dopo un minuto di silenzio, rispose: «Secondo te un discografico la pubblicherebbe?».

Tu hai sempre portato avanti una ricerca poetica in parallelo alla musica. Come valuti i testi delle canzoni contemporanee?
Che ci sono un sacco di proposte molto interessanti che però non riescono a emergere. Tante band o cantautori che trent’anni fa sarebbero stati sulla bocca di tutti oggi sono relegati in piccolissime nicchie. Qui abbiamo un’altra responsabilità tutti, tendiamo a celebrare il passato e poco il presente. In generale sento tante buone cose su testi ma con spirito diaristico. Tante vicende un po’ troppo personali per diventare manifesto per tutti. È una attitudine che capisco, perché ognuno nei momenti di difficoltà, tende a rifugiarsi in sé stesso sperando che quello che accade a lui possa accadere agli altri. Ma noi con questo disco abbiamo compiuto l’operazione opposta.

Sugli autori delle canzoni sembra essere in corso un piccolo dibattito che è partito dall’ultimo Sanremo. Tanto che Morgan ha proposto una regola: un solo autore in gara per un solo artista e Francesco Bianconi si è detto d’accordo a limitare i “cartelli” di autori.
È evidente perché in 12 scrivono la stessa canzone che abbiamo già sentito o che è previsto abbia successo. Sembra uno sforzo immane per partorire qualcosa di poco interessante. Ho molto rispetto per il sogno di ciascuno, già fare il musicista è un sogno, però sono anche uno spettatore piuttosto esigente e rivendico la possibilità di ribellarmi.

Guardandoti indietro, gli Estra avrebbero potuto avere di più a livello mainstream?
È un discorso molto complesso. Noi avevamo firmato con la Warner, per cui facevamo già parte della scena alternativa italiana. Eravamo gli unici a non avere una label indipendente, anche se poi eravamo indipendenti in tutto, perché autogestiti. Benvenuto nel mistero Estra!

Nessun rimpianto?
Una volta il direttore generale della Warner mi disse: «Casale, con la faccia che hai potresti essere più famoso di Nek». Io mi alzai e gli risposi: «Ti ringrazio, perché mi hai restituito esattamente l’immagine che non vorrei mai essere nella vita». Con tutto il rispetto per la proposta di Nek, ma fino a lì non ci arrivo, sarei troppo imbarazzato nel farlo. A volte siamo stati un po’ sfortunati, con tante possibilità in meno di altri nostri “fratelli”. Quindi qui dovremmo aprire il discorso della gestione, che però ha poco a che fare con l’arte.

Gli Estra sono tornati per rimanere?
A noi piacerebbe molto, personalmente ho già molte idee per il capitolo successivo, ma dobbiamo trovare una spinta per mantenere questo entusiasmo. Le vite di ognuno prevedono tante cose, e fare musica è un investimento notevole quando si va a proporre così tanto materiale nuovo. Spero che riceveremo energia sufficiente per andare avanti. Adesso siamo capaci di una focalizzazione sui nostri obiettivi estetici che forse venti-trent’anni fa non avevamo. I risultati potrebbero essere molto interessanti, anche nel breve periodo.

Possiamo dire che non diventerai mai Nek, però Giulio Casale e gli Estra sono tornati per riprendersi tutto quello che gli è sfuggito in passato?
Sì, ma senza nemmeno troppa rivendicazione. Una delle canzoni che ho cantato tanto, che si intitola La mistificazione, dice che l’unica idea che rimane è esercitare il potere. Mi sembra sia rimasto questo uno dei pochi obiettivi nelle mani dell’uomo occidentale: diventare ricco, famoso e capace di esercitare un potere. Siccome non mi appartiene, quando mi dici «riprendervi qualcosa» mi viene un brivido. Negli Estra siamo tutti padri di famiglia, quindi sono convinto che sarebbe importante lasciare ai nostri figli anche il valore della sconfitta. Lo canto in Monumenti immaginari, in questo ultimo disco, che alzare monumenti è una fragilità, senza retorica. Invece magari fossimo capaci di testimoniare una sconfitta.

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