Mi dà appuntamento in un bar strafigo – il rooftop del ME Milan Il Duca – nel tardo pomeriggio. Chiede al barman che ore sono, quasi le sei. Si può partire quindi con l’alcol, dice. E ordina un Bloody Mary.
In un momento di continua espansione della musica urban (d’ora in avanti, su suggerimento dello stesso Gué, chiameremo così quel mix di rap, R&B, latin, pop, trap, dance che è il suono contemporaneo) Gentleman è un album non pensato per fare nuovi proseliti tra i ragazzini, ma fatto per segnare la propria superiorità – di ricerca, stile, esperienza – tra chi questa materia la mastica già. Gli chiedo se è d’accordo con me.
«Gentleman è pieno delle influenze della musica con cui sono cresciuto: c’è anche il reggae, la musica della mia adolescenza. È un disco urban e black, lontano dalle cose italiane che girano ora. Non è snobismo, è proprio che non mi piacciono. Ho fatto convivere la trap con la musica caraibica, perché il latin trap esiste ed è un genere che altrove ha sostituito il reggaeton. La mia attitudine è di essere musicalmente sempre competitivo con quello che succede, soprattutto all’estero».
Mi sono piaciuti molto i pezzi più sperimentali, da Oro giallo con Luchè fino a La malaeducazione con il featuring di Enzo Avitabile.
Sono pezzi riconducibili alle tendenze mondiali del momento, un lavoro di ricerca che continuo sempre a fare in anticipo rispetto agli altri: con Ragazzo d’oro, nel 2011, sono stato il primo a fare trap in Italia, con i Club Dogo usavamo l’autotune nel 2008. In Gentleman ho fatto quello che volevo, senza preoccuparmi di suonare come un ventenne alla Ghali. Oro giallo è molto swag alla ASAP Rocky: l’ho registrato ubriaco e fatto alle cinque del pomeriggio in studio, così come lo senti. Quello con Avitabile è il pezzo serio del disco. Io sono un fan del regista francese Audiard (Gué ha già fatto una canzone dal titolo Ruggine e ossa, ispirata a un titolo di un suo film, ndr) e insieme al mio amico Frank White, che ha vissuto esperienze simili, volevamo scrivere un pezzo ispirato a Il profeta, molto realistico. A Napoli ho conosciuto Enzo, abbiamo amici in comune e ho pensato che per questo pezzo era perfetto.
Hai lavorato molto sulla metrica, sul flow…
Ho 36 anni e avevo voglia di provare a fare cose più difficili artisticamente, come Non ci sei tu. Non ci guadagno un cazzo, non mi danno una medaglia, ma questa è la sola ragione per cui faccio musica. In più sono un feticista della forma, della metrica.
Cantando, anche se con l’autotune, ti tocca confrontarti con la musica pop italiana: il ritornello di Trentuno giorni sembra uscito da un Festivalbar anni ’80…
Dal rock progressivo fino a Mina e gli Stadio, passando per Questione di feeling, la musica italiana fino a un certo punto è stata una figata. Dopo, invece, è tutto una merda. Trentuno Giorni è ispirata ad Alberto Radius, però più stile ghetto.
Come hai scelto i featuring?
Arrivavo da un disco, Vero, dove mi ero molto “pompato”. Lo dico con ironia: pensavo di essere più di quello che ero. E quindi avevo fatto solo un featuring con Akon. In Gentleman ne ho fatti molti perché è uscita una nuova scena e mi sono circondato delle migliori young guns: c’è Sfera Ebbasta che veniva a casa mia quando suonava davanti a cinquanta persone e aveva lo Swatch. Ricevere rispetto e stima da questi ragazzi per me è bellissimo, sento di aver fatto qualcosa d’importante. C’è il pezzo “alla Migos” con Marracash, Relaxxx, che ha una base super di Charlie Charles. Ho fatto due pezzi con Sick Luke, è il figlio di un mio amico – Duke Montana – e l’ho visto crescere. E con Sick Luke è nata l’idea di fare un pezzo (Scarafaggio) con Tony Effe della Dark Polo Gang.
Dark Polo Gang? Mi ricordano noi Club Dogo da piccoli, però loro si drogano di più
Che ne pensi di loro?
Sono al momento il mio gruppo italiano preferito. Mi ricordano noi Club Dogo da piccoli, stessa attitudine rock’n’roll. Però loro si drogano di più, noi pippavamo e basta. Sono nati come gruppo LOL e hanno fatto il giro, erano così trash che ora sono una figata.
Intervistando Ghali, mi ha fatto molto impressione l’aspetto manageriale della nuova scena, come se fossero imprenditori più che musicisti. È una cosa che hanno ereditato dal tuo modo di avere a che fare con la musica?
Abbiamo lasciato tanto a questa generazione. Ghali l’ho lanciato io ai tempi con l’etichetta Tanta Roba quando era con il suo gruppo Troupe D’Elite. Ma ti dico una cosa: noi al 95% eravamo interessati alla figa. Mentre questi ragazzini no, gli interessano di più Gucci, gli sciroppi o fare 5 milioni di views su YouTube. Io sono uno sincero, lo sai, non ringrazio e non lecco il culo a nessuno. Oggi va più il modello Fedez: febbre per i numeri e umiltà finta. A me frega solo della musica e dei soldi, stop.
È stato un anno difficile, segnato dalla scomparsa di tuo padre. Ma il disco sembra più guardare fuori, piuttosto che essere introspettivo, giusto?
Sì, ho esorcizzato lavorando un sacco e viaggiando come un matto, dalla Colombia a Cuba, passando per Miami e l’Indonesia. Più avanti magari potrò riflettere e fare delle canzoni su questo, per ora volevo solo fare un disco potente.
Nomini spesso Gucci o Versace, come molti rapper. Poi però Gucci fa l’evento e invita a sfilare i Baustelle, mica voi…
Vero, l’Italia è piena di persone sbagliate nel posto giusto, soprattutto nella moda: dovrebbero osare, essere un po’ rock’n’roll. Da noi in pochi, tipo Marcelo Burlon, hanno sposato la causa. Ma alla fine ’sticazzi: noi Gucci ce lo compriamo comunque.
Dove sta andando l’hip hop italiano?
Sicuramente non a San Siro, come un Tiziano Ferro. C’è sempre un pregiudizio sul genere, e al massimo si riempie qualche palazzetto…
I Club Dogo torneranno sulla scena?
Non lo so, credo che ci siano delle cose che stanno giuste dove “stavano”. L’ultimo disco dei Dogo anticipava tutto quello che c’è ora. E oggi abbiamo preso strade diverse: Jake sta lavorando in televisione, è bravo e ha un talento, musicalmente sta facendo il Fatman Scoop italiano, che è una figata. Tornare in studio insieme sarebbe davvero difficile.