Nata come resident band in una serata open mic a Brixton, quella degli Speakers Corner Quartet è storia lunga quindici anni, che degli incontri a sud di Londra ha coltivato sogni e storie utili adesso (e finalmente) a scrivere un album vero, quello di debutto. Il quartetto, composto da Biscuit al flauto, Giles Kwakeulati King-Ashong (noto come Kwake Bass) alla batteria e alle percussioni, Raven Bush al violino e Peter Bennie al basso, ha infatti da poco pubblicato Further Out Than The Edge, il loro primo album, un lavoro elegante e riflessivo, costruito attorno ad una narrazione che sembra trasportare nel cuore di un lungo spettacolo corale a più mani e capace di riunire una lunga lista di amicizie e conoscenze capitate lungo gli anni, la maggior parte delle quali ora sono tra i nomi più interessanti della musica pop ancora – in qualche mod- underground e interessante. Tirzah (partner nella vita di Kwake Bass), Kae Tempest, Mica Levi, Coby Sey, Kelsey Lu, Sampha, tra i molti ospiti presenti, danno così il loro apporto in un’opera corale difficile da incastrare in un unico contenitore, dove il jazz di stampo elettronico si mescola a partiture più old school e tappeti ambientali si accompagnano voci sussurrate e melodie eteree. Un disco che arriva dopo più di un decennio tra notti fatte di spoken word, jazz e hip-hop jam in piccoli locali e che porta finalmente il suono degli Speakers Corner Quartet alle orecchie di un pubblico più ampio.
«Ci siamo conosciuti durante una delle più grandi serate open mic in Regno Unito», dice Biscuit, «essenzialmente grandi festival hip-hop al centro di Londra: è lì che ho fatto la conoscenza di Kwake». Un viaggio che così comincia tra infinite session in studio e live improvvisati in piccole venue della capitale inglese: «Con lui abbiamo iniziato a vederci in studio praticamente subito, anche perché le notti al Brixton Jamm finirono presto. In poco tempo abbiamo cominciato a scrivere musica e suonare in giro; sentivamo il bisogno di continuare con quella magia. E così poco dopo si è aggiunto Peter al basso». Per l’ingresso di Raven Bush al violino, invece, si dovrà attendere il 2012, grazie a internet e ad una delle più attive community online di quegli anni, Myspace.
L’ispirazione per il nome della band è da associare al famoso Speaker’s Corner di Hyde Park a Londra (uno storico luogo di dibattito e oratoria pubblica che ospitò anche Karl Marx e George Orwell), a cui la loro idea di musica fatta di collettività, comunità e apertura si rifà apertamente. Ed è nella musica stessa che i quattro fanno sì che l’essenza ed i valori alle origini dello Speaker’s Corner rivivano, come nella scelta del lirismo della poetessa e musicista Kae Tempest che in Geronimo Blues mette in discussione i valori della società e le relazioni umane sia con noi stessi che con la tecnologia, citando il grido dei paracadutisti americani nella Seconda Guerra Mondiale che si lanciavano dagli aerei gridando al vento “geronimo”: «È stata la prima traccia a vedere la luce», racconta Raven, «All’epoca stavo lavorando con Kwake alla sonorizzazione di Brand New Ancients di Kae, un’opera teatrale in stile spoken-word. Così come l’ispirazione per quel brano ha origine da uno scambio e da una reciproca ispirazione, ciascuna delle tracce è stata scritta e pensata con un artista già in mente, o cucita appositamente perché l’artista coinvolto vestisse al meglio quell’abito», aggiunge.
La loro prima (e fino a poco tempo fa unica) uscita discografica risale di fatto al 2009, con l’EP Further Back Than The Beginning, ma pur apparendo lontani dalla produzione e dal mondo discografico, il quartetto è sempre stato attivo dietro le quinte e con ruoli diversi nei progetti di alcuni degli artisti coinvolti nel loro album: «Pur non avendo concretamente scritto un album insieme prima di oggi, siamo stati in mezzo a decine di progetti delle persone che adesso compaiono nel nostro, dalla produzione agli show dal vivo. E ne abbiamo portati avanti di nostri pubblicando album da solisti. Quello che ci ha unito come band è stato trarre spunto l’uno dall’altro durante le occasioni più normali, come preparare una cena e stare tutti insieme. Una volta che abbiamo deciso di farlo sul serio è stato del tutto naturale: lontano dagli strumenti abbiamo sempre coltivato idee e spunti per la musica che sarebbe nata». Uno spirito rimasto praticamente immutato sin dagli esordi: «Abbiamo iniziato a scrivere buona parte dell’album già dieci anni fa, la maggior parte delle collaborazioni che figurano nel disco sono persone che ruotavano attorno allo stesso ambiente e con cui lavoriamo da tempo».
Dalle fatidiche jam alla scrittura di un album così ricco e complesso il mondo degli Speakers Corner Quartet è cambiato parecchio: «Per noi produrre l’album e portarlo in tour sono praticamente due lavori diversi, sicuramente. Gran parte del nostro linguaggio poi si basa su una grande libertà di far dialogare sampling e improvvisazione, e sta risultando interessante contestualizzare diversamente il lavoro fatto in studio, dandogli una natura live», spiegano. «Alcuni brani come Can We Do This? (con Sampha) e Karainagar (con Mica Levi) fanno quasi il percorso inverso: essendo frutto di jam in studio, durante i live rivivono in qualche modo la stessa atmosfera del primo take».
Volendo direttamente prendere il titolo dell’album come indizio finale, Further Out Than The Edge traducibile in italiano in “più lontano del confine”, può in qualche modo rappresentare il proseguimento del viaggio oltre la dimensione vissuta finora. Il tour infatti li vedrà passare da palchi importanti come quelli di Glastonbury e del Montreaux Jazz Festival. «Dopo il disco lo show sta cominciando ad arrivare in posti incredibilmente più grandi di ciò a cui siamo abituati. Vogliamo però mantenere l’autenticità alla base delle nostre idee», dice Raven. «Di recente abbiamo fatto un live al Gillett Square a Dalston, un set molto più intimo e che si avvicinava molto alla dimensione da cui siamo partiti. Le piccole venue hanno sempre un’energia più particolare, da preservare».
La storia degli Speakers Corner Quartet, quattro musicisti di Londra riuniti dalla vera passione per suonare insieme, è affascinante proprio perché parte dalle radici del suono e dalla voglia di impugnare gli strumenti in collettività e darsi il tempo affinché la magia possa accadere. Viene dunque naturale chiedersi: l’avvento della IA nella musica rischia di mettere a rischio tutto questo? «Stiamo entrando in una fase in cui dovremo considerarla una certezza: l’intelligenza artificiale diventerà la concorrenza. Ma non bisogna avere paura, siamo pronti a sperimentare e capire cosa sarà capace di portare» risponde sicura la band. «Di una cosa siamo comunque abbastanza sicuri: la sensazione di ascoltare una vera voce cantare dal vivo rimarrà difficile da replicare. Per quanto il digitale si potrà avvicinare alla perfezione, la musica continuerà ad appartenere alle persone».