Quando ho visto i Fontaines D.C. suonare dal vivo come headliner su uno dei palchi principali del Primavera Sound, nel 2022, ho avuto la sensazione di stare osservando in diretta qualcosa di importante che stava capitando proprio lì, in quel specifico momento. Quando fai tre dischi uno migliore dell’altro, quando la stampa musicale inizia a guardarti e trattarti come se fossi il salvatore di tutta la baracca, quando iniziano a fioccare le nomination importanti, quando il pubblico ti riconosce per strada e dalle tante centinaia iniziano a essere tante migliaia ai concerti… ecco, forse qualcosa sta davvero capitando. È il momento in cui una band diventa grande, determinante, segna lo spirito del tempo anche dentro una bolla specifica — che si allarga sempre di più, magari non scoppia, ma si allarga.
Indubbiamente il peso di questo processo ricade su tutta la band, ma la percentuale di peso più grande sta sulle spalle del frontman. Soprattutto se, come nel caso dei Fontaines D.C., si tratta di uno carismatico e “centralizzante” come Grian Chatten. Che per quanto abbia dimostrato di avere spalle larghe, faccia tosta a profusione e abbastanza stile per poter gestire l’intera faccenda, dopo cinque anni dove non si sono mai fermati un secondo, come persone e come band, probabilmente ha ben pensato di aver bisogno di una pausa. Tornare “alla terra”, in Irlanda, soprattutto sulle spiagge desolate nel nord dell’isola. Abbassare il volume e farsi investire dalle suggestioni. Questo è il paesaggio da cui nasce Chaos for the Fly, suo esordio solista che esce questo 30 giugno per la Partisan Records ed è prodotto dal fido Dan Carey.
Chatten è un ragazzo con una certa faccia tosta, un certo carisma, ma è anche uno che ha studiato musica e poesia, che tiene tantissimo all’uso delle parole, come diventano canzoni e come possono essere trasformate in qualcosa di nuovo. Una volta una persona mi ha detto che la poesia funziona di più quando viene recitata e si trasforma in qualcosa di simile a una canzone. Non so se ha ragione, ma per Grian sembra funzionare. Gli chiedo da dove arriva l’ispirazione per il disco. Quelle terre del nord, quelle città abbandonate, quelle comunità di pescatori che sanno tanto di realtà fuori dal mondo. «Ho voluto fare in modo che tutte le sensazioni che ho vissuto diventassero strumento narrativo. Camminare per queste spiagge in rovina, vedere queste comunità che avevano ancora come centro della loro azione la collaborazione… il rapporto con la famiglia. Sono immagini suggestive ma sono cose che mi sono state ispirate anche da eventi realmente successi in questi anni di tour. Soprattutto nel nostro ultimo tour americano».
Forse è proprio per questo che Chaos for the Fly è Grian Chatten al 100%? Per questo non ha voluto portare le canzoni che ha scritto alla band: «Mi sono ritrovato con le canzoni scritte e non volevo arrivare con l’idea che fosse tutto già chiuso dentro la band. Le canzoni sono così e basta. No, allora ho voluto fare diversamente. Arrivare in studio con le canzoni già fatte e lavorare per trovare meglio il suono, consolidare l’anima del disco in modo immersivo. Il lavoro di Dan Carey in questo è stato esemplare per il modo in cui è riuscito a tirare fuori la musica e il suono da tutte le canzoni. Si tratta di un disco molto cupo».
E in effetti Chaos for the Fly non vuole essere una sorta di OPA sul rock’n’roll come i dischi dei Fontaines D.C., ma piuttosto un’occasione di riflessione e introspezione. Un disco quasi dark, se vogliamo. Che per certi versi mi ha ricordato anche alcune cose dei National. Per questo bisognava trovare un gruppo di lavoro diverso, persone adatte a valorizzare al meglio il materiale: «Mentre ci stavamo lavorando abbiamo capito che dovevamo andare in direzioni diverse per arrivare al cuore di quelle canzoni. Dovevamo far uscire quei sentimenti che erano intrappolati lì e magari non sapevo nemmeno ci fossero».
Non gli chiedo dei National, ma gli chiedo quale musica avesse in mente mentre stava scrivendo le canzoni. Ovviamente le recensioni tireranno fuori tantissimi nomi così come le recensioni dei Fontaines D.C. sono tutte un florilegio di questa o quella influenza. Grian ci pensa un po’ e poi racconta: «Stavo ascoltando moltissimo Vic Chesnutt e Lee Hazlewood. Ma soprattutto Vic Chesnutt: riascoltare la sua musica mi ha ricordate cose che avevo dimenticato sul come si scrivono le canzoni. Trovare quella luce nella cupezza assoluta. So che molti scriveranno che si tratta di un disco intimo, un disco folk… ma forse è vero, se per folk intendiamo appunto persone, cioè avere una folk vibe come sentirsi parte di una comunità, per di più isolata, è qualcosa che ti fa anche riflettere sulla solitudine, l’abbandono e lo spaiamento».
Mi interessa molto la questione della solitudine che, in un mondo come questo, dopo la pandemia, è un tema che forse dovremmo approfondire in modo più intelligente. E poi c’è anche la solitudine della rockstar, un tema ancora più specifico: «C’è un tipo di solitudine molto caratteristico delle comunità di mare. Soprattutto in Irlanda. Quella solitudine che si è trasformata nella cultura degli shanty (le canzoni tradizionali marinaresche, ndr), le melodie, la sensazione di andare con la marea, di dipendere dagli elementi. Ho provato a cristallizzare quella sensazione e farla emergere nel disco».
Nelle canzoni di Chaos for the Fly ci sono anche parecchi riferimenti agli Stati Uniti. Ovviamente conosciamo il rapporto tra gli irlandesi e gli Stati Uniti. Non ragioniamo per luoghi comuni. Poi l’ultima volta che sono stato a New York e sono andato a un concerto, mi sono girato ed ero proprio affianco a Grian Chatten (giuro). La relazione con gli Stati Uniti è qualcosa di vero, intimo, profondo. Un porto cui approdare dopo l’idea di movimento per lasciare un posto abbandonato.
«Diciamo che è una relazione complicata. Ovviamente penso sia una sorta di eredità che arriva dalle nostre comunità che si sono spostate lì alla fine dell’Ottocento o qualcosa del genere. E ho trovato molto questa sensazione di “nostalgia americana” nelle persone. Ma non volevo fermarmi qui. Anche in questo caso volevo che le sensazioni diventassero suono, che ci fosse anche una sorta di “qualità americana”». A questo punto gli devo chiedere della poesia, del tipo di maturazione che si sente di aver fatto come autore. Perché i testi di Chaos for the Fly mi sembrano davvero frutto di un percorso di crescita come autore, più che come musicista: «Credo si tratti della versione più pura di me che si possa avere in questo momento».
Mi sembra un titolo perfetto per questo articolo perché capace di spiegare alla perfezione che tipo di disco sia Chaos for the Fly. Un disco davvero molto bello e con un senso di urgenza che va da una parte diversa rispetto ai Fontaines D.C., che sono un’ombra ingombrante più per noi che ne scriviamo che per Grian Chatten. Una versione “pura” di sé stesso in un disco che riflette sulle sensazioni e cerca di farne musica. Sicuramente musica fatta per restare, che di questi tempi è già un grande risultato.