Un tempo non era così facile essere ignorati all’improvviso, ma agli Slowdive è successo. Siamo negli anni ’90, e negli anni ’90 un articolo della rivista giusta poteva cambiare per sempre la carriera di una band. Ed è così, dopo tre Ep che avevano attirato l’attenzione di mezza Inghilterra, dei ragazzi di Reading si ritrovano per le mani un contratto discografico e una serie di recensioni entusiastiche. Con le loro melodie sospese tra shoegaze e pop, gli Slowdive erano più che una promessa.
Poi, tre settimane dopo la consegna del master del terzo album Pygmalion, la Creation li scarica senza troppe spiegazioni. Da un giorno all’altro, ecco il britpop degli Oasis, che pubblicheranno l’esordio proprio con quella stessa etichetta. Le recensioni diventano negative, il pubblico sparisce dai concerti e la band finisce per autofinanziarsi il resto del tour.
A un certo punto, saliti sul palco di una delle ultime date, si ritrovano di fronte a una sala vuota. Al centro c’era solo la donna delle pulizie, armata di mocio e secchio. Un’immagine che non dimenticheranno facilmente. Quasi un incubo. Pochi mesi dopo, nel 1995, gli Slowdive si sciolgono.
Poi, nel 2014 Slowdive tornano sul palco del Primavera Sound, ed è lì che li abbiamo rivisti quest’estate – adesso c’è persino un nuovo album da suonare. Sul palco, però, non ci sono più i ragazzini incompresi di Reading, ma una band pronta a riprendersi tutto.
Gli Slowdive si esibiranno al ROAM Festival di Lugano il 25 luglio. L’intervista a Neil Halstead è stata realizzata al telefono
È passato molto tempo dal vostro ritorno al Primavera, ma guardandovi sul palco sembrate ancora sorpresi dalla dimensione del pubblico
C’era tantissima gente e non ci siamo ancora abituati. Gli ultimi anni sono stati incredibili, abbiamo suonato ovunque e ci sembra tutto strano. Il Primavera, comunque, è un posto speciale. Non pensavamo che sarebbe stato bello come nel 2014, e invece.
È una rivincita?
No, nessuna rivincita. Chi parlava male di noi, la critica, faceva parte di una cultura che ora non c’è più. All’epoca non era strano che la stampa stroncasse le band più piccole, era la normalità. Oggi è cambiato tutto, soprattutto grazie a Internet. Ora c’è una prospettiva diversa. Ma non fraintendermi: ci siamo divertiti un casino negli anni ’90, non ci interessava vendere i dischi, non è mai stato quello il punto. Noi volevamo solo scrivere e suonare la nostra roba.
A differenza di quanto succede con le altre reunion, nel vostro pubblico non ci sono solo nostalgici ma un sacco di giovani, esattamente come succedeva negli anni ’90
I nostri primi due album sono stati scritti in un momento di rabbia e solitudine. Ed avevamo più o meno la stessa età di chi era sotto al palco del Primavera. Forse il merito è di Internet, con la rete puoi esplorare tanta musica diversa di tutte le epoche. Ma non saprei davvero.
Per me sono le melodie, anche se siete una band shoegaze
Forse sì. Noi abbiamo sempre cercato di scrivere musica potente, con un suono enorme. Ma il noise non vuol dire per forza essere dissonanti. Forse sono le melodie a rendere il nostro sound accogliente.
Che cosa è cambiato in questi 20 anni?
Io ho suonato tanta musica folk, tutti abbiamo fatto cose molto diverse. Direi che è cambiata la nostra sensibilità, ora siamo più sicuri di quando eravamo giovani e non sapevamo davvero cosa stavamo facendo. Ora siamo più consapevoli, forse troppo (ride).
Com’è stato tornare nella White House, la vostra vecchia sala prove?
Ti dico la verità, è stato strano. Lì abbiamo registrato le prime demo, e tutto è rimasto al suo posto, esattamente dove l’avevamo lasciato per le session di Souvlaki. Quando abbiamo deciso di fare il disco nuovo abbiamo subito pensato alla White House, ed è lì che abbiamo composto il grosso delle canzoni.
A proposito di ricordi: pensate ancora alla signora col mocio?
Sì, a volte sì. Abbiamo sempre paura di trovarci in una sala vuota, con qualcuno che fa le pulizie. Ma a parte gli scherzi, abbiamo grande rispetto del nostro pubblico, e non lo diamo mai per scontato. La signora col mocio ci ha reso umili (ride).
Torniamo al nuovo tour. Come mai chiudete tutte le date con Golden Hair di Syd Barrett?
L’avevamo registrata in uno dei primi EP, Holding Our Breath, ma non la suonavamo quasi mai. Quando siamo tornati insieme è diventato uno dei nostri brani preferiti. Ci piace suonarlo alla fine perché c’è questa parte strumentale molto lunga, possiamo improvvisare e lasciarci un po’ andare. Ormai è una canzone obbligatoria, non ce la sentiamo di cambiare scaletta.
Il testo è tratto da una poesia di James Joyce. Non vi è venuta voglia di provare?
Non ci avevo mai pensato! Forse dovremmo… la combinazione tra Joyce e Barrett è geniale, e forse con la poesia giusta potremmo provare anche noi.
Magari nel prossimo album
E’ presto per dirlo, ora vogliamo prenderci una pausa così che tutti possano tornare ai loro progetti. Non vogliamo fare subito un altro disco, non sarebbe divertente. Ci incontreremo di nuovo l’anno prossimo, e se qualcuno avrà una buona idea…