Gli Scream non sono una band qualsiasi. Sono un nome fondamentale della scena hardcore di Washington D.C., nonché il gruppo in cui si è fatto le ossa Dave Grohl prima di approdare ai Nirvana. Formati nel 1979 dai fratelli Pete e Franz Stahl, veicolavano un verbo sostanziale: non aspettare che la fortuna cada dal cielo, se vuoi suonare imbraccia la chitarra, do-it-yourself e non svendere la tua integrità. Più facile a dirsi che a farsi: Kurt Cobain visse sulla sua pelle una sorta di senso di tradimento di questa attitudine. Anche William DuVall degli Alice In Chains omaggia il gruppo appena può: ha suonato per la prima volta su un palco insieme alla sua band hardcore di allora, i Neon Christ, grazie a un invito di Pete Stahl.
Non sorprende, quindi, che quando gli Scream durante il lockdown hanno deciso di riannodare i fili della loro storia e celebrare con un album le loro radici le adesioni non sono mancate. Uno dei primi ad arrivare in studio di registrazione è stato Grohl, seguito a ruota da Ian MacKaye di Minor Threat e Fugazi, per la cui etichetta Dischord Records uscirà DC Special, il primo lavoro della band di Bailey’s Crossroads, Virginia in quasi trent’anni.
Ci spiega lo spirito del progetto Pete Stahl, che si trova in giro con i Rival Sons come loro tour manager. Ne approfitta per dirci che cosa significava essere giovani e far parte di una band hardcore negli anni ’80.
Un disco nuovo che vuole omaggiare il passato è un po’ la chiusura del cerchio?
È anche l’inizio di un ciclo nuovo, in quanto non esiste creatività senza memoria. Se da un lato la pandemia ci ha completamente fermati, dall’altro ci ha dato il tempo per riflettere su ciò che gli Scream e la scena che li originò sono stati. Abbiamo iniziato a lavorare ai nuovi brani a distanza, ciascuno a casa propria, con l’intento di celebrare la storia musicale di Washington DC, non solo quella dell’hardcore. Così, non appena ci è stato possibile andare all’Inner Ear Studio di Arlington, Virginia, abbiamo aperto le porte a tutti i nostri amici e collaboratori, anche occasionali. Sono stati dieci giorni di party e musica. Abbiamo allestito un’area all’aperto con tavoli, sedie, bibite e un barbecue in modo da poter festeggiare in sicurezza. Le adesioni sono state entusiaste e copiose, anche perché l’Inner Ear Studio di Don Zientara, punto di riferimento della scena, chiude per lasciare il posto a una galleria d’arte.
Oltre a Dave Grohl e Ian MacKaye chi sono gli altri ospiti?
Il chitarrista dei Minor Threat Brian Baker, il multistrumentista Mark Cisneros dei Make-Up che avevo incontrato durante un tour, Joe Lally dei Fugazi e molti altri, tra cui il batterista degli Hangmen Bob Berberich, che ha 73 anni e l’energia di un ragazzino. Mio padre, che ne ha 89, e che era il loro manager negli anni ’60, mi portava con sé durante i concerti dove condividevano il palco con artisti come John Fahey, Link Wray. Così sono cresciuto nei backstage assorbendo ogni genere musicale. Avere Bob nel disco è stata davvero la chiusura del cerchio.
Praticamente un amarcord.
Sì, e ci siamo anche mossi in piena ottica old school: ho preparato io stesso un libriccino dove spiegavo il senso del progetto, il concetto del disco, invitando i musicisti a partecipare. Tanti si sono palesati all’ultimo, semplicemente capitando in studio e offrendo la loro collaborazione, tra una birra e l’altra. Joey Pea, già collaboratore nostro e dei Fugazi, ci ha aiutati a registrare. Nel complesso è stata una gran festa.
La maggior parte dei pezzi sono nati improvvisando?
No, sono stati imbastiti durante il lockdown e riflettono le sensazioni di quello strano periodo. Altri pezzi sono stati scritti dieci anni fa nello studio di Dave Grohl, il 606, altri al Rancho De La Luna insieme a Jerry Williams prima che morisse. Lui aveva prodotto la prima cassetta dei Bad Brains e registrato uno dei nostri primi demo nel 1981. Io sono l’unico degli Scream che vive a Los Angeles, anche se ora faccio la spola tra New York e Washington DC per stare vicino ai miei genitori che sono anziani. Non appena le restrizioni per la pandemia si sono allentate, sono volato nella Est Coast per trovarmi con gli altri. Le registrazioni sono durate in tutto dieci giorni.
Puoi dirci qualcosa sul tiro del disco?
È il tipico album degli Scream: ci sono hardcore, reggae, rock e momenti più acustici.
Ti aspettavi di vedere Dave Grohl in studio?
No, perché so che è molto impegnato. L’avevo invitato, ma non ci speravo. Invece Dave, che non ha mai dimenticato le sue origini, si è innamorato del progetto e ha fatto in modo di esserci.
Ti ricordi la prima volta che l’hai incontrato?
Aveva circa 17 anni. Il nostro batterista Kent Stax voleva smettere perché stava per nascere il suo primo figlio e non poteva più venire in tour. Facevamo pochi soldi e lui aveva bisogno di un lavoro vero. Il bassista Skeeter mi parlò di Dave, allora batterista dei Dain Bramage, che era una macchina da guerra. L’abbiamo raggiunto dopo un concerto e gli abbiamo chiesto se voleva fare parte degli Scream. Era nostro fan, sapeva già tutti i brani, è stato felice di accettare. Ha dato alla band nuova linfa ed energia. Il resto è storia.
Anche William DuWall, il cantante attuale degli Alice In Chains, proviene dalla scena hardcore di Washington DC, tanto che ha riedito 1984 del suo gruppo di allora Neon Christ. Ha detto che siete stati voi a farli suonare su un palco per la prima volta e si è detto estremamente grato.
Li avevamo invitati a dividere il palco con noi come supporter e da lì William non si è più fermato. Mi fa piacere che sia lui che Dave, che ora hanno accesso a platee planetarie, non si scordino le loro radici. Siamo tutti nostalgici di quel senso di comunità che ora si è perso. Esisteva una fratellanza tra band ora inimmaginabile. Fare DC Special ha rievocato quello spirito.
Preferisci i Nirvana o i Fugazi?
Non posso scegliere, li amo entrambi per motivi diversi. I Fugazi sono una band di culto. I Nirvana avrebbero ancora fatto cose importanti se non fosse stato per la tragedia di Kurt. Penso non ci sia nulla di male ad avere successo e non abbraccio la teoria in voga nell’underground secondo la quale se hai successo mainstream sei un venduto. Quando i Nirvana iniziarono non si immaginavano di diventare ciò che sono diventati. Appena registrato Nevermind ancora giravano con noi in un furgone e mi ricordo che Krist Novoselic mi diceva: «Come cazzo faremo a restituire tutti i soldi che ci hanno dato per fare il disco?». Era davvero preoccupato. Non potevano neppure concepire ciò che sarebbe successo da lì a poco. Continuavano con la solita routine: suonare in piccoli club, spaccare tutto, tornare nel furgone. Sono sicuro che i Nirvana avrebbero ancora potuto dare tanto, perché erano tutti pieni di talento. E fino all’ultimo, anche quando erano rockstar mondiali, hanno cercato di mantenersi fedeli all’attitudine del punk-rock che, in quella macchina spinta ai mille all’ora in cui si trovavano intrappolati, era impresa titanica. Non posso dimenticare quando hanno arruolato Big John Duncan degli Exploited: era stato una sorta di statement.
Hai dei rimpianti che gli Scream non abbiano mai raggiunto un grande successo commerciale?
Noi siamo un’altra cosa. Ci siamo sempre mantenuti integri, fedeli alla linea, non abbiamo mai mirato al successo commerciale. Negli anni ’90, quando le major iniziarono a cooptare tutte le band indipendenti e nacque la cosiddetta scena alternativa, io e Franz ci trasferimmo a Los Angeles e fondammo gli Wool, ma gli Scream sono sempre stati un gruppo hardcore puro e tali restano. Sono il frutto degli anni ’80, quando le politiche neo-liberiste della Thatcher in Inghilterra e di Reagan negli Stati Uniti crearono nuove sacche di povertà e molta rabbia sociale anche nella middle class bianca. Non dimentico quando le fabbriche stavano chiudendo e Reagan parlava alla televisione dello Scudo spaziale, come se a chi era senza lavoro la cosa potesse interessare. Quelle persone facevano tre, quattro lavori insieme per campare e la musica per loro era uno sfogo, non un passatempo intellettuale.
Eppure quelle difficoltà generarono uno spirito collettivo che si opponeva all’individualismo.
Vero. Era la continuazione dello spirito collettivo degli anni ’60. Molti hippy hanno donato i loro spazi controculturali alla scena punk. Siccome nei locali per concerti non potevano entrare i minorenni, i figli dei fiori aprirono le loro gallerie d’arte per far esibire band agli esordi come la nostra. Internet era agli albori, ci facevamo pubblicità con le locandine, attraverso le fanzine. C’era una solidarietà che ora non esiste più. Venivamo in Italia e subito ci trovavano il posto per dormire, per suonare. Diventai amico dei Negazione, gruppo pazzesco. In un centro sociale di Udine conobbi anche quella che sarebbe diventata la prima moglie di Mike Patton, che aveva un gruppo punk con la sorella.
Poi il mainstream ha divorato l’underground.
È la progressione naturale delle cose: nascono, diventano popolari, si trasformano. L’attivismo degli anni ’60 e ’70 si è trasferito nel punk degli anni ‘80 per diventare i Green Day negli anni ’90, che di antagonista hanno ben poco. Anche il rap ha subito una metamorfosi ed è sempre meno l’idioma della strada. Quel periodo però resta unico: eravamo una tribù, accomunati dalla stessa visione delle cose al di qua e al di là dell’Atlantico, una comunità che reagiva a un establishment sempre più distante dalle persone.
Con DC Special si rievoca quello spirito fraterno.
È una bella soddisfazione. Alla mia età suono ancora con i miei amici delle superiori di Bailey’s Crossroads. Ogni evento nella vita ha un senso. Ad esempio, se Dave non avesse lasciato gli Scream per i Nirvana io non sarei andato a Los Angeles e non avrei conosciuto Dave Catching degli Earthlings? e Greg Anderson dei Goatsnake, le altre band in cui canto. Quello spirito resta unico perché quel periodo lo fu, ma la stessa attitudine si può riprodurre anche ora. Dipende unicamente da noi.