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Gli ultimi giorni di John Prine

L’ultimo concerto a Parigi voluto con caparbietà. I dolori dovuti a un problema all’anca. L’operazione. La quarantena. La moglie, i figli, gli amici raccontano com’è vissuto e morto il gigante del folk americano

John Prine ha cantato ovunque, dai folk club di Chicago ai locali sold out di Londra fino a quelli dell’Australia. C’era un posto in cui voleva assolutamente suonare nell’ultima parte del tour di The Tree of Forgiveness: Parigi.

Non che la città francese si curasse granché di lui. Un promoter aveva spiegato al tour manager del cantante Mitchell Drosin che fissare il primo concerto in assoluto di Prine in Francia non aveva alcun senso: se si fosse esibito con la band avrebbe perso soldi. «John disse: “Tu non capisci. Voglio suonare a Parigi e voglio stare al George V”, che è uno degli hotel più costosi al mondo», ricorda Drosin. «È un Four Seasons, è pazzesco. Gli ho risposto: “Guarda che pagherai per il soggiorno più di quanto guadagnerai dallo show. Sarà solo un piccolo spettacolo in un club”. Lui rispose: “Fantastico”».

Drosin ha perciò fissato un concerto al Café de La Danse di Parigi, un locale da 500 posti decisamente più piccolo degli altri toccati dal tour. Prine amava Parigi in un modo che persino la moglie e manager Fiona faticava a comprendere. «Gli piaceva il fatto che i parigini lo guardassero dall’alto verso il basso», spiega. «Amava la gente e il cibo e l’idea di non capire una parola di quel che dicevano. Non era egocentrico».

Al concerto, il 13 febbraio, Prine soffriva da matti per un cedimento dell’anca che non gli era ancora stato diagnosticato. Per la prima volta in vita sua, ha cantato da seduto. Ma ha portato a termine il concerto interpretando uno dei cataloghi migliori della musica popolare americana. Quella sera il pubblico ha ascoltato Six O’Clock News del 1971, la splendida storia di un uomo che s’ammazza dopo aver scoperto le bugie che stanno alla base della sua storia familiare. E poi Angel From Montgomery, il classico che racconta l’esistenza triste di una casalinga di periferia degli anni ’50. E Summer’s End, la ballata del 2018 che ha dedicato alle chi soffre a causa della crisi degli oppioidi in America.

Quella sera, Prine ha invitato Fiona e alcuni familiari sul palco a cantare insieme a lui Paradise, la canzone del 1971 che racconta la devastazione della città mineraria del Kentucky dove si sono incontrati i genitori e che negli ultimi anni è diventata un inno ambientalista. Scherzava sulla sua condizione di immobilità: «Ok, ora facciamo direttamente i bis», ha detto perché non era in grado di lasciare il palco facilmente. Il suo fonico Andy Primus rammenta che Prine era elettrizzato e raccontava più storie del solito. «C’era gente seduta sulle scale e appoggiata alle ringhiere, sembrava che stesse suonando nel salotto di casa. Gli piaceva quell’atmosfera, se la godeva un mondo».

«Avrebbe potuto uscire di scena ballando da tanto era felice per quel concerto», dice Fiona. «Era sold out e il pubblico l’aveva amato. Per lui, era una specie di giro d’onore».

Tutto il tour è sembrato un giro d’onore. Quando nel 2018 Prine ha pubblicato The Tree of Forgiveness, erano 13 anni che non faceva uscire un disco di inediti. Quell’album ha dimostrato che era in grado di scrivere cose profonde anche superati i 70 anni. Per mezzo secolo, Prine ha cantato di cose di cui nessun altro si occupava: la solitudine degli anziani, omicidi seriali, una scimmia persa nello spazio. Lo faceva in canzoni che mescolavano semplicità solo apparente, osservazioni acute, tocchi surreali. Bob Dylan e Bonnie Raitt sono da tempo suoi grandi fan e negli anni ’10 Prine è diventato una sorta di tesoro nazionale. Le sue canzoni sono diventate un punto di riferimento fondamentale per una nuova generazione di cantautori. Dan Auerbach, Jason Isbell e Amanda Shires sono andati in perdita pur poter aprire per lui. Kacey Musgraves ha scritto una canzone in cui fantastica di farsi una canna con lui. Prine ha vinto un Grammy e un premio alla carriera della Americana Music Association. («Mai capito cos’è l’Americana», ha detto, «ma che mi chiamino come vogliono, basta che mi chiamino»). Voleva continuare. Quando quest’anno ha girato l’Europa in tour aveva già scritto una mezza dozzina di canzoni per il suo prossimo album e aveva iniziato a lavorare su un’autobiografia.

Prine ha festeggiato il concerto parigino con un piatto di formaggi francesi. Il dolore all’anca era fortissimo ed è stato costretto a cancellare il resto del tour. Prima di tornare a casa, però, è rimasto a Parigi con Fiona per qualche altro giorno. Ordinavano il servizio in camera, bevevano vino costoso, guardavano film tra cui Joker. «L’ultimo giorno sono uscita a fare shopping, gli ho fatto un sacco di regali», dice Fiona. «Lui ne comprava sempre a me, ma non poteva uscire perché non riusciva a camminare bene. Gli ho preso un anello che ora porto io. Gli ho comprato degli occhiali. Volevo ricoprirlo di tenerezze». Prine aveva già avuto problemi di salute in passato fra cui il cancro che aveva sconfitto alla fine degli anni ’90. «Una parte di me sapeva che non gli sarebbe rimasto molto tempo», dice Fiona. «Ma credevo che ne avremmo avuto di più, magari un paio d’anni».

Prine e Fiona sono tornati a Nashville dove il cantante è stato sottoposto con successo a un’operazione all’anca. Nei giorni seguenti, però, ha sviluppato una brutta tosse che ha attribuito alla sua broncopneumopatia cronica. Siccome era stato in Europa, un dottore lo ha sottoposto l’esame del Covid-19. Fiona stava per uscire dalla stanza, quando il medico le ha consigliato di fare altrettanto. Il risultato di John era non significativo, Fiona era positiva. «Sono quasi svenuta».

Fiona si è messa in quarantena lontana da casa. Il suo non era un caso grave, «eppure è stato peggio di tutto quel che ho avuto in passato. Non c’entra niente con l’influenza o il raffreddore».

All’inizio anche Prine sembrava cavarsela bene. Ha continuato a fare riabilitazione e a seguire le notizie. Aveva l’abitudine di registrare e vedere tutti e tre i principali notiziari della sera. «Provava dispiacere per l’America», dice Fiona, «perché si era arrivati a questo: il distanziamento politico che era diventato distanziamento fisico. Mi raccontava che da ragazzino a nessuno importava se eri democratico o repubblicano. Era l’ultima cosa a cui pensavi quando andavi a scuola o stavi con gli amici. Gli ha spezzato il cuore vedere il Paese diviso».

Fiona è tornata a casa dopo avere ricevuto l’autorizzazione a farlo. Doveva comunque stare lontana da John e perciò si parlavano una sopra e l’altro sotto le scale. «Mi diceva sempre: sto bene. Un giorno però mi ha detto: sono esausto, non riesco a stare sveglio».

Il giorno in cui è finita la quarantena, Fiona ha portato Prine al Vanderbilt University Medical Center, dove le sue condizioni sono peggiorate. Due giorni dopo l’arrivo, l’hanno attaccato a un respiratore. Prine è rimasto in quello stato per 10 giorni. Stava morendo e perciò l’ospedale ha concesso a Fiona di visitarlo e stare con lui in terapia intensiva in quello che sarebbe stato il suo ultimo giorno di vita. Poiché aveva avuto il virus, Fiona era diventata probabilmente immune. «Ho parlato con lui per 14, 15 ore. Gli ho fatto ascoltare della musica. Gli ho fatto sentire le sue canzoni. Gli ho fatto ascoltare i messaggi dei bambini, dei fratelli, della mia famiglia», ricorda. «Gli ho detto le cose che volevo dirgli. Non era in grado di comunicare, ma voglio pensare che fosse in grado di sentirmi».

Prine è morto il 7 aprile a causa di complicanze derivanti dal virus. Aveva 73 anni. È stato pianto e ricordato con affetto in tutto il mondo. Le sue canzoni sono state trasmesse in streaming 20 milioni di volte in due soli giorni. Ha detto Bob Dylan: «Il talento e lo spirito di John erano un dono per il mondo. Siamo stati fortunati ad averlo visto e sentito». Michael D. Higgins, presidente dell’Irlanda, il Paese dov’è cresciuta Fiona, ha definito Prine «una voce tollerante, inclusiva, eccentrica e di protesta che ha descritto l’esperienza di chi vive ai margini della società».

«Nei primi anni ’70 John ed io eravamo considerati i nuovi Dylan», ha detto Bruce Springsteen. «Era l’uomo più amabile al mondo. Scriveva musica piena di compassione con una precisione e una creatività inaudite, nessuno come lui descriveva i dettagli di vita quotidiana. Era un autore dotato di un grande senso dell’umorismo, era divertente, sensibile e pungente. Era uno dei grandi originali».

Foto: Danny Clinch/Sacks & Co.

Quando faceva interviste, John Prine dava l’impressione di avere ottenuto successo per puro caso. Lo attribuiva al giorno del 1971 in cui Paul Anka e Kris Kristofferson l’avevano visto in un club vuoto di Chicago, la qual cosa aveva portato rapidamente a un contratto discografico. Ma nel profondo, dice Fiona, «sapeva che le sue canzoni erano buone perché erano sincere. Era frutto di ispirazione divina. Sapeva di avere un dono e lo rispettava, anche se ha passato tanti, troppi anni nell’ombra».

Il dono di cui parla Fiona è nato quando Prine era un ragazzino nel sobborgo di Maywood, a Chicago, nei primi anni ’50. «Ho sempre avuto una fervida immaginazione», mi ha detto Prine nel 2016. «Era l’unica cosa in cui brillavo a scuola». Ricordava un compito di classe di inglese. «Bisognava scrivere qualcosa a partire da un dialogo. Scrissi di una scala mobile e di persone che salivano e scendevano e parlavano. Ho preso il massimo dei voti. Era l’unica cosa che mi veniva facile».

Ammirava il padre Bill, un tecnico di costruzione di attrezzi e stampi presso l’American Can Company, fervente democratico e presidente del sindacato dei lavoratori siderurgici locali. Pur vivendo a Maywood, Bill considerava casa la Contea di Muhlenberg, nel Kentucky. Lui e la moglie Verna erano cresciuti nella regione delle miniere di carbone prima di trasferirsi al nord, in modo che Bill potesse trovare lavoro. Ogni estate, i Prine prendevano l’auto e tornava in quei luoghi per incontrare la famiglia. «Era una città magica perché sembrava rimasta indietro nel tempo», ha detto John. È lì che ha sentito per la prima volta la musica bluegrass; è da quella zona che vengono Bill e Charlie Monroe e gli Everly Brothers. «E così ho imparato il bluegrass e le vecchie ballate country. È la mia formazione musicale». Quando la città natale dei suoi genitori è diventata una miniera a cielo aperto, Prine ha scritto Paradise.

Visto che i suoi voti erano «troppo brutti» per il college, dopo il diploma di scuola superiore conseguito nel 1964 Prine ha seguito il consiglio del fratello maggiore Dave ed è diventato postino. La paga era buona, idem i benefit. Ogni cosa è stata sconvolta quando alla fine del 1966 Prine è stato arruolato nell’esercito, mentre la guerra del Vietnam si stava intensificando. Non fu però spedito in Vietnam, ma a Stoccarda, nella Germania occidentale, dove lavorò come ingegnere meccanico. Prine non ha mai raccontano con enfasi gli anni del servizio militare e ha descritto il suo contributo come «bere birra e far finta di riparare camion».

Dopo la guerra, Prine è tornato a fare il postino, un’attività che dava molti spunti per scrivere canzoni. Vagando per i sobborghi di Chicago, scrisse classici come Donald and Lydia, su una coppia che «faceva l’amore a 15 chilometri di distanza», e Far From Me, una ballata sulle sensazioni gelide e da purgatorio che lo consumavano prima della sua prima rottura. «Scrivevo di cose che vedevo e sentivo, e che gli altri non mettevano nelle canzoni», ha spiegato. «Scrivevo di cose di cui la gente preferiva non parlare». La canzone più coraggiosa aveva a che fare con l’esercito. Sam Stone parla di un veterano che torna dal Vietnam e diventa eroinomane. «Stavo cercando di dire qualcosa sui nostri soldati che andavano in Vietnam, ammazzavano gente e manco sapevano perché erano lì», ha spiegato a Rolling Stone nel 2018. «Quando poi tornano a casa cominciano a farsi e non ne escono più».

Prine divenne immediatamente un nome nella scena folk di Chicago. Due giorni prima del ventiquattresimo compleanno, era al Fifth Peg ad esibirsi di fronte critico del Chicago Sun-Times Roger Ebert. Il titolo di Ebert, “Il postino cantante trasmette un messaggio potente usando le parole con parsimonia” ha portato a vari sold out. Poco dopo, il cantante Steve Goodman ha portato l’improbabile duo formato da Kris Kristofferson e Paul Anka a vedere Prine all’Earl of Old Town. Kristofferson paragonò l’esperienza a «inciampare in Dylan quand’è entrato per la prima volta nella scena del Village».

Kristofferson ha invitato Prine sul palco del Bitter End di New York. Il giorno successivo, il presidente di Atlantic Records Jerry Wexler ha offerto al cantautore un contratto da 25 mila dollari. «Era un po’ un momento Cenerentola», ha detto Prine. Con Anka nel ruolo di manager, ha registrato la maggior parte del suo album omonimo agli American Sound di Memphis con i Memphis Boys, la house band dello studio famosa per il lavoro con Elvis Presley, Dusty Springfield e altri. Prine era nervoso: «Non appena finivo di suonare l’ultima nota di ogni canzone, volevo sgattaiolare fuori dalla porta». L’album entrò a malapena in classifica, ma diventò presto un punto di riferimento per moltissimi artisti, da Bonnie Raitt a Steve Earle.

Raitt ricorda la prima volta che ha ascoltato Angel from Montgomery, una canzone su una donna sposata che si sente invecchiata anzitempo. «Il fatto che questa giovane potesse sentirsi come una donna di mezza età e che tutto fosse così reale e cinematografico mi ha toccato profondamente». Raitt ha registrato una cover nel 1974 che è diventata uno dei suoi maggiori successi. «So che I Can’t Make You Love Me ha vinto il Grammy e tutto il resto», dice, «ma Angel from Montgomery è la canzone più significativa per me e i miei fan, credo».

Raitt e Prine hanno fatto diversi tour insieme nel circuito dei college. «Vederlo suonare mi ha sempre sbalordito: il mix di pathos, umorismo e intelligenza sardonica, e il suo sguardo unico sulle persone mi mandava al tappeto. Era la stessa persona sia sopra che sotto il palco».

Raitt ricorda quando esploravano città nuove e passavano la notte a far festa negli alberghi. «Non potrei mai immaginare i miei 20 anni senza di lui», dice. «Li paragono a Becky con Tom Sawyer e Huck Finn, qualcosa del genere. Eravamo come ragazzini in giro in bici prima che i genitori ci richiamassero a casa per andare a letto dopo cena. Quell’eccitazione dei bambini, l’emozione di stare insieme, l’allegria sono queste le cose che ricorderò più a lungo».

Prine nel 1975. Foto: Tom Hill/WireImage

A metà degli anni ’70, Prine si è stancato di inseguire la sua prima hit e ha chiesto alla Atlantic di liberarlo dal contratto. Nel 1977 è andato a Nashville per registrare un album rockabilly con Cowboy Jack Clement, leggenda della Sun Records. «Il suo motto era: “Se non ci stiamo divertendo, siamo nell’industria sbagliata”», ha detto Prine. «Eravamo strafatti e suonavamo bella roba». Si divertivano talmente tanto che non hanno mai finito il disco, ma Prine si è innamorato di Nashville, dei suoi autori e dei musicisti con cui lavorava.

Poco dopo si è trasferito in città e la sua casa è diventata una fermata obbligatoria per tutti i musicisti che suonavano nel giro dei bar. «All’epoca John sfornava un tacchino fra mezzanotte e l’una della notte, completo di contorno: purè di patate e salse», ha detto l’anno scorso il co-autore e chitarrista Pat McLaughlin. «Non c’era molta verdura perché non gli piaceva granché. Lo passava così il tempo a Nashville, e lavorava sempre».

Nel 1981 Prine ha fondato la sua etichetta, Oh Boy Records, insieme al manager Al Bunetta. Hanno venduto il suo album del 1984 Aimless Love via posta, con i fan che spedivano assegni. «Si è inventato il mio lavoro», ha detto il cantautore Todd Snider, che ha pubblicato i primi album con Oh Boy. «Soprattutto quando ha fondato la sua etichetta e ha iniziato a fare tutto con la famiglia e il suo team. Prima di lui non c’era nessuno a cui Jason Isbell si sarebbe ispirato, a parte forse Springsteen».

La Oh Boy funzionava talmente bene che Sony offrì una bella somma per comprarla, ma Prine rifiutò. Era sempre più a suo agio con l’anonimato. «E la mia musica, che non era certo pop, non invecchiava», ha detto. «Non ero congelato nel tempo per colpa di una o due hit. Quindi, non essere molto conosciuto in un certo senso mi ha aiutato. La gente pensava che fossi uno di famiglia. Sentivano le mie canzoni durante i viaggi in auto e i bambini imparavano i pezzi e li cantavano insieme ai genitori. Anche la prima musica folk si imparava e trasmetteva così».

Da sinistra: Tommy, Jack, John, Fiona e Jody Prine. Foto per gentile concessione della famiglia Prine

Fiona Whelan è cresciuta nel Donegal, in Irlanda. Nel 1988 aveva 27 anni e lavorava in uno studio di registrazione di Dublino quando diversi artisti di Americana – gli Everly Brothers, Cowboy Jack Clement e altri – sono arrivati in città per l’inaugurazione di un nuovo locale. Tra loro c’era anche Prine. «L’ho visto sul palco e mi ha ipnotizzata», dice Fiona. Durante l’afterparty, era al bar con un amico quando Prine è apparso. L’amico di Fiona li ha presentati, lei gli ha chiesto quando sarebbe tornato a suonare a Dublino. «In realtà», ha detto allungando il braccio, «pensavo di cantare proprio adesso. Vuoi venire a sentire?». Hanno passato tutta la notte a parlare e lui l’ha invitata a pranzo. «Ero alla mia scrivania quando mi hanno avvisato dall’ingresso: “C’è una persona qui che ti vuole portare a pranzo fuori”. Ho risposto: “Chi?”. E lei: “È John Prine”. Ho pensato: wow, è venuto davvero».

«Era carino, e in un certo senso sexy», dice Fiona. «Aveva un’aria un po’ pericolosa, ma era gentile. Questa è la mia prima impressione di John, era un uomo davvero gentile. Ero parecchio intenerita. Avevo perso mio padre e la sua morte mi aveva cambiato la vita. Avevo avuto un figlio, avevo una casa mia. Lavoravo, mandavo avanti le cose, ma mi sentivo sola».

Presto, Fiona e il figlio Jody si sono trasferiti a Nashville. A 48 anni, Prine si era già sposato due volte. «Ero ad alto rischio», ha detto, ma si è buttato nella vita familiare. Fiona ha partorito Jack nel 1994 e Tommy l’anno successivo. Jody aveva 12 anni quando si è trasferito in America e ha subito dovuto imparare come si vive con una figura paterna leggenda del folk. «Se non ricordo male quando andavo al liceo ha suonato al Ryman, era molto fico», dice Jody. Ricorda di essere stato colpito dalla sua natura infantile: «Avevo trovato qualcuno che amava il Natale più di me, era incredibile», dice. Il cantautore era famoso per tenere tutto l’anno l’albero di Natale in salotto; a volte si vestiva da Babbo Natale.

Nel 1996 Prine ha trovato un nodulo sul collo. Pensava fosse un vaso sanguigno, ma era un cancro al quarto stadio. Ha sconfitto la malattia, ma quando i chirurghi hanno rimosso il tumore si sono portati via anche un pezzo del suo collo. Quando un dottore gli ha detto che rischiava di non poter più cantare, Prine ha risposto: «Mi ha mai sentito cantare?».

Fiona si era abituata ai suoi ritmi. Si svegliava verso mezzogiorno, andava a mangiare in posti semplici come Arnold’s, il suo preferito. Quando Fiona faceva le faccende di casa, lo ascoltava recitare le scene dei film mentre li guardava. «La sua grande emozione quotidiana era scoprire cosa avremmo mangiato per cena», dice. Sa quanto sarebbe stato felice di vedere che i suoi eroi musicali gli hanno reso omaggio. «Rispettava profondamente Springsteen e Dylan e, in un certo senso, tutti quelli che avevano ottenuto più successo di lui. Insomma, era un fan».

Qualche anno fa, Tom Hanks gli ha spedito una macchina da scrivere. A quanto pare l’attore era un grande ammiratore, e aveva letto in un’intervista che Prine amava scrivere i testi a macchina. «Era eccitato come un ragazzino: il suo attore preferito gli aveva mandato un regalo per posta. Era sconvolto».

Sul palco Prine era un cantastorie loquace, ma nella vita privata era più quieto e riflessivo. «Non ero mai sicuro che stesse ascoltando sul serio», dice Jody. «Ma in realtà era così che faceva. Non rispondeva subito. Dicevi qualcosa e lui aspettava qualche secondo. Tu pensavi: “Devo ripetere tutto?”. In realtà, stava considerando varie idee».

Jody ricorda di una brutta separazione da una ragazza, ai tempi del liceo, e di come si era aperto con John. «Il tipo che aveva scritto Far From Me era ovviamente in grado di capire i miei sentimenti. Non psicanalizzava le cose, ma offriva un modo diverso per guardarle». Fiona dice che da un certo punto di vista suo marito era un tipo difficile da conoscere. «C’erano cose di cui non riusciva a parlare normalmente, cose che lo spaventavano, forse cose di cui si era pentito», dice Fiona. «Ma riusciva a parlarne nelle canzoni».

La gentilezza di Prine era leggendaria, soprattutto tra i cantautori di Nashville. «John e Willie Nelson sono le persone più riverite della storia dei backstage», dice Snider. «Nei rumor che girano nel nostro piccolo mondo non esistono storie strane su quei due. Non c’è nessun “e poi ha ribaltato il tavolo e ci ha mandato tutti a fare in culo”. Storie del genere ci sono su chiunque».

Prine si è offerto per anni di adottare Jody, e lui ha accettato quando aveva 20 anni. Ricorda quando sono andati al tribunale insieme, circondati da famiglie più giovani. «Anche il giudice pensava fosse una cosa dolce», dice. «Eravamo due persone adulte e avevamo deciso di diventare una famiglia».

Nel 2015, il manager Al Bunetta è morto. Lui e John erano migliori amici da decenni, e Prine ha pensato di ritirarsi. Aveva appena superato la seconda battaglia con il cancro, e nel 2013 gli era stato asportato un pezzo di polmone. Ma ha detto alla sua famiglia che avrebbe continuato a suonare se avessero gestito i suoi affari. «Ho detto: “Beh, ok, non so nulla di queste cose, ma finché le tue aspettative sono basse…”», dice Jody ridendo. «La salute di John andava e veniva, ma in tour si sentiva meglio. Volevamo che continuasse».

John Prine sul palco con Zach Williams, Lucius, Roger Waters, Jim James e Margo Price. Foto: Nina Westervelt/Shutterstock

Mentre la famiglia gestiva i suoi affari, tutti volevano che Prine registrasse un nuovo album. Era passato un decennio dal precedente. Convincere John ad andare in studio era «come levarsi un dente», dice Jody. Non pensava che un nuovo disco fosse necessario, le sue vecchie canzoni trovavano ancora nuovo pubblico, e l’idea di scrivere materiale al livello dei vecchi classici lo innervosiva. «Non voglio sedermi e scrivere un paio di strofe sagaci, o qualcosa del genere», mi ha detto nel 2016. «L’ho fatto e non voglio ripetermi». La famiglia, però, l’ha convinto a provare. L’anno successivo Fiona ha prenotato una sala all’Omni. Prine si è presentato con buste della spesa piene di vecchi testi e qualche chitarra, e in meno di una settimana ha scritto il grosso del disco.

Le reazioni a The Tree of Forgiveness sono state diverse rispetto a quel che Prine aveva vissuto fino a quel momento. L’album è arrivato al quinto posto della Billboard 200, il debutto migliore della sua carriera. Ha suonato i concerti più grandi della sua storia, incluso un tour sold out iniziato al Radio City Music Hall di New York. All’improvviso, non poteva andare in aeroporto senza correre il rischio di essere riconosciuto.

Ha colto l’attimo. Ha suonato più furiosamente che mai e la sua scaletta si allungava fino a raggiungere lunghezze degne di Springsteen. Al Ryman Auditorium, alla fine del 2018, ha suonato 29 canzoni, aiutato da Jason Isbell, Amanda Shires, Todd Snider, le Secret Sisters, Sturgill Simpson e altri. «Era pazzesco», dice Jody. «Gli dovevamo dire cose tipo: “Non devi suonare così tanto, nel pubblico c’è gente più vecchia di te”. Ma amava stare lassù».

«Una delle ultime volte che l’ho visto, dovevamo fare un concerto nella mia città, Portland», ricorda Snider. «Sono riuscito a portarlo nella mia pizzeria preferita. Sia lui che Fiona l’hanno adorata. Quel momento per me vale più dell’intero tour. John stava combattendo. Aveva appena sconfitto il cancro. Ma teneva concerti straordinari e si vedeva che voleva stare sul palco. Una delle ultime volte che abbiamo cantato insieme, l’anno scorso al Ryman, dopo il concerto mi ha preso la mano e ha detto: “Ti voglio bene, Todd”».

Mentre Prine faticava a gestire alcuni aspetti della sua rinnovata popolarità, amava essere riconosciuto dagli artisti più giovani. Nel 2010 Justin Vernon, My Morning Jacket, Those Darlins e altri hanno registrato il disco tributo Broken Hearts and Dirty Windows e negli anni successivi il suono di Prine è stato amato da nuove generazioni di musicisti country e Americana. «Amava i giovani artisti che lo cercavano», dice Fiona. «L’idea di andare alla Bridgestone Arena (a Nashville) per un concerto non era tipica di John. Ma quando ha saputo che Kacey Musgraves avrebbe chiuso il tour lì, non c’era modo di fermarlo. Ha pianto tutto il tempo. Era come un genitore».

A gennaio, Prine è partito per Los Angeles per ricevere un Grammy alla carriera. Mentre Bonnie Raitt cantava Angel from Montgomery e parlava della sua influenza su di lei, Prine era fra il pubblico e sorrideva accanto a Fiona e Jody indossando occhiali alla Jack Nicholson. «Gli è piaciuto molto», dice Jody. «Era divertente per lui stare in mezzo a tutte quelle celebrità. Leggeva molti giornali, quindi non dovevo spiegargli chi fosse Billie Eilish».

Nell’ultima strofa di Paradise, Prine canta: “Quando morirò, lasciate che le mie ceneri galleggino lungo il Green River”. È esattamente quello che succederà. Metà delle sue ceneri verranno gettate sul fiume dove passava l’estate con la famiglia. L’altra metà verrà seppellita a Chicago vicino ai genitori.

La famiglia Prine non può fare un funerale pubblico, adesso, ma sta cercando un modo per celebrare John. «Laverò tutte le sue Cadillac e le parcheggerò nel viale», dice Fiona. «Non gliel’avrei mai lasciato fare». Jody dice che ricorderà il padre «nelle piccole cose, perché era quello che amava: un hot dog, un cono gelato. L’altra sera mangiavamo il gelato e pensavamo a quando, dopo un concerto, si faceva portare una torta per far finta che fosse il compleanno di qualcuno».

L’ultima canzone dell’ultimo album di John Prine si chiama When I Get to Heaven. È un monologo in cui parla di andare in un “magnifico hotel” per aprire un bar chiamato Tree of Forgiveness, dove passare il tempo con la famiglia, bere e fumare, magari insieme ad “alcuni critici scelti”. «La sorpresa più grande è stata scoprire quanto profonda e semplice fosse la sua fede in Dio e nell’aldilà», dice Fiona. «Parlavamo spesso di come Dio apparisse all’improvviso nelle sue canzoni. Era davvero convinto, senza ombra di dubbio, che dopo la morte sarebbe andato in paradiso».

«Immaginava il paradiso pensando alle parti della sua vita che amava di più», dice Jody. «Per lui il paradiso non era diverso dalla vita di tutti i giorni. E questo è incredibile».

Ha collaborato Jonathan Bernstein.

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