«Possiamo sentirci domani? In questo momento siamo fermi in autostrada col furgoncino in panne.» Così, il primo tentativo di intervista con gli Zu è finito in fumo. Lo stesso che, stando a quanto mi ha raccontato Massimo Pupillo, usciva dal cofano del van probabilmente per uno scazzo al radiatore. Un bel modo per iniziare il tour.
Ci riproviamo il giorno dopo e lo storico bassista della band, che insieme al sax baritono di Luca Mai costituisce il nocciolo dal ’97, può finalmente raccontarmi di Jhator. È l’ultima creatura dei romani, nata dopo anni difficili che hanno quasi portato allo scioglimento. Sempre meno attaccati a generi e strutture dei brani, Massimo, Luca e il nuovo acquisto Tomas Järmyr (batteria) hanno tagliato corto con la tracklist ma prendendosi in compenso la libertà di far durare le uniche due Jhator: A Sky Burial e The Dawning Moon of the Mind oltre 20 minuti ciascuna. Storie quindi, più che brani. Con un inizio, uno sviluppo narrativo che lascia spazio a pause e riprese (un fluido indefinito di dark ambient, doom e pure post-rock) e una conclusione. Forse il loro album più maturo finora.
Piccola nota a margine: non cercate mai la parola Jhator su Google Immagini se siete in ufficio.
Ma cosa è successo? Ha preso fuoco il furgone?
Il furgone del tour ci ha abbandonato. Ha iniziato a fare rumori, puzza di bruciato. Ci siamo fermati 10 volte, abbiamo fatto Ravenna-Torino in 7 ore. Per fortuna non ha preso fuoco, stamattina il nostro uomo che si occupa di queste cose è andato a Milano a prendere un altro furgone. Questo lo lasciamo qui.
Che sfiga, proprio all’inizio del tour.
Sì, abbiamo iniziato tre giorni fa. Ma queste cose sono classiche, succedono sempre all’inizio.
Calmi e placidi! Quante volte vi è capitato?
Siamo abituati, all’inizio dei tour più lunghi succedono sempre queste cose. Se non ti abitui agli imprevisti non puoi fare questa vita. Devi prenderla con calma.
La formazione è la stessa dello scorso disco?
In realtà no. Tomas, il batterista, gira con noi per la prima volta, suoniamo insieme da due anni. Nell’ultimo disco, Cortar Todo, il batterista era Gabe Serbian dei Locust.
Quindi la sua era solo un’ospitata.
No, non era tanto un’ospitata. Diciamo che è stato un esperimento nato spontaneamente: io ero negli Stati Uniti e Gabe mi ha invitato a registrare con lui. Abbiamo scritto delle cose per gli Zu insieme, è venuto fuori un EP e da lì abbiamo continuato insieme. Purtroppo lui vive lì, quindi ci sono state difficoltà legate alla distanza, lui ha famiglia. È complicato inserirlo in una situazione abbastanza piccola come la nostra. Organizzare le trasferte sarebbe stato complicato.
E tu invece dove vivi?
Io vivo a metà fra Europa, dove torno solo per suonare, e in Perù. In un villaggio dell’Amazzonia.
Come ti trovi lì?
Benissimo, vivo lì da quattro anni. Ci sono andato la prima volta nel 2013 e pensavo di stare una decina di giorni, poi ci sono rimasto 9 mesi, ero in un villaggio indigeno shipibo.
Come ti hanno accolto?
Adesso siamo una grande famiglia, non so come spiegarlo. Molto più che amicizia. All’inizio mi hanno accolto bene, in questo viaggio avevo conosciuto un antropologo inglese che vive lì da un sacco di anni. Lui ha 65 anni e vive lì da almeno 15 anni. Lui mi ha consigliato di andare lì. Era appena tornato dal villaggio, il suo assistente invece ci stava andando e mi ha accompagnato. Mi hanno accolto bene: sono rimasto lì da solo per un sacco di tempo e piano piano sono entrato in confidenza, in quel mondo lì. Adesso è la mia famiglia.
Quanti abitanti ha il villaggio?
L’ho appena scoperto! 1037 abitanti, ma non ci sono mai tutti. Adesso, per esempio, con la stagione delle piogge, il villaggio è inondato dal fiume e molti si sono spostati in città.
Con questo antropologo immagino ci sia stata intesa fin da subito. Gli Zu hanno sempre avuto una fortissima componente antropologica.
Sì, c’è sempre stata una ricerca. Prima era più intellettuale, basata sui libri, sullo studio, diciamo una formazione di seconda mano. Adesso invece è una cosa più personale: ho incontrato questo antropologo e la prima cosa che mi ha detto è che nel 68 ha visto suonare i Pink Floyd con Syd Barrett. La vita è così, si aprono e si chiudono tutti i cerchi.
Lui c’entra in qualche modo con il titolo del nuovo disco?
No, il nuovo disco è figlio del lungo periodo di pausa che ci siamo presi. In questa pausa ho viaggiato moltissimo, non ho fatto altro per due anni e mezzo.
Il periodo di pausa è stato prima del penultimo disco? Come mai vi eravate fermati?
Si, è stato un misto di riflessione, burnout pesante (soprattutto nel mio caso) e Iacopo, il nostro primo batterista con cui abbiamo suonato per 15 anni ha scelto di fare altro. Dovevamo staccare, dovevamo capire, dovevamo risolvere un po’ di cose che non tornavano più, tirare i remi in barca e pensare. Anche ritrovare la motivazione iniziale, e devo dire che ci siamo riusciti in modo molto forte. Capire perché abbiamo iniziato a suonare, quell’entusiasmo lì. Come tutti abbiamo quell’aspetto umano, ti vengono quei virus dentro la testa: “ah ecco c’è poca gente”, “sto suonando in un posto piccolo”… Questi pensieri sono veleno per chi vuole fare questa cosa qui con il giusto spirito.
Sono stato in Himalaya e ho vissuto alcuni mesi lì. Per raccontarti tutto devo fare un passo indietro: ho studiato Religioni e Filosofia dell’India e dell’Estremo Oriente. Non mi sono laureato perchè ho iniziato a suonare. Vengo da un percorso di meditazione, questo mondo ha sempre influenzato molto la mia musica. In questa grossa pausa musicale ho deciso di tornare a quella matrice che mi ha nutrito tanto. Sono andato a vivere in un monastero, ho studiato con una maestra tibetana che seguivo. Ho letto i libri e ho chiesto di studiare con lei: dopo un’intervista mi ha ammesso e sono stato lì quasi un anno a studiare. Una parte di questo periodo l’ho passato negli Stati Uniti, seguendola come volontario. In questo mondo ho scoperto, anzi ho riscoperto delle cose primarie della musica. Il loro mondo è basato sul canto, i loro rituali e la loro quotidianità sono basati su ore e ore di canto. La stessa cosa vale per il mondo shipibo: sono due culture molto legate al canto, alla musica. Studiando e approfondendo alcuni aspetti della vita tibetana ho scoperto questo rituale, la Sepoltura Celeste. Viene fatta questa offerta del corpo agli uccelli, agli avvoltoi. Mi è stato spiegato in un modo molto bello. La sepoltura celeste è una dichiarazione: per loro il corpo è una tuta. Questa tuta è rovinata, consunta e la devi riconsegnare, dare indietro perché non è il punto centrale della nostra esistenza. Questo tema mi è sembrato molto bello, soprattutto rispetto alla cultura occidentale per cui è un tabù, non se ne parla perché magari porti sfiga (risate). Invece è l’altra faccia della medaglia, ognuno di noi deve averci a che fare. Per me la musica è uno specchio di quello che ci succede, per questo è sempre diverso quello che fanno gli Zu. Riflette i nostri cambiamenti, le trasformazioni.
Questa volta siete ancora più diversi del solito. Come mai?
C’è un lato personale, di cose che sono successe alla famiglia Zu. E di questo abbiamo scelto di non parlarne, perché sono cose nostre, private. Dall’altra parte, invece, questo ha portato una riflessione, a uno stringerci come una famiglia che si conosce da più di vent’anni. Ci siamo avvicinati molto. Abbiamo deciso con Luca – con cui condividiamo tanti di questi interessi e di queste passioni, queste cose che apparentemente non c’entrano con la musica ma che la informano, la arricchiscono -, dopo la pausa, di fare una sorta di coming out. Tutti questi mondi che ci ispirano, che nutrono la nostra musica, non li teniamo più nascosti, non li nascondiamo ermetici dentro a un titolo. Abbiamo scelto di uscire fuori: guardate, è questo! Lo sappiamo che il rock & roll “Ufficialmente” non è così, però noi siamo questo. È giusto, a un certo punto, renderlo più esplicito. Anche a livello musicale l’approccio è stato questo: abbiamo reso esplicite cose che sono sempre state nella nostra musica. Cose che prima erano solo sfiorate sono diventate centrali, le abbiamo esplorate in profondità. Il disco è apparentemente diverso, ma quello che guida la nostra musica è sempre lo stesso.
Ascoltando il disco ho pensato all’ultimo di Basinski. È un po’ lo stesso concept: solo due brani ma molto lunghi. Forse questo è il vostro disco più ambient, rarefatto.
Sì, è un disco rarefatto. Ho sempre ascoltato tanto Brian Eno, è stato uno dei miei fari musicali. Non l’ho ancora perdonato perché ha prodotto i Coldplay, però ha fatto delle cose notevoli in un momento particolare. Sull’ambient c’è da fare un discorso legato alla musique d’ameublement, la musica d’arredamento di Satie. C’è anche questa influenza qui, musica di sottofondo, molto spogliata dalla musica stessa: solo suoni. Per noi questo disco ha molto a che fare con l’armonia, intesa in senso molto classico, da scrittura classica. Non saprei spiegarti bene, c’è un aspetto ambient e uno classico, un aspetto drone e anche doom. Sono tutte cose che non amo solidifcare, oggettivizzare. Voglio che passi questo, di questo disco: non è che ora gli Zu sono diventati un gruppo ambient, questo disco è l’espressione di un momento. Abbiamo scelto i mezzi, i timbri che andavano usati in questo momento qui, esplorando i suoni e la stanza.
È uscito sempre per Ipecac, l’etichetta di Mike Patton?
Zu: No, esce per House of Mythology, l’etichetta degli Ulver.
Quindi vi rivredremo ancora su Ipecac.
No, non è finito. Noi non lavoriamo mai con contratti ma sempre disco dopo disco. Pensiamo: “questo disco a chi andrebbe bene”? In questo caso abbiamo scelto l’etichetta degli Ulver, sono perfetti e molto poco legati al rock, molto aperti.
Come sta Mike Patton?
Ci sentiamo molto spesso! Se ci saranno altre occasioni per suonarci insieme le coglieremo: questo dipenderà solo dalla musica. Ma è difficile per noi pensare in questo modo: oggi esce il disco nuovo, piano piano le idee per il futuro si formeranno da sole. Io al momento non ho minimamente idea del futuro: potrebbe essere acustico, elettronico come hardcore. Deve arrivare prima la musica, da quella partiremo e capiremo sia l’etichetta che le eventuali collaborazioni.
L’importante è prendere le cose senza agitarsi, come col vostro furgone.
Sì, esatto! (Risate)