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Graham Nash: «Stephen, Neil ed io non suoneremo mai più assieme»

Senza Crosby, dice il musicista in questa intervista, «mancherebbe il cuore». E poi, il ‘Live at Fillmore East, 1969’ con le registrazioni d’archivio di CSNY, le amicizie e le inimicizie nel gruppo, fare musica a 80 e passa anni

Foto: Fotos International/Getty Images

Sono saliti sul palco del Fillmore East di New York, si sono piazzati su tre sgabelli e hanno attaccato Suite: Judy Blue Eyes senza dire una parola. Era il 19 settembre 1969 ed erano trascorse appena quattro settimane dalla prima esibizione in assoluto di David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash a Chicago (seguita, dopo un paio di giorni, da un festivalino chiamato Woodstock), eppure erano già uno dei gruppi più popolari d’America. Nel backstage il loro nuovo compagno, Neil Young, aspettava che il trio suonasse qualche canzone prima di salire sul palco con loro, trasformando CSN in CSNY.

“C’era un silenzio di tomba al Fillmore”, si legge in una recensione su un giornale locale. “Dopo Suite: Judy Blue Eyes il pubblico ha acclamato il trio, tributandogli una standing ovation. Come sono riusciti un membro dei Byrds, uno dei Buffalo Springfield e uno degli Hollies a salire sul palco del Fillmore, un luogo per acid freaks, suonare musica acustica e farla franca?”.

L’hanno fatta franca perché la scena acid rock stava tramontando e a riempire il vuoto stava arrivando una nuova generazione di cantautori come Joni Mitchell, Carole King, Cat Stevens, James Taylor, Carly Simon e i CSNY. Tempo due anni, il Fillmore East avrebbe chiuso e CSNY sarebbero implosi a causa di attriti, droghe, impegni solisti.

Al Fillmore, i quattro hanno tenuto due show al giorno il 19 e il 20 settembre. Registrati in maniera professionale, rimasti in archivio per 55 anni, i quattro concerti sono usciti come Live at Fillmore East, 1969. Per parlare di quegli show, delle gioie e dei dolori di quel periodo folle, del tour che sta facendo e della morte di Crosby, abbiamo fatto una chiacchierata con Nash, collegato via Zoom da una stanza d’albergo di Evanston, Illinois.

Come è nata l’idea di pubblicare gli show al Fillmore?
Se ne sono occupati per lo più Stephen e Neil a Los Angeles, io ora vivo a New York, ma ovviamente mi hanno tenuto al corrente di quel che stavano facendo. Una delle cose più belle è che in quel momento eravamo amici. Adoravo la musica che facevamo e quando è arrivato Neil siamo diventati più rock… Credo che Neil abbia detto che quella è una delle sue migliori performance di sempre di Down by the River.

C’è qualcosa che ti ha colpito in particolare riascoltando quei concerti?
Penso a quanto ci piacesse stare insieme e suonare. Una sera, mi pare che avessimo già fatto due o tre bis, il pubblico stava impazzendo. Bill Graham è venuto a bussare alla porta del camerino: «Dovete uscire e farne un’altra». Quando gli abbiamo risposto che ne avevamo già fatte tre, ha iniziato a infilare banconote da 100 dollari sotto la porta. Quando è arrivato a 800 dollari, Neil ha detto che avrebbe lanciato i soldi tra il pubblico. Neil, gli ho detto, siamo a New York, se ti metti a buttare banconote da 100 dollari la gente si ammazzerà pur di prenderle.

Ho letto le vecchie recensioni dei vostri primi concerti. Dicevano tutte che andavate controcorrente rispetto alla musica più dura che girava allora.
E lo sapevamo. Anche il primo disco come Crosby, Stills & Nash era soft e acustico. Ma eravamo convinti che, nell’epoca di Hendrix e dei Led Zeppelin, si sarebbe fatto strada arrivando al top. E avevamo ragione.

Appena prima del Fillmore vi siete esibiti al Tom Jones Show e lui ha cantato Long Time Gone con voi. Cosa ricordi di quel giorno?
È stato surreale, ma è andata bene. Tom Jones è un gran cantante, fa un genere di musica diverso dal nostro, ma ha retto benissimo. Ha fatto la voce principale, io ero all’organo, David, Stephen e Neil erano davanti ad accompagnarlo. È stato un momento di televisione decisamente interessante.

Avete suonato per la prima volta Our House proprio al Fillmore…
È una canzone piuttosto semplice. La maggior parte dei miei pezzi nascono da fatti ordinari, cose che sento, che vedo o che qualcuno dice. Our House è un esempio perfetto. Sapevo che se l’avessimo inciso nel modo giusto sarebbe stato un successo.

C’era anche Joni Mitchell tra il pubblico quando l’hai cantata per la prima volta?
Era in terza fila.

Come l’hai vissuta questa cosa?
Ero al settimo cielo. Joni ed io stavamo insieme. Circa una settimana fa abbiamo suonato a Ottawa, in Canada, il luogo in cui ho incontrato Joni per la prima volta. Quella sera ho pensato molto a lei.

Prima di legarsi a voi tre, Neil Young suonava in piccoli club, i suoi primi due album non avevano avuto un gran successo, anche se erano buoni. Alcuni poster non riportavano nemmeno il suo nome e quando ha aperto per i Deep Purple era indicato come Mell Young.
Già, unirsi a noi è stata probabilmente la cosa migliore che abbia mai fatto.

Meno di un anno dopo era già headliner al Fillmore, da solo.
Esatto. Un altro esempio del potere della musica.

Cosa provi riascoltando i nastri del Fillmore?
Gioia per la magia che riuscivamo a creare. Sul palco eravamo noi stessi, scherzavamo, ridevamo. Era fantastico. Un momento magico.

I concerti al Fillmore sono stati gli ultimi che avete fatto prima che la ragazza di Croz, Christine Hinton, morisse in un incidente d’auto. Per molti versi, questo lo ha fatto precipitare in una spirale negativa e la cosa ha avuto un impatto sul gruppo.
È stato un giorno tristissimo. Ce l’hanno detto quando eravamo a bordo piscina, a Nevada City, in California, dove David e Christine avevano preso un posto in affitto. Eravamo nel giardino dove abbiamo scattato le foto per la copertina di Déjà Vu, con quel cane che nessuno sa da dove è venuto fuori e che è entrato nella foto, perfetto. Cose così sono lo specchio di ciò che ci stava succedendo: è stato un periodo magico.

Come vedi il live al Fillmore rispetto a 4 Way Street dell’anno dopo?
A quel punto la mia storia con Joni era finita, anche se le mando ancora dei fiori per il suo compleanno e siamo rimasti amici. Christine era morta, Stephen e Judy Collins si erano lasciati. Era un periodo cupo. Incredibile pensare che era passato solo un anno. Eravamo diversi, un po’ depressi, prendevamo troppe droghe. Era un periodo molto diverso.

Era anche l’anno di Altamont, del Kent State, degli omicidi di Manson. Su tutto quanto gravava una certa cupezza.
E non dimentichiamo che Nixon era impazzito e aveva bombardato segretamente la Cambogia, che è il motivo per cui quattro studenti della Kent State erano stati uccisi. Tutto si è fatto tetro. Davvero. Non era più l’estate dell’amore col sole e i fiori. Era un’epoca molto più cupa, anche per l’America.

Quell’anno, però, avete fatto un sacco di musica.
Vero. Avevamo tutti molta musica, David ha fatto If I Could Only Remember My Name, Stephen ha fatto Stephen Stills ed è entrato nei Manassas, io ho pubblicato Songs for Beginners. È stato un gran periodo per tutti quanti noi.

Perché ci sono voluti così tanti anni per far uscire l’album al Fillmore?
Abbiamo tutti registrato molto e ci sono ancora in giro tanti nastri inediti. Dopo la morte di David, gli abbiamo dedicato l’album, era lui il cuore pulsante della band e la sua scomparsa ci ha impedito di fare altra musica insieme. Non credo che io, Stephen e Neil suoneremo mai più insieme.

Perché?
Non c’è più il cuore. Mio Dio se era matto, ma era il centro, il cuore della band. Se Stephen, Neil ed io suonassimo insieme, la gente sentirebbe la mancanza di Crosby e pure a noi mancherebbe. Sarebbe tutto molto più freddo.

Ogni sera, durante i tuoi concerti da solista, fai sentire la sua voce. Cosa provi nel risentirla?
Mi emoziona. Nel periodo in cui io e David eravamo in rotta, lui si è rifiutato di farmi suonare Critical Mass, che sul disco era legata alla mia Wind on the Water. È stato un grosso dispiacere, perché a prescindere dai nostri attriti non si scherza con cose del genere. Quindi, quando suono Critical Mass e parlo della scomparsa di David, mi emoziono molto. Mi manca tanto, ogni giorno di più, perché la vita è fatta di scelte e io decido di ricordare solo i bei momenti che abbiamo passato insieme, la bella musica che abbiamo fatto. Mi rifiuto di pensare alle cose brutte che sono successe, scelgo di ricordare solo le belle.

Vi siete riavvicinati proprio alla fine. Se fosse ancora vivo, credo che ci sarebbe stata una riconciliazione vera e propria fra voi.
Senza dubbio. Ci siamo mandati delle e-mail, lui mi lasciava dei vocali, avevo fissato una call via FaceTime, volevo che ci guardassimo mentre parlavamo. Poi ha preso il Covid. Anche io non mi sentivo molto bene e abbiamo rimandato l’appuntamento. Un paio di giorni dopo è morto.

Deve averti dato un po’ di conforto il fatto che, almeno alla fine, vi siete parlati.
Molto, sì. Davvero.

Tornando al Fillmore, c’è un bel video della performance del 1970. Pubblicherete mai questo materiale?
Abbiamo molti filmati di quel periodo. Credo che Neil abbia tutto il girato. È una cosa a cui ci dedicheremo prossimamente.

Cos’altro speri di pubblicare, dagli archivi?

C’è un album a cui sto lavorando da qualche anno. Siamo io e David che cantiamo con Stephen Stills, Kenny Loggins, Carole King, John Mayer, James Taylor. È una raccolta della grande musica che abbiamo mettendo le nostre voci su grandi incisioni come Mexico, Love the One You’re With, You Got a Friend o All the Pretty Little Ponies con Kenny Loggins. È roba bellissima. Abbiamo 26 pezzi tra cui scegliere.

Fai un sacco di concerti ancora oggi. Cosa ti spinge a lavorare sodo a 82 anni?
Continuo a scrivere e a sperimentare il potere della musica. Stiamo facendo un ottimo lavoro, è sold out quasi sempre. Incredibile. Adam Minkoff, Zach Djanikian e Todd Caldwell (rispettivamente batterista, chitarrista e tastierista, ndr) sono molto più giovani di me e mi fanno il culo tutte le sere. Devo dare il massimo per essere alla loro altezza. Ci divertiamo.

Stills in pratica si è ritirato, Young suona pochissimo del catalogo CSNY. Sei rimasto l’unico a proporre quella musica. Ti senti in obbligo di mantenerla in vita?
Non sento nessun obbligo. Suonare questa musica mi dà una grande gioia. E voglio che il mio pubblico sappia due cose. Primo: voglio fare musica per loro. Non ho alcuna intenzione di fingere o fare le cose a metà. Secondo: canterò canzoni che ho fatto un milione di volte, ma con la passione che avevo quando le ho scritte. Credo di doverlo al mio pubblico.

Hai una voce più potente di molti cantanti più giovani. Qual è il tuo segreto?
Nessun segreto. Non ho un vocal coach. Non prendo lezioni. Raramente faccio il riscaldamento prima di uno spettacolo. Mi viene spontaneo cantare e, grazie a Dio, mi riesce ancora bene.

I fan vorrebbero vederti sul palco con Allan Clarke degli Hollies un giorno. Credi che sia possibile?
Penso di sì. Allan è piuttosto diffidente, credo che sia un po’ invidioso del mio successo. Abbiamo provato a fare un paio di cose in Buddy’s Back che ho scritto sul nostro comune amore per Buddy Holly. In quel pezzo io canto la parte principale e lui si unisce nel ritornello. E in un suo disco lui canta la parte principale e io entro nel ritornello. Siamo di nuovo legati e questa cosa la apprezzo molto.

Ho avuto modo di vedere Neil e Stephen suonare insieme al Painted Turtle, pochi giorni dopo aver visto te e Judy Collins alla Carnegie Hall.
Com’è andata?

Sono stati fantastici. È stato incredibile vederli suonare quei pezzi di nuovo insieme.
Stephen è ancora un chitarrista favoloso.

A un certo punto hanno fatto Bluebird assieme ed è stato semplicemente magico.
È uno dei motivi per cui Neil è entrato nella band. Quando stavamo parlando di prendere Neil, ho detto: «Un attimo. Non conosco Neil Young. Non l’ho mai incontrato. So che è un buon autore e un discreto cantante, ma devo parlargli. Voglio essere suo amico. Andremo d’accordo?». Abbiamo fatto colazione assieme e alla fine lui mi ha guardato e mi ha detto: «Sai una cosa? Hai bisogno di me in questa band. Hai mai sentito me e Stephen suonare la chitarra insieme?». Pensando a ciò che hai detto, mi sono tornate in mente le tantissime volte in cui sono stato sul palco e ho sentito come conversavano con le chitarre.

È fantastico che siano ancora amici dopo tutto quello che hanno passato.
È ovvio che si stimino moltissimo e si adorino.

Stai lavorando a nuove canzoni?
Scrivo sempre, soprattutto nel contesto politico folle di oggi.

Sei preoccupato per le elezioni?
Sì. La gente continua a dirmi che il testa a testa fra i candidati è serratissimo. Spero tanto che Kamala riesca a farcela, perché credo che un’altra presidenza Trump sarebbe terribile non solo per l’America, ma anche per il resto del mondo. Non capisco la presa che Trump ha sui repubblicani. È come se dicesse una cosa tipo: «Se non votate per me, massacrerò la vostra famiglia». Perché ha un’influenza così forte su tutti?

Vorrei avere una risposta. Ma, per concludere con la musica, pensi che sarai come Pete Seeger e che suonerai ancora a 90 anni?
Perché no? Ho visto Segovia quando aveva 92 anni e mi ha steso. Era bravissimo. È stata la stessa cosa con i Mills Brothers. Quindi, perché no?

Da Rolling Stone US.

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